L'olivo
Parole
chiave:
Immagini, frantoi ipogei,
trappeti, commercio, rural landscape history, storia paesaggiio agrario,
olio, Magna Grecia, Medioevo, Villa rustica, flora, feudalesimo,
giardini, Taranto, Puglia, Italia meridionale, Masserie, Edilizia Rurale
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Sommario:
L'importanza
La storia:
L'Antichità
Il Medioevo
L'Età Moderna
La
coltivazione
La
trasformazione e la commercializzazione
Riferimenti
bibliografici
Torchio
alla genovese
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L'importanza dell'olivo e dell'olio che si ottiene
dalla spremitura delle suoi frutti (drupe) nella storia economica e della cultura
mediterranea è enorme, e nel corso del tempo si è arricchita di
sempre nuovi spunti e suggestioni (si pensi alle molteplici evocazioni contenute
nel Vecchio e Nuovo Testamento), tanto da poter assumere che vi abbia
concorso alla sua definizione antropologica.
Oltre che come alimento (anche se fino al Medioevo, tranne che nella Quaresima e
nelle vigilie,
il condimento principe fu il grasso animale) l'olio (la qualità
chiamata lampante) veniva impiegato come combustibile
per le lampade di illuminazione, sia per uso domestico che devozionale,
ed aveva larghi impieghi medicinali ed industriali, specialmente nella fabbricazione dei
saponi. E proprio le industrie
saponiere di Marsiglia e di Genova furono, nel corso dell'Età
Moderna, i
principali clienti della produzione tarantina.
L'intrinseco ruolo mercantile dell'olio, insieme a quello del
grano, ispirò la vocazione commerciale del porto di Taranto.
Tramite
l'olio la città mise in relazione il suo vasto hinterland oleicolo
con
le prestigiose realtà centroeuropee. Tuttavia la struttura del
commercio, per
lo più delegato a intermediari di estrazione napoletana, fece sì che la
maggior parte dei realizzi fossero dirottati altrove.
L'olio divenne altresì, specie nel '700,la principale garanzia per la
restituzione delle anticipazioni di denaro, per cui esso rivestì un importantissimo
ruolo nelle intermediazioni finanziarie.
Un ultimo aspetto riguarda la produzione di legna da ardere ricavata
dalla periodica
potatura degli alberi di olivo, e che garantì, nonostante la progressiva
contrazione del primitivo manto forestale,
il regolare rifornimento di combustibile per la città.
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Le
origini della olivicoltura
tarantina risalgono, con tutta probabilità alla Protostoria. Essa rientra
nei processi di acculturazione delle popolazioni appenniniche innescati
allorquando queste giunsero a contatto con l'evoluto Mondo Egeo,
segnando la transizione da un'economia prevalentemente pastorale all'adozione di
pratiche agricole più avanzate.
Fu però solo con l'avvento dei coloni greci che
l'olivicoltura raggiunse livelli quali-quantitativi elevati, diffondendosi in prevalenza
lungo le coste.
Nel corso dell'Età
tardo-repubblicana e primo-imperiale la coltivazione dell'olivo rientrò
nel programma produttivo delle villae rustiche, e la sua
produzione fu certamente ulteriormente incrementata e migliorata, dato che
l'olio tarantino era paragonato ad una delle qualità
di olio più rinomate nell'antichità, quello prodotto a Venafro, in Molise.
Vennero selezionate diverse cultivar (chiamate sallentine), considerate
di
pregio dagli scrittori tecnici romani.
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La crisi dell'agricoltura italica e del sistema economico centrato
sulla villa rustica schiavile
si accompagnò alla contrazione delle aree adibite alla olivicoltura ed allo scadimento delle tecniche colturali, verso forme di
semi-inselvatichimento che prevalsero fra Tardoantico ed
Altomedievo.
Furono soprattutto i religiosi (gli ordini monastici
in primo luogo), per preminenti motivazioni liturgiche, a tenere in vita
la tradizione oleicola (anche all'interno
dei giardini urbani e suburbani) ed in
seguito a guidare la sua ripresa, seguiti poi dalle componenti
signorili della società, che aggiunsero a quelle di prestigio anche
finalità commerciali.
La Rivoluzione Agricola Medievale ebbe
proprio nell'incremento della olivicoltura uno dei
più importanti motori economici.
Con l'olio il territorio ebbe
l’opportunità di
aprirsi ai mercati internazionali, proprio nel momento di massimo sviluppo delle
linee commerciali mediterranee sulla scia delle imprese militari in
Terrasanta.
L'importanza economica di questa attività non sfuggì alle attenzioni dei baroni,
i quali imposero che all'interno dei rispettivi feudi i vassalli dovessero
correspondere la decima parte del prodotto (in genere
in olio e non in olive, per cui risparmiavano anche su costi di
trasformazione) ed utilizzare i suoi frantoi (trappeti), con
ulteriore aggravio di oneri.
A differenza del Barese l'espansione dell'oliveto nel Tarantino non
definì una distinta fascia oleicola;
la coltura pura, peraltro abbastanza limitata, si
affiancò sempre ad un
prevalente sistema misto, oleicolo-cerealicolo, se non a
forme semiselvatiche.
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Ad
Età Moderna risalgono gli esemplari più maestosi di olivo presenti
nel Tarantino, come quelli qui accanto, da Masseria
Piccoli
(Crispiano).
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La crisi tardomedievale ricondusse l'olivicoltura
specializzata a ristetti ambiti periurbani.Solo alla fine del ‘600 essa tornò ad espandersi,
occupando spazi sempre maggiori all'interno delle masserie,
che spesso si dotarono anche di propri impianti di trasformazione (trappeti),
sino ad allora situati per lo più in città.
Il '700, con un trend del mercato oleicolo costantemente in
crescita, consacrò l'olivo come coltura leader, e
l'olio la merce
mercantile per eccellenza, in grado di inserire Taranto in un sistema di stabili
relazioni culturali con le aree maggiormente sviluppate dell'Europa
(Francia,Inghilterra ed Olanda).
Tuttavia l'ampliamento della produzione non si accompagnò al significativo
miglioramento delle tecniche di trasformazione, per cui il Barese, più avanzato
in questa ricerca, acquisì un vantaggio competitivo che resta largamente,
tuttora, immutato.
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Fra
Sei- e , soprattutto, Settecento, la maggior parte del piano
pedemurgiano fu ricoperto di vastissimi oliveti, noti come marine,
alcuni dei quali alcuni sono tuttora produttivi.
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L'olivicoltura era la
coltura più praticata sui terreni leggeri, sassosi, superficiali, insistenti su
calcarenite, anche affiorante: l'impianto di un oliveto costituiva
quindi il
sistema ecologicamente più razionale per accrescere i
rendimenti unitari delle terre più ingrate e tanto diffuse nell'entroterra
tarantino.
Il metodo di gran lunga più seguito per la propagazione dell'olivo seguiva di
pari passo l'ampliamento dei seminativi ai danni della residua macchia
mediterranea. Essa consisteva, infatti, nell' isolare le piante selvatiche
(l'Olivastro o termite) e nell'innestarle nelle varietà gentili; in
seguito la pianta restava immersa nella macchia e solo in coincidenza della
raccolta dei frutti la superficie sottostante veniva sottoposta a coltivazione,
con la creazione del largo. Solo in un secondo momento, e quando
possibile, la macchia circostante veniva definitivamente svelta ed il terreno ridotto a
seminativo.
I termiti in sovrannumero erano oggetto di commercio, venendo
utilizzati per l'impianto di oliveti in aree prive di serbatoi naturali.
Nella seconda metà del ‘600
si impose il sistema della coltura pura, in cui gli oliveti (marine,
chiuse se difese da muretti a secco) vennero affrancati
definitivamente dalla macchia.
Il terreno degli oliveti era anch'esso seminato, ma non seguiva l'intera
rotazione dei seminativi.
Il ciclo produttivo dell'olivo durava quattro anni, tanto quanto i
relativi contratti di
fitto; ciò anche in considerazione delle naturali,
forti, oscillazioni delle rese, connesse anche con le
periodiche operazioni di potatura. |
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Alcune immagini,
fra le più suggestive dell'architettura rurale, di frantoi
ipogei (trappeti). In
alto il trappeto di Masseria Todisco (Statte) e
quello del Marchese (Montemesola); accanto
l'ingresso al trappeto di Masseria Lonoce (Grottaglie);in
basso angioli e fiscoli,
strumentario impiegato nella produzione dell'olio (dal Museo
Storico di Masseria Lupoli- Crispiano). |
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La produzione dell'oliveto poteva essere concessa in
fitto
insieme al resto della masseria, se ne faceva
parte.
Più spesso, però, la gestione dell'oliveto rimaneva ben distinta rispetto al resto
dell'azienda.
Talvolta il proprietario preferiva gestire personalmente (in
economia) tutte le fasi, dalla coltivazione alla commercializzazione,
passando attraverso la raccolta
delle olive, al loro trasporto nel trappeto ed
alla successiva trasformazione. Un'altra modalità prevedeva la messa in
società, nella quale un socio esterno (coltivatore
o imprenditore a sua volta, singolo o in società con altri)
si accollava tutte le spese, mentre la produzione veniva
divisa a metà.
Una terza modalità prevedeva la vendita della produzione sull'albero, previa
complesse operazioni di stima.
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Le notizie fornite sono tratte da:
F. Ghinatti:
Aspetti dell’economia agraria della Magna Grecia agli inizi dell’impero, in
Critica Storica III(1973), p.p. 369-396.
F. Ghinatti:
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Pini
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di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, XXXVII:
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Montanari
M.: Vegetazione e alimentazione, in Settimane
di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, XXXVII:
L’ambiente vegetale nell’Alto Medioevo, Spoleto 1990, pp.
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G. Cherubini: I prodotti della terra: olio e vino, in
Atti delle settime giornate normanno-sveve: Terra e uomini nel Mezzogiorno
normanno-svevo, Bari 1987, pp 187-233.
R. Licinio: Uomini e terre nella Puglia medievale,
Bari 1983
B. Salvemini:
Prima della Puglia. Terra di Bari e il sistema regionale in età moderna, in
Storia d’Italia.Le regioni dall’Unità ad oggi: La Puglia, Torino,
1989
M. Milizia
Fasano: Il trappeto sotterraneo in Terra d’Otranto, Cavallino 1991
A. Monte:
Frantoi ipogei nel Salento, Lecce 1995.
17 dicembre, 2001 00:07
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