Osvaldo Bagnoli

 

La mia storia con il Verona ebbe inizio nell'estate del 1957. Avevo 22 anni. Ero a Valdagno, in ritiro con il Milan. All'ora di cena, l'allenatore Viani si avvicina e mi dice: "abbiamo deciso di cederti in comproprietà al Verona, vai là, fai bella figura"...
Giocai tre stagioni con la maglia gialloblu, alternando momenti belli con altri decisamente brutti...
Durante la parentesi veronese conobbi anche la mia futura moglie. Lasciai il Verona per trasferirmi all'Udinese e, al termine del mio primo campionato in maglia bianconera, mi sposai.
Il mio rapporto con la città, pertanto, non si interruppe mai. Avevo i suoceri da venire a trovare e poi gli amici. Per il sottoscritto, il ritorno a Verona era sempre un momento di grande felicità. E non nascondo che mi aveva colpito un fatto in particolare: molti dei giocatori che avevano condiviso con me l'esperienza calcistica di quegli anni erano tornati, in un secondo momento, a vestire la maglia gialloblu. Ci speravo anch'io, ma purtroppo non si verificarono mai le condizioni. Avrei fatto la strada a piedi pur di giocare nuovamente nel Verona. Ma si vede che da qualche parte c'era scritto che la mia parentesi in terra scaligera fosse destinata a continuare sotto altre spoglie: quelle di allenatore.
Dopo ventuno anni dalla mia ultima apparizione con la casacca gialloblu, il Verona è tornato a bussare alla mia porta. Avevo appena vinto il campionato cadetto con il Cesena, ma la richiesta della società scaligera mi è giunta proprio in un momento in cui ritenevo necessaria una scelta di vita. Ho già spiegato che Verona, intesa come città, mi è sempre rimasta nel cuore. La mia famiglia, in quel periodo, viveva a Milano. Ma la metropoli, al di là degli affetti e delle amicizie, ormai mi aveva stancato...
Il dubbio era tra Cesena, che significava la Romagna, i romagnoli con il loro carattere affabile ed estroverso che mi affascinava, il mare a un tiro di schioppo, e Verona, che significava un luogo dove sapevo che si poteva vivere bene, la possibilità di ritrovare vecchi amici e i parenti di mia moglie...
Alla fine optai per Verona e, adesso, non rimpiango certo quella mia decisione. In questa città mi sono affermato come allenatore ottenendo i risultati più importanti della mia cariera, e ho potuto vivere, e vivo tuttora, come ho sempre sognato.
All'inizio dell'avventura in terra scaligera confesso che non mi sentivo tranquillo. Non tanto per l'ambiente esterno, quanto piuttosto per una preoccupazione tutta personale. Mia moglie è la più giovane di una nidiata di otto figli, tra fratelli e sorelle. Tutti veronesi, tutti sposati e tutti tifosi del Verona. Temevo di deluderli e di metterli in difficoltà e la cosa mi angustiava parecchio. Poi, fortunatamente, è cominciata quella grande escalation di risultati che tutti conosciamo e anche questa mia preoccupazione si è tramutata in motivo di orgoglio famigliare.
Al primo anno centrai subito la promozione in serie A. Fu un campionato meraviglioso, che abbiamo vissuto da protagonisti...
All'inizio della stagione successiva la squadra era già fatta e, anzi avevamo già incominciato la preparazione in città. Il Verona, però, poteva ancora tesserare uno straniero. "Sul mercato - mi dissero un giorno i dirigenti - ci sarebbe Dirceu". Si badi bene, il brasiliano era visto un pò come il "colpo dell'anno", il personaggio che serviva per suscitare entusiasmo tra i tifosi. Io avevo un problema in attacco, disponendo solamente di Penzo e Gibellini, entrambi, tra l'altro, con pochissima esperienza di serie A.
Mi serviva pertanto una punta, ma sapevo che Dirceu non lo era. E mi dava fastidio l'atteggiamento dei miei datori di lavoro, che cercavano di spacciarmi il giocatore carioca come un attaccante...
I giornali titolarono: "Dirceu al Verona, Bagnoli non lo vuole". Vado in campo per l'allenamento e mi trovo 2.000 persone che invocano il sudamericano, a quel punto ho capito l'antifona e mi sono arreso. Il mio rammarico nasceva dalla consapevolezza che con l'acquisto di Dirceu dovevo rinunciare a un centrocampista che avevo già in organico. Il sacrificato fu Guidolin, il giocatore che ricopriva praticamente lo stesso ruolo del brasiliano. A Francesco ero molto legato. Lo stimavo come giocatore e come ragazzo. In serie B era stato il capitano, realizzando anche parecchi gol. Non fu facile andare a dirgli che doveva fare le valige perché mi avevano comprato Dirceu. Ma, seppur a malincuore, gli spiegai come stavano le cose...
Andò tutto bene, perché alla fine arrivammo quarti, ma ciò non toglie che ancora adesso io continui a pensare che l'acquisto di Dirceu fu realizzato in un momento sbagliato.
Il campionato 1983/84 cominciò all'insegna della partecipazione della Coppa Uefa. Purtroppo fummo eliminati dopo due turni e senza mai aver perso. Dall'urna di Ginevra uscì subito la Stella Rossa...
Il Verona sciorinò una prestazione stupenda, grazie anche alla presenza di un arbitro, l'inglese Courtney, che diresse la gara con pilso, non si fece intimorire dal numeroso pubblico slavo e tenne a bada con sagacia le velleità dei giocatori della Stella Rossa che, a un certo punto, cercarono di incanalare l'incontro sulla rissa.
In campionato arrivammo sesti e, soprattutto nella fase finale, ci fu qualche partita "anomala", che perdemmo perché probabilmente dovevamo perdere. Ormai, visto che di anni ne sono passati parecchi, certe cose si possono anche dire, a Napoli fummo sconfitti perché i partenopei rischiavano seriamente la retrocessione. Anche in casa con la Fiorentina, altra squadra che navigava in cattive acque, accadde qualcosa di strano. Insomma, potevamo potevamo piazzarci un pò meglio, perché le potenzialità del Verona sono convinto che valessero qualcosa in più del piazzamento che ha ottenuto al termine del torneo.
Nella stagione successiva accadde ciò che tutti , io compreso, non si immaginavano potesse succedere. Alla prima giornata del girone di ritorno, salgo sul pullman al ritorno da una trasferta. Mi piazzo davanti, al mio solito posto. Vicino a me c'è Mascetti e, incredulo, gli dico: "Ciccio, ma ti pensi, abbiamo cinque punti di vantaggio sulla seconda!". Ecco, questo per spiegare che anch'io ero sbalordito per il comportamento della squadra...
Il mio unico rammarico, legato a quella squadra, fu quello di non poterla vedere all'opera, così com'era, nella stagione successiva. Per capire come si sarebbe comportata, se avrebbe ancora lottato per il titolo o se si sarebbe accontentata di una posizione di secondo piano. Ma purtroppo non fu possibile...
La vittoria dello scudetto ci lanciò nell'orbita della Coppa dei Campioni. E noi pagammo le due partite che la Juventus dovette disputare a porte chiuse. Non c'è niente da fare, andò proprio così. Dopo tanti anni si può dire, senza vergogna e senza lasciarsi andare ad inutili piagnistei. L'arbitraggio fu vergognoso. Ma non solo relativamente agli episodi più evidenti: fu tutto l'andamento della partita a lasciare a desiderare. Wurtz, del resto, era un arbitro squalificato e poi reintegrato. Questo credo faccia capire molte cose. La rabbia, alla fine della partita, serpeggiava nella nostra squadra. Quando scendemmo negli spogliatoi si ruppe un vetro. Volò un a ciabatta o qualcosa di simile e il frastuono giunse alle orecchie dei giornalisti che già si trovavano in prossimità degli stanzoni in cui ci cambiavamo. Mi presi la colpa, perché in quel momento era giusto così. Ma non fui io a rompere il vetro. Fu un giocatore, colto da un a sorta di raptus...
Quella stagione non fu eccezionale...
Chiudemmo al 10° posto e ci rifacemmo nel campionato seguente, quando ci piazzammo quarti pur potendo, secondo me, ambire a una posizione migliore...
Fu l'ultimo anno di un certo rilievo. Perché poi si ruppe qualcosa. Se ne andò Tricella, che, per me, era un elemento fondamentale sia in campo, sia fuori. In campo, per quello che era il suo modo di interpretare il ruolo di battitore libero; fuori, perché era sempre il capitano,rispettato e ben voluta dai compagni grazie anche alla sua forte personalità. Col passare degli anni quasi tutti gli elementi che costituivano il nucleo storico della squadra che conquistò lo scudetto lasciarono il Verona e i nuovi arrivati facevano fatica a trovare l'intesa con i vecchi...
Arriviamo alla vigilia del mio ultimo anno sulla panchina del Verona. Mascetti se n'era andato, perché mal sopportava le infiltrazioni di Caliendo, avallate dalla società, durante la campagna acquisti e tornò Landri. Mi ricordo che prima di partire per le vacanze il nuovo diesse mi garantì che la situazione non era così catastrofica come qualcuno la voleva dipingere e che, con la cessione di tre o quattro giocatori, si poteva pensare di creare comunque qualcosa di buono. Partii più sereno, ma nel bel mezzo dele ferie all'isola d'Elba mi giunse una telefonata di Landri che mi avvisava della necessità di vendere tutti. Io ormai avevo firmato, ma ero molto combattuto a livello interiore. Pensavo: se scelgo di andarmene passerò per il traditore, per colui che nel momento di difficoltà lascia per non sporcarsi la faccia; se resto e le cose vanno male, diranno che resto qui solo per prendere i soldi dello stipendio: Alla fine decisi di rimanere perché la ritenni la cosa più sensata. Quella squadra aveva solo bisogno di un pò di tempo. Mi vendettero 16 giocatori e il diciassettesimo, che era Terraciano, se ne andò a novembre...
Nonostante questo, disputammo un ottimo girone di ritorno. Vincendo a Cesena, all'ultima di campionato, ci saremmo anche salvati. Purtroppo non accadde e quella forse fu la "vendetta" del Cesena nei confronti di Bagnoli. Lasciai la squadra romagnola per venire al Verona dopo averla condotta in serie A e lei mi spedì in serie Bal termine di un ciclo meraviglioso in terra scaligera che era sfociato nella conquista dello scudetto. E venne anche il momento del divorzio da Verona...
Ho capito che forse davo fastidio. E per un motivo che posso pure accettare: la squadra stava retrocedendo e tutti cel'avevano sempre con Chiampan e Polato, senza prendersela mai una volta con il sottoscritto. Quando mi resi conto di essere sopportato, venne il Genoa e accettai subito la sua proposta. Ma nessuno, ci tengo a precisarlo, fece qualcosa per trattenermi...
A me bastava uno sguardo per farmi intendere. Ed era questo il nostro segreto. Io, in quanto allenatore, riconoscevo il mio gruppo; i ragazzi, in quanto giocatori, riconoscevano il loro allenatore. E fu questo aspetto che si sgretolò negli anni. Non ho mai commesso l'errore di trattare qualcuno in maniera diversa rispetto a qualcun'altro. Non era facile, perché anche un tecnico è prima di tutto un uomo e può avere le proprie simpatie. Una simpatia io ce l'avevo ed era per Tricella, il mio capitano. Lo stimavo sotto tutti gli aspetti, ma non credo di averlo mai dato a vedere. Anche perché avevamo due caratteri completamente opposti: lui era estroverso ed espansivo, io introverso e piuttosto orso nei rapporti. Però ero affascinato da questo suo modo di comportarsi, ridevo quando cominciava imitando Jerry Lewis e finiva facendo il verso al sottoscritto.
Un rapporto del tutto particolare lo ebbi con i tifosi...
Anche alla domenica, prima e dopo le partite, sono sempre stato restio a salutare enfaticamente i supporter. Mi sembrava di cercare la loro simpatia, di attirarmi il loro consenso e non lo ritenevo necessario. Salutavo, ogni tanto, quando non potevo proprio farne a meno. A Stettino, per esempio, vennero molti veronesi. Alcuni di loro si sobbarcarono un lungo viaggio in pullman. Conoscendo questo, entri in campo e ti invocano e tu cosa fai? Non li saluti? No, capivo che bastava un cenno e mi adeguavo. La realtà è che sapevo che nei miei confronti tutti i tifosi, non solo quelli della curva, provavano stima ed affetto. Per loro ero il "mister" o semplicemente Osvaldo. E per loro, anche adesso, sono il "mister" o semplicemente Osvaldo.

 

Testo tratto da:
"Storie in gialloblu"
Verona, Chievo e Scaligera Basket
raccontati dai protagonisti
di Antonio Spadaccino
Edito da:
Associati Media srl

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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