La Repubblica
La missione Italia nel mondo che cambia
21-10-2004
Caro direttore, incontro un banchiere americano, uno di quelli che ha mezzi
ed esperienza per incidere sulle politiche economiche dei Paesi in cui
sceglie di operare. Gli chiedo: "A quali condizioni potresti convincerti a
investire in Italia?". Mi aspetto la solita risposta: abbattere la
burocrazia, liberalizzare, mercati finanziari più trasparenti. Ma l´analisi
del banchiere è lucidamente spietata: "Io posso scegliere se investire tra
Spagna, Germania e Italia. La Spagna ha cambiato governo, ma ci investirò
comunque perché, pur piccola, è la porta di accesso a un quinto del mondo,
quello ispanico, una porta che presto sarà la principale anche negli Usa. La
Germania è in crisi? Ci investirò perché è il più grande mercato europeo, ed
è l´unica porta d´accesso alla nuova Europa, quella che crescerà più degli
altri Paesi membri dell´Ue. Resta l´Italia. Ma la vostra lingua è parlata
solo da voi, siete un Paese che si affaccia su una frontiera instabile da
non oltrepassare come il Mediterraneo. E poi siete un Paese che non fa figli
e non vuole immigrati. Perché devo investire su chi non pensa al suo
futuro?". Queste parole continuano a tornarmi in mente. Ancora di più dopo
aver letto la riflessione che Giuliano Amato e Carlo De Benedetti hanno
firmato su Repubblica il 21 settembre e che è proseguita sabato scorso
grazie a Mario Pirani. Un´analisi sulla "missione" dell´Italia, paese grande
quando il mondo era piccolo e la concorrenza veniva solo dagli altri europei
e dai nordamericani. Paese medio nel mondo di oggi, reso ben più grande dall´arrivo
della Russia e dei paesi dell´est, e dallo sviluppo cinese e indiano.
Impressionano le cifre che Federico Rampini sta fornendo nei suoi reportage
dalla Cina. La dimensione europea diventa allora essenziale, perché il
nostro problema non è dissimile da quello di Francia e Germania. Ma bisogna
passare dalle parole ai fatti. Gli obiettivi ci sono, sono quelli di
Lisbona, portati avanti in questi anni però solo dagli stimoli che la
Commissione Prodi ha dato. Ma finché questi obiettivi non diverranno
vincolanti come quelli di Maastricht, il risultato non sarà mai raggiunto.
Tuttavia al di là della questione europea, rimane la nostra incapacità di
definire con chiarezza quale sia oggi la missione dell´Italia. Questo
soprattutto perché in una società in cui i giovani sono ormai una minoranza,
con un orizzonte temporale sempre più limitato, la voglia di futuro, la
ricerca del rischio, il gusto per la sfida tendono inevitabilmente ad
esaurirsi. Pesano la precarietà del mercato del lavoro e la
semestralizzazione dei contratti parasubordinati. Pesa lo sguardo corto,
quando non rivolto direttamente dietro le spalle, che mediamente
caratterizza oggi il nostro sistema. È difficile, se non impossibile, darsi
missioni di lungo periodo, generazionalmente coinvolgenti, in queste
condizioni. Quanti di noi si trovano a invidiare lo spirito di frontiera che
ha animato quelle generazioni che sono riuscite a fare dell´Italia la quinta
potenza industriale del mondo. Oggi il paese sembra andare avanti per forza
di inerzia. Tiene duro, sostituisce le svalutazioni competitive con le
delocalizzazioni, vede industriali spostarsi silenziosamente verso i tanti,
troppi settori ancora protetti della nostra economia. Ma non sembra porsi il
problema che proprio gli eventi di questi ultimi cinque anni ci obbligano a
politiche economiche da elettroshock se vogliamo riconvertire rapidamente
quella potenza industriale in un nuovo sistema produttivo in cui industria,
servizi e qualità possano convivere. Di inerzia l´industria manifatturiera
italiana scomparirà. C´è bisogno di discontinuità. Puntando anzitutto sulla
crescita dimensionale delle imprese. Imprese meno piccole possono andare sui
mercati internazionali, innovare, investire in formazione, innovazione e
ricerca e in tutti quegli elementi di immaterialità che costituiscono ormai
il 90% del prezzo finale di un qualunque prodotto. Per essere più liberi e
più solidi in un mercato globale complesso la condizione è che ci sia
qualcuno che abbia voglia di guidare il cambiamento attraverso una
coraggiosa rimodulazione del nostro welfare, che restituisca fiducia e
attenui le incertezze delle nuove generazioni. E in secondo luogo che
elabori politiche di sviluppo tutte finalizzate alla costruzione del nuovo
brand Italia. Non possiamo permetterci di perdere tempo. Altri tre anni di
non scelte e di inerzia come quelli che abbiamo alle spalle e saranno i
mercati globali a scegliere per noi. L´autore è responsabile economico della
Margherita
ENRICO LETTA