Sei nella sezione: La storia
L’eruzione del 79 d.C. è quella di gran lunga più conosciuta tra le eruzioni del Vesuvio perché ad essa si deve la distruzione delle città romane di Pompei, Ercolano e Stabia, e perché fu minuziosamente descritta da Plinio il Giovane in una sua lettera a Tacito, in cui si riportano le circostanze che condussero alla morte di Plinio il Vecchio, celebre naturalista e comandante della flotta romana di stanza a Miseno.
Il 24 agosto dell’anno 79 d.C. il Vesuvio rientrò in attività dopo circa otto secoli, riversando sulle aree circostanti, in poco più di tranta ore, circa 4,3 km³ di magma sotto forma di pomici e cenere.
Tre fasi eruttive principali possono essere distinte in quest’eruzione:
Il deposito che derivò dalla caduta di questi frammenti è tipicamente costituito da due livelli sovrapposti di pomici bianche e grige, talora separati da un sottile livello di ceneri e localmente caratterizzati dall’intercalazione, nella parte alta del livello grigio superiore, di piccoli depositi di flusso piroclastico, originati da episodi di collasso parziale della colonna eruttiva, innescato dalle fasi incipienti di formazione della caldera, determinò la terza fse, in cui avvenne la formazione di flussi piroclastici diluiti e turbolenti, che si distribuirono radialmente rispetto al centro eruttivo e causarono la distruzione totale dell'area di Ercolano, Pompei e Staba.
Questa fase freatomagmatica avvenuta della mattinata del 25 agosto è segnata da uno spesso deposito di flusso piroclastico, messo in posto durante la formazione della caldera, seguito da un deposito di breccia molto grossolano ed estremamente ricco di elementi di rocce strappati dal sottosuolo. Nella parte finale dell’eruzione, avvenuta nella tarda mattinata del 25 agosto, furono depositati flussi di ceneri e pomici di origine freatomagmatica che devastarono i fianchi meridionale ed orientale del vulcano, seppellendo definitivamente le città di Pompei ed Ercolano, mentre la nube di cenere si disperdeva nell’atmosfera fino a raggiungere Capo Miseno.
L’eruzione cancellò le città e coprì di cenere e piogge acide la fertilissima campagna e i danni dell’eruzione furono talmente gravi che l'Imperatore Tito nominò due magistrati “Curatores Restituendae Campaniae”, con l’incarico di gestire i lavori di ristrutturazione e dirimere le questioni legali derivanti dalla morte di tante persone e dallo sfollamento di tante famiglie.
Andò anche irrimediabilmente compromessa la fama vitifera e vinifera del Vesuvio che fino al 79 d.C. era conosciuto nel mondo classico più per i suoi vini che per essere un vulcano. A Pompei furono rinvenute anfore vinarie con la scritta “Vesuvinum”, ovvero vino del Vesuvio e le medesime anfore sono state ritrovate in tutto l'impero Romano ed, addirittura, in India.
Che il Vesuvio fosse un monte sacro a Bacco, dio del vino, lo dimostra bene anche il dipinto scoperto a Pompei nel 1879 attualmente esposto al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, raffigurante il vesuvio sotto la protezione di Bacco.
La caratteristica del Vesuvio monte di vigneti si ritrova nelle gesta di Spartaco e dei suoi 70 gladiatori ribelli. 3000 soldati Romani che davano loro la caccia, calandosi dal Monte Somma con scale ottenute intrecciando gli abbondanti e rigogliosi tralci di vite selvatica.
L'eruzione cancellò quindi le superbe Ercolano, Pompei, Oplonti e Stabia, suggellando in un tremendo epperò preziosissimo scrigno di lava e ceneri la memoria di quelle civiltà.