Nereo Villa, "IL SACRO SIMBOLO DELL'ARCOBALENO, Numerologia biblica sulla Reincarnazione" (Prefazione), SeaR Edizioni, Reggio Emilia, aprile 1998

Prefazione (Descrizione degli undici capitoli) - Premessa (Distinzione fra unità di misura e unità aritmetica) - Introduzione - La creazione - Cap. 1° - Il riconoscimento dell'Io - Cap. 2° - La colomba, la nave e il pesce - Cap. 3° - Il mondo delle essenze - Cap. 4° - Imbarcazioni - Cap 5° - Non si può sopprimere l'arcobaleno - Cap. 6° - Dall'arcobaleno all'iride - Cap. 7° - L'arca, l'alfabeto astrale e il karma - Cap. 8° - Il geroglifico dell'infinito - Cap 9° - Il prete Gianni - Cap. 10° - L'albero della conoscenza... del Karma - Cap. 11° - La pentola d'oro

L'ALBERO DELLA CONOSCENZA... DEL KARMA

Il secolo futuro sarà un periodo in cui l'uomo anelerà alla gnosi, alla conoscenza. Già Einstein sosteneva che "il senso della religiosità cosmica è il più forte e nobile incentivo alla ricerca scientifica"(1).

Soprattutto la conoscenza del problema del male dovrà farsi strada nell'uomo, se egli non vorrà accontentarsi solo di risposte del tipo: "Il male è un mistero", occludenti il suo impulso a conoscere. Egli sempre più difficilmente potrà sentirsi appagato dalla chiusura della sua coscienza, anche perché, avendo mangiato la "mela del peccato", l'uomo odierno non può più vietarsi di conoscere l'albero del bene e del male, da cui la mela proviene. Attualmente un simile divieto farebbe sussultare il serpente della tentazione che molto probabilmente sarebbe portato sarcasticamente a dire: "Hai mangiato la mela... ora non puoi più rifiutarti di mangiare la foglia...".

L'albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male oggi non possono più essere considerati attribuendo ad essi la medesima valenza che avevano nel "Giardino dell'Eden", nel "periodo" precedente il "peccato originale", quando il tempo ancora non esisteva.

Certo, allora aveva senso vedere quei due alberi come qualcosa di antitetico: ne era in gioco l'equilibrio stesso del Cosmo.

L'organismo perfetto e onnipotente dei cieli produceva solo armonia e perfezione, giustizia e innocenza, fiumi ove scorrevano latte e miele.

Così però non durò, e quando il "picciolo della mela" fu rimosso, qualcosa mutò anche in ciò che quella mela - per via della sua figura quasi completamente sferica - simboleggiava: il cosmo. Così, il distacco dell'asse dell'equatore da quello dell'eclittica, prima del quale non esisteva il tempo, produsse le quattro stagioni ed ebbe inizio la storia.

Gradatamente, il sole equinoziale, estromesso dal suo settore di cielo, si diresse verso condizioni e configurazioni nuove. Ecco l'evento spaventoso, il delitto inespiabile attribuito agli angeli ribelli: avevano spinto il sole fuori posto, ed ora esso era in movimento, l'universo si era guastato e nulla sarebbe mai ritornato al proprio giusto posto. Il punto equinoziale era avanzato pian piano e la macchina del tempo aveva cominciato il suo moto eterno, recando nelle parole delle Scritture "un nuovo cielo e una nuova terra" ad ogni età(2).

E nasceva l'arcobaleno...

Quando l'uomo, costretto a percorrere la sua storia salendo le faticose alture, perché le pianure della perfezione non potevano più essere abitate, diventate mari, sommerse dal diluvio, egli entrava nella nuova fase del suo sviluppo per adattarsi all'ambiente... allora, per la prima volta, egli vide "l'arcobaleno"... sopra una nuvola carica di pioggia illuminata dal Sole... e si metteva a contemplare estatico e pieno di stupore, accorgendosi che finché quel segno fosse rimasto in cielo si sarebbero alternati i cambiamenti che chiamiamo stagioni...(3)

Oggi, qui, in questa società, su questa terra, in questo sistema solare, sotto questo cielo e in questo tempo non ha dunque più alcun senso precludersi l'accesso all'albero della conoscenza, anche se paradossalmente ciò viene ancora di fatto impedito proprio dalle confessioni religiose, che in nome dei loro dogmi di fede omettono qualsiasi tipo di spiegazione razionale, dando così per scontato che l'uomo non confessionale non può avere la capacità di conoscere quello che loro presumono di sapere.

Qualunque chiesa, movimento culturale, partito politico, ideologia o gruppo, che inesorabilmente pretenda di imprigionare la coscienza degli uomini - dalla gerarchia sociale più alta e dal Sommo Sacerdote al bambino che impara a balbettare - nel cerchio chiuso di una catechizzazione costruita all'ombra del solo "albero della vita" ("devi fare così per vivere bene") in base a mera autorità ("devi fare così perché te lo dico io e io me ne prendo la responsabilità"), non fa che un'opera di dissoluzione e di morte compromettendo ogni possibilità di libertà, di respensabilità e di dignità personali.

Un organismo sociale orientato alla verità è possibile nella misura del superamento del proprio male, che gli preclude il cammino... a testa alta: oggi l'umanità è malata; soffre di rimozione del suo giudizio critico; non può alzare la testa perché non può usarla, a causa di un sistema preconfezionato di pensieri, di ideologie o di teologie, che si sostituiscono sempre più al suo pensiero, sempre più pigro, e ai contenuti di ciò che un tempo costituiva il suo sano buon senso.

La critica biblica - teologica o "teo-ideologica" - ha dunque un'essenziale missione sociale da compiere, quella di ricondurre alla Verità, alla libertà e alla pace il mondo - il mondo interiore prima, quello esteriore poi.

Il raggiungimento di questo tipo di pace dovrebbe costituire una delle aspirazioni primarie della società, da realizzarsi attraverso un combattimento spirituale proprio in nome della conoscenza del bene e del male, in nome cioè della Verità.

Il concetto di "società", nella lingua ebraica moderna è "hevra". Tale termine si trova anche nel capolavoro letterario della corrente sapienziale della Bibbia, il Libro di Giobbe(4), con il significato di "associarsi, "accomunarsi", "fare società" ecc. e si scrive con quattro lettere, precisamente CHET-BET-RESH-HE, i cui valori numerici sono 8-2-200-5, totale 215.

"hevra"
la parola biblica per "società"

Il 215 è anch'esso un numero sorprendente per vari aspetti. Prima di tutto, essendo divisibile per 5, rende possibile l'importante rapporto 1:4, che abbiamo visto nel sesto capitolo come "codice" della prima forma di vita, in conformità a quanto è esposto nel secondo resoconto biblico della creazione.

Il 215 diviso 5 dà infatti 43, che assumendo la funzione dell'Uno nel rapporto 1:4 permette l'equazione di tale "codice":

1 + 4 = 5

(1x43) + (4x43) = 215

1 : 4 = (1 x 43) : (4 x 43)

1 : 4 = 43 : (4 x 43)

Già da questa equazione è possibile, osservando la struttura numerologica dei primi passi biblici, prendere atto di un preciso collegamento fra il 43 e tutto ciò che il rapporto 1:4 rappresenta.

Ora però, prima di procedere ad approfondirlo, soprattutto in merito all'albero della conoscenza, occorre prendere coscienza di un fatto che non viene mai considerato dalle chiese e cioè che, rispetto alla Bibbia, ogni traduttore fatalmente diventi sempre un contraffattore del testo originale, non importa a quale confessione religiosa egli appartenga.

Il solo fatto di sostituire un linguaggio numerico con un linguaggio non numerico è infatti una vera e propria contraffazione rispetto ai dati numerici che la Bibbia vuole trasmetterci. Si tratta di dati precisi e numerologicamente densi di significato, che non possono essere visti nelle varie mere traduzioni dall'ebraico poiché in queste ultime il numero delle parole è differente da quello dell'originale e non si sospetta neppure lontanamente che quei "resoconti" biblici siano anche veri e propri "resoconti numerici".

Chi dunque legge una Bibbia confessionale, indipendentemente dal fatto che quella traduzione sia più o meno "fedele" al senso del testo originale, può dire soltanto "ci credo" o "non ci credo", però non può neanche immaginare che non si tratta solo di credere o di non credere, bensì di contare per verificare; in altre parole costui non può assolutamente usare il proprio libero giudizio critico. Di fronte al testo biblico, il suo pensare viene fatalmente ridotto al mero sentimento della fede. Così molte cose importanti passano inosservate.

Una di queste è proprio il principio 1:4 in merito ai due alberi dell'Eden: nell'albero della vita e in quello della conoscenza del bene e del male, che si stanno di fronte in "Genesi", esso viene per esempio ad esprimersi in modo nascosto.

Ciò che è nascosto diventa manifesto se si contano i valori numerici delle loro rispettive lettere:

- l'albero della vita, "ets hakaim", è formato dalle seguenti lettere:

HAIN-TZADE HE-KET-IOD-IOD-MEM

in numeri:

70-90 5-8-10-10-40

somma totale:

233

- l'albero della conoscenza del bene e del male, "ets hadat tov wara", è formato da queste altre lettere:

HAIN-TZADE HE-DALET-HAIN-TAW TET-VAV-BET VAV-RESH-HAIN

in numeri:

70-90 5-4-70-400 9-6-2 6-200-70

somma totale:

932

Abbiamo dunque un 233 che sta di fronte ad un 932, cioè un numero che sta di fronte al suo quadruplo. Infatti

233 x 4 = 932

Nel rapporto fra i due alberi è così rappresentato il rapporto 1:4. L'albero della vita rappresenta l'uno, l'albero della conoscenza, il quattro.

Quanto sia significativo per la Bibbia tale rapporto, lo si scopre cammin facendo. Procedendo nel racconto, subito dopo l'accenno dei due alberi è detto:

Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi...
(Genesi 2, 10)

Ancora abbiamo un "uno" e un "quattro". Qui il rapporto 1:4 non è occulto, bensì subito evidente. E' qualcosa di basilare, una specie di formula della vita, un "codice", appunto, che viene dato subito agli inizi della Bibbia.

Si noti altresì che il "Pentateuco", cioè la raccolta dei primi cinque libri biblici, offre al cercatore il rapporto 1:4 in un modo ancora diverso rispetto ai precedenti. In Genesi, che è il primo libro e che pertanto corrisponde all'"1" nel rapporto 1:4, abbiamo il primo resoconto della creazione redatto, come abbiamo visto nel nostro IX capitolo, con 434 parole ebraiche. Non 433 o 435, ma proprio 434 e ciò è oltremodo significativo:

Infine, il quattro simboleggia l'elemento redentivo dell'errore compiuto nell'Eden e che per San Paolo è il nuovo prototipo della conoscenza: la croce. Per questo motivo, l'antico simbolismo insegnava che col legno dell'albero della conoscenza del paradiso si è poi fabbricata la croce di Cristo(5).

Da questo punto di vista, anche le quattro braccia delle croce rientrano nella formula cosmica 1:4, espressa così sapientemente dalla Bibbia. Da una parte l'Uno, l'unico Dio di tutto il cosmo, e dall'altra il Quattro, la sua espressione nella quaternità della croce.

Ora torniamo al 43, che appartiene al 215, cinque volte, quasi per simboleggiare i cinque continenti di tutta la "società" della terra. Si potrebbe dire che il 43 è espressione dell'Unico Dio per tutta la terra: il 43 è infatti il valore geometrico del Nome divino o Tetragramma, Errore. Il segnalibro non è definito., le cui lettere, IOD, HE, VAV, HE, formano appunto la somma:

18 + 8 + 9 + 8 = 43

Se si oserva "al microscopio" questo importante numero, emerge l'antico significato pitagorico delle sue parti che sono il 4 e il 3. L'uomo antico sentiva infatti il 4 come espressione dell'elemento femminile ed il 3 come espressione dell'elemento maschile, dai quali sentiva provenire il 5, espressione dell'elemento "prole". Perché ciò potesse accadere il 3 ed il 4 dovevano ritrovare nel 5 il loro compimento, così come un uomo e una donna lo ritrovavano nella loro prole. In questo modo i pitagorici esprimevano quanto oggi viene studiato come Teorema di Pitagora: il 16 e il 9 erano e sono rispettivamente il compimento "individuale" in cui il 4 ed il 3 ritrovavano e ritrovano sè stessi, mentre il loro massimo compimento possibile o "d'unione" sta nel compimento del 5 nel 5 x 5, dato appunto da 16 + 9. Per tutti i rimanenti numeri consecutivi l'equivalenza fra quadrati minori e quadrato maggiore non vale(6).

In altre parole non esiste alcuna possibilità di esprimere il suddetto teorema per numeri diversi da questi, aventi la medesima peculiarità, cioè che uno sia immediata successione del precedente, come avviene per il 3, il 4 e il 5.

Nel 43, espressione geometrica del Nome di Dio, abbiamo l'inizio di questa successione da destra a sinistra, secondo il modo della scrittura ebraica. Dal tempo della tradizione pitagorica, cioè prima di quella cristiana, ,"Yahwé" appare dunque come una "famiglia" in attesa del Figlio.

Ciò è giustificato anche dal fatto che l'Agnello, il Figlio di Dio, è espresso dalla lettera HE, zodiacale dell'Ariete: nell'astrologia ebraica infatti l'Ariete e l'Agnello si identificano. E la lettera HE vale appunto 5.

Così, l'osservazione delle cifre che compongono il 43, numero geometrico di Dio, ci porta in senso pitagorico alla conclusione che Dio appare in definitiva come una famiglia, cioè come il nucleo primario della società.

L'argomento principale del libro di Giobbe, cui siamo pervenuti tramite il concetto ebraico "hevra", "società", è lo sconcertante problema della sofferenza immeritata, del male, dunque un problema di portata sociale, quello delle ingiustizie.

Si tratta di un problema che ognuno prima o poi, in un modo o nell'altro, deve affrontare.

Potrebbe darsi infatti che nel considerare una parte della nostra vita non si riesca a comprendere il perché di tanto soffrire o di tante lacerazioni interiori e non si trovi risposta al motivo di nostre disgrazie, per le quali non ci sentiamo assolutamente colpevoli. In tal caso, rispecchiamo sostanzialmente la situazione di Giobbe, il quale, provato da Dio con pesanti disgrazie, si rivolge a Lui chiedendogli le ragioni dell'essere trattato come se fosse suo nemico:

Perché mi nascondi il tuo volto, considerandomi un tuo nemico?
(Giobbe 13, 24)(7)

L'argomento principale trattato nel libro di Giobbe, del quale ricorderemo qui i punti essenziali, è dunque la cosiddetta "teodicea", cioè la ricognizione della giustizia di Dio di fronte al dolore ingiustificato dell'uomo.

"Se la giustizia retributiva di Dio vige nel mondo e regge i rapporti tra Dio e gli uomini, Giobbe vuole sapere qual'è la sua colpa. Se invece essa non vige nel mondo, Giobbe chiede a Dio di rivelargli il segreto della Sua giustizia"(8).

Gli amici teologi di Giobbe, che vanno a trovarlo, difendono con pervicacia e con ogni strumento dialettico a loro disponibile il patto fra Dio e l'uomo implicito nella giustizia retributiva, senza la quale né l'"arco sulle nubi"(9) né il patto potrebbero aver senso. Pertanto, nonostante la molteplicità degli argomenti esibiti, il punto fisso di convergenza delle loro teologie rimane l'incrollabile testimonianza della giustizia divina, concepita però come un cieco operare di forze impersonali.

Il lungo colloquio di Giobbe con gli amici s'impernia sul contrasto tra giustizia comprensibile e giustizia insondabile di Yahwe. Giobbe, costretto dall'evidenza della sua cattiva sorte a negare la realtà della giustizia di Dio, ricorre, sì, all'argomento dell'insondabilità, ma - nello stesso tempo - "si puntella al concetto di giustizia retributiva per chiamare in giudizio Dio stesso"(10), che quando gli risponde, fa uso di un solo argomento, quello della Sua potenza, incomprensibile all'uomo.

Segno di questa potenza è la creazione. Come può Giobbe interrogare Dio circa la Sua giustizia? Cosa sa Giobbe dell'ordine dei cieli? Come può l'uomo che ignora l'ordine cosmico di questa potenza creatrice, interrogare il Creatore attorno all'ordine della Sua giustizia?:

Annodi tu i legami delle Pleiadi oppure disciogli i vincoli d'Orione?
Fai tu uscire a suo tempo le costellazioni o determini tu la loro influenza sulla terra?
(Giobbe 38,31-33)

La pretesa ingenua di Giobbe che il divino fornisca le ragioni della creazione secondo criteri umani, viene ripresa da Dio come qualcosa di erroneo, ma non punita e, anzi, poiché Giobbe, stretto nella morsa della sua lacerazione, interiore ed esteriore, non tradisce e semplicemente sopporta l'idea di giustizia divina, Dio gli restituisce tutto, dai figli - nel numero e nel genere originari - ai beni, che la Sua imperscrutabile generosità addirittura raddoppierà.

Allora Giobbe ritratta le sue parole riconoscendo la propria mancanza di discernimento nel voler comprendere mediante l'intelligenza creata l'intelligenza creatrice.

Con il libro di Giobbe ci viene dunque insegnato che la sofferenza è parte integrante dell'esistenza umana: possiamo lamentarci amaramente, accusarne Dio o aver fede in Lui per questo, scoprendo nuove risorse divine e aiuto immediato. Molto si può apprendere da tale opera.

Che si parli di dottrina della giustizia retributiva o della grande dottrina induista del karma e di conseguenza di ripetute vite terrene nel modo in cui lo fanno gli amici di Giobbe, somministrando saggezza "ex cathedra" è comunque qualcosa che Dio pare non gradire.

Vien detto per esempio a Giobbe, parlando del ritorno in vita del trapassato:

"Son ben queste le cose che Dio fa due, tre volte a favore dell'uomo. Fa ritornare il suo corpo fuori della fossa, per illuminarlo della luce della vita. Odimi, Giobbe, ascoltami, taci mentre io sto parlando! Se hai argomenti, controbattimi, parla, io desidero la tua innocenza! Ma se non ne hai, ascolta me, taci mentre ti somministro saggezza!"
(Giobbe 33, 29-33)

Che la ripetizione ciclica delle vite terrene in un corpo umano o reincarnazione avvenga due o tre o migliaia di migliaia di volte, non possiamo saperlo come di una regola stabilita secondo criteri drasticamente giuridici. In ogni caso non si dovrebbero "somministrare" queste conoscenze, senza tenere presente altri concetti, come quelli di bontà e misericordia di Dio, che pure riguardano la teodicea:

"Buono e pietoso è il Signore, lento all'ira e generoso nell'amore... Non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe. Come il cielo è alto sulla terra, così è grande la sua misericordia su quanti lo temono; come dista l'Oriente dall'Occidente, così allontana da noi le nostre colpe. Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono. Perché Egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere".
(Salmo 103,8.10-14)

Chi, nello stile dogmatico degli amici teologizzanti di Giobbe, non riconosce che al di là di ricompensa e punizione c'è sempre un mistero d'amore, commette oltraggio a Yahwe, nella pretesa di difenderlo, attribuendo alla giustizia di Yahwe criteri prettamente umani. Costoro dovranno pertanto "espiare con un sacrificio il loro peccato e Giobbe sarà il loro intercessore"(11). In altre parole, offende Dio chi tenta di difendere Dio, che non ha bisogno di alcuna difesa da parte dell'uomo, in quanto una difesa del genere, basata su deduzioni umane, finisce per attribuirGli quel che radicalmente non Gli compete. Il vero orgoglio blasfemo sta proprio dalla parte di coloro che pretendono di aver sempre compreso le intenzioni di Dio e di potere in ogni caso difendere il Suo operato, al pari di un uomo che può legittimamente difendere un altro uomo creduto giusto.

Non si tratta dunque di difendere Dio, né la sua misericordia, né la sua legge del Karma. Le tracce bibliche della presenza di quest'ultima non escludono infatti la responsabilità dell'uomo:

"... chi scava una fossa vi cadrà dentro e chi rotola una pietra, se la vedrà ricadere addosso."
(Proverbi 26,27)
"... sono sprofondati nella fossa che hanno scavato, nella rete che hanno teso si è impigliato il loro piede."
(Salmo 9,15)
"Hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta."
(Osea 8,7)
"Il Figlio dell'uomo [...] renderà a ciascuno secondo le sue opere."
(Matteo 16,27)
"...ognuno miete quello che semina: chi semina nella sua carne, dalla carne miete la corruzione; chi, invece, semina nello spirito, dallo spirito miete la vita eterna."
(Galati 6,8)

Altrettanto chiaro dovrebbe comunque apparire, che la capacità di perdono di Dio non può essere misurata con criteri umani:

"Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri; le vostre vie non sono le mie vie, dice il Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, così le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri."
(Isaia, 55,8-9)

La risposta di Dio al nostro "Giobbe" interiore, cioè la risposta al problema del male in noi, è, come abbiamo visto, una risposta imperniata sull'argomento della massima potenza creativa: "Annodi tu i legami delle Pleiadi oppure disciogli i vincoli d'Orione?".

Anche se la realtà delle ripetute vite terrene e quella della resurrezione non rispondono forse esaustivamente al nostro problema del dolore in quanto la sofferenza contingente è difficilmente consolabile, esse però ci offrono una base di conoscenza razionale indispensabile per incominciare correttamente un percorso verso l'approfondimento di queste tematiche, infondendoci fiducia. E di fiducia ha bisogno soprattutto la nostra mentalità occidentale, in genere un po' materialistica e un po' restìa ad accettare la concretezza di un processo trascendente come quello della vita che va dalla morte a una nuova nascita.

Il messaggio contenuto nel libro di Giobbe è appunto questo: l'uomo deve persistere nella fiducia anche quando il suo spirito non ne è appagato. Allora la fiducia viene alimentata, cresce e si spera ancora.

E a proposito di questo perseverare, nel libro di Giobbe abbiamo trovato, per caso e con gran meraviglia, un riferimento preciso alla "colomba", alla "nave", al "pesce" e all'"arcobaleno". Inoltrandoci verso la conoscenza del cielo, nei pressi delle Pleiadi e di Orione, abbiamo avuto veramente di che sorprenderci e di che alimentare sia la nostra conoscenza che la nostra trascendente fiducia in essa.

L'etimologia di "Pleiadi", infatti, risale al latino "plèjades", al greco "pleiàdes", da "plèô", "navigo", e/o anche alle "peleiàdes", "colombe". Le consonanze con il latino "pluvia", "pioggia", con il greco "plotòs", "pesce" e con il sanscrito "plavas", "nave", fanno del nome di queste stelle una emblematica sintesi di significati, fra i quali si inserisce anche "pluvius arcus", che significa in latino "arcobaleno". L'apparizione annuale delle Pleiadi, stelle della costellazione del Toro, chiamate volgarmente anche "gallinelle", era per gli antichi il segnale del tempo idoneo alla navigazione(12).

Se poi entriamo nel campo della mitologia, arriviamo anche ad Orione: si raccontava che le sette Pleiadi, figlie di Atlante, il titano sostenitore del mondo, avessero incontrato in Beozia il terribile cacciatore Orione, che si innamorò di loro e le inseguì per cinque anni; infine, le Pleiadi furono trasformate in colombe e Zeus, impietosito di loro, le trasformò in stelle(13).

Conoscendo queste cose, avvertiamo la consistenza della potenza della parola biblica che, se considerata letteralmente, diviene allora dispensatrice di conoscenza, anche quando sembra un mero rimprovero autoritario: "Annodi tu i legami delle Pleiadi oppure disciogli i vincoli d'Orione?".

Potremmo pertanto a buon diritto dire che non è impossibile avvertire la peculiarità della potenza del Creatore, tutt'una con la peculiarità del suo amore verso l'uomo: l'illimitatezza del potere divino termina dove incomincia il libero arbitrio umano.

Nessun umano sarà infatti mai costretto dal divino a credere nella potenza divina. L'uomo, anzi, potrà sempre incolpare Dio di avergli dato un mondo malvagio o incolpare il mondo a causa del male che è in esso. Però solo quando diverrà maggiormente consapevole che un po' di male è anche in lui, solo allora potrà immettere tale grado di consapevolezza nella società.

La metamorfosi di una società può avvenire solo grazie alla metamorfosi del singolo che le appartiene e quest'ultimo non potrà sperimentarla se non in quanto capace di dubitare della bontà del proprio pensiero, del proprio sentimento e della propria azione.

La consapevolezza può aver luogo solo in chi è conteso da due forze opposte: la conoscenza e la nescienza. Questa contesa è possibile solo grazie al dubbio(14).

Da questo punto di vista il dubbio, inteso come male, "nemico di Dio", "Satan", non è esterno a Dio, non è un principio a sé, prima e fuori della creazione, ma appartiene all'economia divina. Il dubbio è una forza del male che si rende necessaria affinché ciò che è incerto divenga certo e ciò che è indeciso divenga deciso. Il dubbio mette in luce la verità e "fa sì che il nascosto si sottragga al suo nascondimento. In quanto tale, "Satana" è uno "strumento di Dio" e mostra, sia pure oscuramente, la sua intima parentela con la verità."(15)

Proprio per questo, se il "nemico" non è fuori dalla creazione e se la creazione non è solo "fuori" ma anche "dentro" di noi, il "nemico" è nascosto anche in noi, come necessario strumento. Non rilevare ciò e vedere solo fuori di noi l'esistenza del male non può che portare a pietrificarne e a mantenerne le forme, rivestendolo magari di "oggettive" mancanze altrui e a dimenticare che le forme credute reali degli oggetti intorno a noi (si veda nell'Introduzione l'esempio del disegno del volto umano) cambiano, a seconda di come ci poniamo ad osservarle.

Se queste considerazioni sono esatte ed è vero che in ogni uomo si nasconde un potenziale nemico di se stesso, allora un "nemico" dovrebbe nascondersi anche nel buon Giobbe, prototipo dell'uomo giusto, sociale e "paziente" (in ambedue i significati che il termine richiede: "dotato di pazienza" e "ammalato", cioè toccato dal male o dalla malasorte).

E' proprio così ed anche questa conoscenza proviene dall'insegnamento del suo libro, testimoniata con sorprendente precisione nell'anagramma del suo stesso nome: il nome "Hiob", "Giobbe", viene scritto con le medesime lettere con cui si scrive "oyev", "nemico"(16).

"Hiob" "oyev"

Ciò significa che Giobbe, come ognuno di noi, continua a combattere il nemico, l'oppositore, il dubbio. In questo modo la persona divina nascosta dentro di noi è indotta a intervenire e ci risponde. Se come Giobbe domandiamo fino alla fine, ricerchiamo fino alla fine e portiamo l'oppositore in noi senza stancarci mai, alla fine l'oppositore si logora e ciò che si libera è una forza capace di risanare e di liberare il nostro vero Io in un percorso difficilissimo ma vitale di Conoscenza della Verità.

Il libro di Giobbe termina citando i nomi delle sue figlie, il primo dei quali, "Yemimah", traslitterato dall'arabo, significa "colombella"...

L'esatta corrispondenza etimologica di "colomba" la ritroviamo nel greco "kòlymbos", sorta di uccello acquatico, che sta in evidente rapporto con il verbo "kolymbàô", immergersi, tuffarsi, nuotare. Ed è forse per questo "volo di immersione", incarnazione dell'"Io" nel ciclo delle ripetute vite terrene, che la colomba viene a simboleggiare propriamente lo Spirito Santo. Vale la pena di ricordare qui che il colombo, cioè il maschio della colomba, animale sacrificale e simbolo dello Spirito Santo, ha lo stesso valore numerico complessivo di "ghilgal". Si scrive infatti con le lettere IOD, VAV e NUN, la cui somma numerica è 66:

10 + 6 + 50 = 66

Un antico detto, sintesi di quella Conoscenza spirituale per la quale vale la pena di combattere sempre annunciava "Nasciamo da Dio. In Cristo moriamo. Per Spirito Santo riviviamo" ("Ex Deo nascimur, in Cristo morimur, per Spiritum Sanctum reviviscimus").

All'interno di ogni essere umano a combattere il "nemico" vi è, per così dire, una colomba. Si tratta del combattimento fra la colomba ed il serpente, per la ricerca della verità. La lotta che si svolge entro il campo di battaglia umano è un confronto fra la parte superiore dell'Io, angelica, capace di "volare" al di sopra dei quotidiani condizionamenti della convenzione sociale e quella inferiore, ìnfera, capace di insidiare l'uomo con paure e dubbi. A volte la colomba sa farsi aquila e vincere il serpente. Altre volte il serpente, come un drago, sembra prendere il sopravvento. Affrontando la realtà, possiamo attraversare momenti in cui ci abbandoniamo troppo all'ingenuità della colomba e altri in cui ci sentiamo costretti come serpenti alla critica astuta e diffidente.

Ma il grande pericolo per l'uomo è rimanere prigioniero dell'inganno del drago e perdere la capacità di librarsi in volo, al di sopra della materia e dell'animalità.

Da un'insufficiente capacità di volare viene anche la malattia. Per questo motivo gli antichi, per auspicare guarigioni, dovevano portare in offerta sacrificale un uccello, una colomba.

I venditori di colombe sono l'aberrante degenerazione di questa conoscenza, contestata da Gesù come rito cruento(17).

Anche i venditori di colombe hanno le caratteristiche del "drago", e con essi tutti coloro che mercanteggiano le cose del "tempio" o che usano il confessionale o l'incenso per "formare coscienze" metà addormentate, più o meno come l'antica istituzione dei sacerdoti di Iside faceva nei confronti degli schiavi(18).

Serpente e colomba si fronteggiano come "drago" e "cavaliere", da una parte è il mondo dell'illusione, della prigionia, dall'altra il liberatore, che la tradizione cristiana identifica nell'arcangelo Michele.

Il drago, che l'eroe deve domare per liberare la principessa, l'autocoscienza, attacca per impedire la conquista dell'origine, della Parola, cioè del "Logos"(19), perché si identifica con tempo e spazio, con il mondo fenomenico, e vuol sembrare Dio: perciò la lotta con il drago è pericolosa ed estrema.

Proprio per questo motivo Gesù consigliava di essere prudenti come serpenti ma contemporaneamente semplici come colombe(20).

Non consigliava lo spiritualismo di una fede ingenua o acritica da mettere al posto del materialismo.

La lotta degli angeli contro i démoni, delle potenze celesti contro le potenze infernali, cioè l'opposizione fra gli stati superiori e gli stati inferiori, è infatti necessaria, come lo è il ritmico contrasto fra la luce del giorno rispetto alle tenebre notturne. Questo ritmo è la vita stessa e a questa necessità Gesù rispondeva con un'altra necessaria forma di ritmo(21): la preghiera, strumento essenziale per ogni tradizione di saggezza.

Così, per esempio, nella tradizione indù, è detto che i "Deva", potenze celesti, nella loro lotta contro gli "Asura", potenze infernali, si proteggevano con la recitazione ritmica dei "mantra". Si tratta di formule ritmate, la cui ripetizione ha lo scopo "di produrre un'armonizzazione dei diversi elementi dell'essere e di determinare vibrazioni suscettibili, con la loro ripercussione attraverso la serie degli stati, in gerarchia indefinita, di aprire una comunicazione con gli stati superiori, che è d'altronde, in generale, la ragione d'essere essenziale e primordiale di tutti i riti."(22)

Riportiamo, fra i mantra, quello più famoso per la sua efficacia:

Hare Krishna Hare Krishna
Krishna Krishna Hare Hare!
Hare Rama Hare Rama
Rama Rama Hare Hare!

Se si calcolano queste parole secondo la sonorità della lingua biblica si arriva, in senso aritmetico, a due valori molto significativi, il 144 connesso con le migliaia(23) dei "pescati" o degli illuminati: il popolo, la "società" dei salvati, espresso dall'Apocalisse, e al numero 17, di cui abbiamo visto la grande importanza fin dall'inizio di questo nostro studio, come significatore della coincidenza fra i concetti di "fine" e di "bene":

"Hare": ALEF-RESH-HE = 1+200+5 = 206
"Krishna": CAF-RESH-IOD-SCIN-NUN-ALEF = 20+200+10+300+50+1 = 581
"Rama": RESH-ALEF-MEM-ALEF = 200+1+40+1 = 242
     
Hare Krishna Hare Krishna = 206+581+206+581 = 1574
Krishna Krishna Hare Hare = 581+581+206+206 = 1574
Hare Rama Hare Rama = 206+242+206+242 = 896
Rama Rama Hare Hare = 242+242+206+206 = 896

Valore numerico complessivo del mantra:

1574 + 1574 + 896 + 896 = 4940

Il prodotto delle sue cifre senza lo zero è 144:

4 x 9 x 4 = 144

La loro somma (o sintesi) è 17:

4 + 9 + 4 = 17

Di fronte a un risultato di questa portata numerologica sul mantra "Hare Krishna", espresso nei numeri 144 e 17, l'interiorità dell'uomo occidentale può rimanere perplessa.

Il tempo passa e il "dubbio" continua imperterrito in noi: "Ma non vi è un Unico vero Dio? Possibile che in tutta la Bibbia non vi sia una preghiera, capace di condurre a risultati di quel genere?". E incalza: "Possibile che fra i centocinquanta Salmi della Bibbia non ve ne sia uno numerologicamente simile al mantra "Hare Krishna? Se il rapporto fra il 144 e il 17 è qualcosa di pertinente al Vero Dio e se esiste un solo Dio per tutto il pianeta, e se anzi Egli è davvero il creatore del pianeta stesso e di tutto l'ordine cosmico, tale rapporto deve risultare necessariamente in tutti i libri della Sua rivelazione.

E' stato così che, scrutando il più breve Salmo della Bibbia, conosciuto come il Salmo 117, che Gesù di Nazaret imparò dal suo maestro Hillel e che era solito cantare proprio per la recitazione conclusiva del banchetto pasquale, abbiamo fatto una scoperta senza precedenti e a nostro parere di un certo valore ecumenico.

E' a dir poco qualcosa di singolare infatti che il medesimo rapporto fra il numero 144 e il numero 17 sia ottenibile - e qui sta lo straordinario - proprio con la medesima modalità di calcolo, mediante la somma totale dei valori numerici complessivi delle lettere del Salmo 117:

Allelu et YHWH , col goim,
sciabcuhu, col haumim;
Chi gavar alenu kasdo
veemet yhwh leolam. Aleluyah.

la cui traduzione letterale è la seguente:

Lodate YHWH, nazioni tutte,
celebratelo, voi tutti i clan;
poiché verso di noi la sua bontà si è mostrata potente
e la verità di YHWH è a tempo indefinito. Lodate Yah.

e di cui riportiamo la numerologia parola per parola:

Alelu = he-lamed-lamed-vav = 5+30+30+6 = 71
et = alef-taw = 1+400 = 401
yhwh = iod-he-vav-he = 10+5+6+5 = 26
col = kaf-lamed = 20+30 = 50
goim = ghimel-vav-iod-mem = 3+6+10+40 = 59
sciabcuhu = scin-bet-chet-vav-he-vav = 300+2+8+6+5+6 = 327
col = kaf-lamed = 20+30 = 50
haumim = he-alef-mem-iod-mem = 5+1+40+10+40 = 96
chi = kaf-iod = 20+10 = 30
gavar = ghimel bet-resh = 3+2+200 = 205
alenu = hain-lamed-iod-nun-vav = 70+30+10+50+6 = 166
kasdo = chet-samek-dalet-vav = 8+60+4+6 = 78
veemet = vav-alef-mem-taw = 6+1+40+400 = 447
yhwh = iod-he-vav-he = 10+5+6+5 = 26
leolam = lamed-hain-vav-lamed-mem = 30+70+6+30+40 = 176
alelu = he-lamed-lamed-vav = 5+30+30+6 = 71
yh = iod-he = 10+5 = 15
    Somma totale = 2294

La somma totale dei valori numerici di ognuna delle 62 lettere che formano il testo del Salmo 117 è 2294.

Il prodotto delle sue cifre, esattamente come nel precedente calcolo (4x9x4=144) relativo al mantra "Hare Krishna", è 144:

2 x 2 x 9 x 4 = 144

La somma (o sintesi) di 2294, esattamente come nel precedente calcolo (4+9+4=17) relativo al mantra "Hare Krishna" è 17:

2 + 2 + 9 + 4 = 17

Siamo di fronte a un esempio di armonia senza pari fra due modi distinti di preghiera, quella ebraico-cristiana e quella islamico-induista.

Come nel campo musicale il ritmo e il numero formano un tutto armonico, così è anche per ogni linguaggio ritmato dei testi sacri.

Si dice che Adamo nel Paradiso terrestre parlasse, in versi, un linguaggio ritmato e la ragione per cui i testi sacri sono scritti in linguaggio ritmato, sembra proprio quella di armonizzare l'interiorità del lettore fino a fargli raggiungere, secondo un "scienza del ritmo", una "illuminazione solare"(24).

D'altronde la poesia aveva nell'antichità carattere sacro. In latino, i versi erano chiamati "carmina", "designazione che si riferiva al loro uso nella celebrazione dei riti, dal momento che la parola "carmen" è identica al sanscrito "Karma", che deve essere preso qui nel suo senso speciale di "azione rituale"; la parola "poesia" deriva anch'essa dal verbo greco "poiein", che ha lo stesso significato della radice sanscrita "Kri", da cui viene "Karma", e che si ritrova nel verbo latino "creare" inteso nella sua accezione primitiva"(25).

La conoscenza del karma, e dunque della reincarnazione, risulta così testimoniata anche dallo spirito stesso del nostro linguaggio.

 


NOTE

(1) J. Head & S. L. Cranston, "La Reincarnazione", Ed. Longanesi, p. 368: "L'emozione più bella e più profonda che ci è dato di sperimentare è la sensazione del mistico. Essa è alla radice di ogni vera scienza. Colui al quale tale emozione è estranea, che non è più capace di meravigliarsi e di rimanere rapito nella sensazione timorosa del mistero, è come se fosse morto. Sapere che le cose a noi impenetrabili esistono veramente, in una realtà che si manifesta come la più alta saggezza e la più radiosa bellezza, delle quali le nostre ottuse facoltà possono percepire unicamente le forme primitive, questa conoscenza, questa sensazione sono al centro della vera religiosità".
(2) cfr. Santillana-Dechend "Il mulino di Amleto", Ed. Adelphi, pp. 186-189.
(3) cfr. Max Heindel "La Pasqua nell'esoterismo d'occidente", Ed Juppiter, p. 66
(4) Giobbe 34,8.
(5) "Enciclopedia dei simboli", Ed Garzanti, pag.16.
(6) Il teorema famoso dell'equivalenza fra la superficie del quadrato costruito sull'ipotenusa e la somma di quelle costruite sui cateti del triangolo rettangolo, era noto anche prima di Pitagora, limitatamente però ai lati 3, 4 e 5. In India era indicato come la 'seggiola della piccola sposa' e sia i preti Indù che gli "arpedonapti" egiziani, ossia i tenditori di cordicelle o canneggiatori, se ne servivano per innalzare la perpendicolare ad una retta nelle operazioni topografiche. In Persia costituiva la "figura della donna maritata"; in Grecia era il "teorema della maritata" ed il triangolo "3, 4 e 5" era considerato simbolo del Matrimonio: Platone lo inserì nella composizione del suo celebre "numero nuziale". Per Plutarco esso era "il più bello dei triangoli" e riporta il detto che esso fosse il simbolo delle divinità egizie Osiris, Isis ed Horus e di tutta la natura in espansione. Tali proporzioni si trovano nella piramide di Chephren (esterno), in quella di Cheope (interno, camera dei Re), in molte pietre usate come lapidi o come coperchi, in canali di aerazione, ecc; così pure le grandi pietre di Baalbek in Siria sono larghe 3 e lunghe 4. In un papiro magico sono disegnati due cuori uniti con righe, con la scritta: 3 è l'uomo, 4 è la donna. Anche i Cinesi conoscevano questo teorema, poiché nel Tceu-pei sono menzionate le proprietà di detto triangolo. Il teorema venne poi denominato "teorema di Pitagora" perché fu questo filosofo ad applicarlo a tutti i triangoli rettangoli. (Cfr. I. Ghersi, "Matematica dilettevole e curiosa", Ed. Hoepli p. 573).
(7) vedi anche Giobbe 19, 11.
(8) Trevi-Luzzatto, "Il libro di Giobbe", Ed. Feltrinelli, p. 13.
(9) Genesi 9,14.
(10) Trevi-Luzzatto, "Il libro di Giobbe", Ed. Feltrinelli, p. 34.
(11) ibid. p. 21-22.
(12) O. Pianigiani, "Vocabolario etimologico", Ed. Melita; G. Devoto, "Dizionario etimologico", Ed. CDE.
(13) Dizionario mitologico, Ed. Garzanti, p. 515.
(14) "Bhagavad Gita", Ed. UTET, p. 45.
(15) Trevi-Luzzatto, "Il libro di Giobbe", Ed. Feltrinelli, p. 50.
(16) In ebraico la "b" si pronuncia anche "v".
(17) Matteo, 21,12; Marco, 11,15; Giovanni, 2,14-15.
(18) Kalimtgis-Goldman-Steiberg, "Droga S.P.A", ed. Logos, p. 409.
(19) Giovanni, 1,1.
(20) Matteo, 10,16.
(21) Luca, 18,1; 21,36; Marco, 13,33.
(22) R. Guénon, "Simboli della Scienza Sacra", Ed. Adelphi, pp. 57-58.
(23) Apocalisse 7, 4; 14,1.
(24) R. Guénon, "Simboli della Scienza Sacra", Ed. Adelphi, pp. 57-58.
(25) ibid.