Non possiamo più vendere illusioni.
28-08-2004
Il Riformista
di Tiziano Treu
Gli auspici per un maggior sforzo programmatico da parte dei riformisti si
susseguono. Per renderlo credibile occorre evitare la tentazione di fare un
assemblaggio di rivendicazioni o di richieste magari raffinate, elaborate da
decine di esperti settoriali.
Il cumulo delle rivendicazioni ma anche di richieste in sé ragionevoli è
incompatibile con lo stato della finanza pubblica; e non possiamo
permetterci di vendere illusioni. Proprio per evitare questo rischio che
minaccia tutti i riformisti (compresi i democratici Usa alla convention)
bisogna individuare le linee prioritarie di un disegno riformista. Se ne sta
parlando in varie sedi, anche da un’angolatura particolare come quella
stimolata dalla provocazione di De Rita sui “destinatari” del messaggio
riformista, sul “blocco sociale” di riferimento.
Sono fra quelli che ritengono improprio ricercare un blocco sociale.
La complessità e la frammentazione del tessuto sociale dei nostri paesi sono
tali da rendere rischiosa, anzi controproducente, l’individuazione di un
blocco sociale predefinito. Non a caso molti hanno ribattuto a De Rita che
semmai un simile blocco può nascere dal programma. Ma evidentemente, non
basta spostare i termini del problema. Credo che la ricerca sia più
complessa.
Occorre prestare più attenzione di quanta si stia facendo ai bisogni e alle
aspettative dei vari gruppi sociali, per individuarne, al di là delle
traiettorie diverse, i contenuti comuni. Alcuni elementi portanti utili
anche per costruire le linee fondamentali della risposta riformista si
possono trovare guardando a fondo in quel “disagio” del ceto medio, così
palpabile anche se indistinto. Non a caso questa analisi si ritrova, seppur
nella diversità dei contesti, anche nel dibattito in corso tra i Democratici
Usa.
Le componenti del disagio sono molteplici e talora contraddittorie: dal
deterioramento del potere d’acquisto, alla carenza e al costo eccessivo dei
servizi essenziali per la qualità della vita, a cominciare dalla sanità,
alla precarietà delle traiettorie economiche e di lavoro.
Penso che due linee di analisi siano fondamentali. Una riguarda i bisogni di
rassicurazione e di welfare che sono crescenti fra tutti gli stati sociali,
a causa delle incertezze provocate dalla profondità dei mutamenti economico
sociali e dalla turbolenza della competizione globale. Per i riformisti
questi bisogni non possono essere lasciati alla cura individuale, alla
capacità di autodifesa e al reddito dei singoli, (cioè alle assicurazioni
private). Richiedono un consistente sviluppo del sistema di welfare e una
sua innovazione nelle direzioni praticate da alcuni paesi specie del Nord
Europa, ma da noi neppure abbozzate; un welfare universalistico, anche se
selettivo, un welfare legato ai cicli della vita (dai bambini agli anziani),
un welfare attivo di accompagnamento e di sostegno delle opportunità. Non
posso scendere nel merito. Rilevo solo che su questo versante la sinistra è
naturalmente incline a impegnarsi; ma si tratterà di fare scelte non
indolori, lontane dalla tradizione classica. Una ricalibratura del welfare
richiede non un calo della spesa sociale che anzi è destinata a crescere, ma
certo una sua ricalibratura : la spesa per le pensioni non può crescere e
probabilmente deve contenersi, mentre vanno aumentate le risorse destinate
alla educazione, all’assistenza, alla cura dei figli, alla famiglia.
Bisognerà inoltre superare la concezione ancora prevalente del welfare come
strumento di “riparazione dei guasti del mercato” e quindi sostanzialmente
assistenziale, per costruirlo come elemento di coesione sociale e delle
opportunità individuali. Questo significa legare più strettamente la
fruizione dei vari istituti di welfare con le politiche attive del lavoro e
con un uso effettivo della formazione continua.
Il potenziamento e l’innovazione del welfare è una condizione portante anche
della nostra concezione di crescita e di sviluppo. Per noi lo sviluppo non
può poggiare sull’accumulo di ricchezza individuale come ha proclamato
Berlusconi, deludendo drammaticamente gli italiani; ma deve costruirsi su
uno sforzo comune, su reti private e pubbliche di solidarietà, su istituti
che permettano la crescita delle opportunità di tutti, cioè appunto su un
welfare di sostegno alla capacità e alla voglia individuale di crescita. Lo
ha espresso bene Clinton alla Convention di Boston con la semplicità tipica
dei suoi messaggi: il paese funziona meglio quando tutti hanno la
possibilità di realizzare i propri desideri.
E qui vengo alla seconda pista da approfondire: un programma riformista non
può affrontare l’impegnativo compito di innovare e rafforzare il welfare
come richiesto dai nuovi bisogni, se non promuove con altrettanto coraggio e
innovazione il rilancio dello sviluppo economico. Qui la tradizione della
nostra sinistra è meno attrezzata. E gli interventi nel risanare il
meccanismo dello sviluppo sono stati finora poco coraggiosi. Non solo in
Italia. Tanto è vero che molti paesi europei sono frenati nella loro
potenzialità di crescita. In realtà le due piste del welfare e dello
sviluppo sono state spesso viste come separate: la prima è sentita come
preoccupazione essenziale della sinistra, la seconda come prerogativa della
destra. Invece i riformisti devono fare proposte innovative in entrambe le
direzioni: del welfare e dello sviluppo perché le aspettative di innovazione
sono forti sui due fronti fra molti gruppi sociali che sono afflitti dalla
mancanza di entrambi.
Non è un caso che tanti parti del ceto produttivo – uso questa formula
generica – piccoli imprenditori, lavoratori dipendenti, hanno risposto
all’appello di Berlusconi che parlava loro di sviluppo e di ricchezza. A
questi gruppi così diversi ma tutti accomunati da delusione e frustrazione,
i riformisti devono dare risposte coerenti. Il che ha implicazioni molto
impegnative sui vari punti di una politica di sviluppo: più investimenti
finalizzati alla formazione, alla ricerca e alla diffusione dell’innovazione
(e non a pioggia); forte contrasto delle tante aree di rendita e di
monopolio che appesantiscono la nostra economia (dalle professioni, a molti
settori dei servizi e della distribuzione, dell’energia, ecc.).
Autorevoli osservatori hanno sintetizzato in modo forse semplificato ma
efficace il legame fra le due linee politiche; se si vuole un welfare
sviluppato e diffuso “alla scandinava”, occorre rimuovere molti ostacoli
alla crescita e promuovere uno sviluppo “all’americana”. In realtà non è
necessario rifarsi agli Usa, basterebbe seguire le sollecitazioni europee di
Lisbona a liberare “il mercato unico” e ad accelerare la formazione di una
società della conoscenza.
Le politiche per realizzare insieme uno sviluppo sostenibile che garantisca
una ricchezza comune e un welfare diffuso sono ambiziose; ma possono essere
condivise da forze politiche convinte che welfare e sviluppo si devono
sostenere a vicenda.