Preben Larsen Elkjaer
Io, il Verona non sapevo nemmeno cosa fosse. O meglio,
sapevo che che Verona è una città italiana e potevo immaginarmi che ci
fosse anche una squadra di calcio, che la rappresentasse. Ma era solo
un'intuizione. Perciò rimasi un pò perplesso quando, durante i campionati
europei del 1984 in Francia, mi venne fatta la proposta di andare a
giocare nell'Hellas Verona...
Giunsi a Verona insieme ad Hans Peter Briegel e alle nostre rispettive
consorti. Il primo impegno fu quello di sottoporci alle visite di rito. Il
secondo di cercare casa. Andammo sul lago di Garda. Ne avevamo sentito
parlare e volevamo vederlo di persona. Ci bastò un attimo. Mia moglie, con
fare piuttosto autoritario, mi disse: "Preben, noi vivremo qui"..
Il giorno del primo allenamento, prendo l'auto assieme a Peter e vengo a
Verona. Mi presentano Bagnoli e lui mi dice: "Ciao". Un attimo di silenzio
e mi porge una domanda: "Dove giochi?". "In attacco", risposi. Io non
sapevo l'italiano, però quella parola l'avevo imparata. I dialoghi con il
nostro allenatore non sono mai stati particolarmente entusiasmanti.
Bagnoli è un uomo tranquillo, forse anche un pò timido, e ha sempre
parlato molto poco. Lo faceva solo se le circostanze rendevano necessario
un suo intervento. Ma il nostro rapporto è stato stupendo. Ci capivamo con
uno sguardo...
La fiducia ci venne strada facendo. Dopo tre partite avevo già capito che
eravamo fortissimi e che avremmo potuto dire la nostra contro tutte le
avversarie...
Alla quinta giornata battiamo la Juventus per 2-0. Segno il famoso gol
senza scarpa e da quel momento divento l'idolo della tifoseria gialloblu.
Fu un gol strepitoso, il tipico gol che uno sogna di realizzare fin da
quando, ancora bambino, comincia a tirare i primi calci ad un pallone...
La nostra cavalcata solitaria termino con la conquista dello storico
scudetto del 12 maggio 1985. Giocavamo a Bergamo contro l'Atalanta. Ora
che ci penso, mi sembra quasi un segno del destino: la società orobica fu
la prima a contattarmi e me la sono ritrovata di fronte, protagonista
impotente, nel giorno più bello della mia vita calcistica italiana. Segnai
il gol del pareggio. A quel punto la partita praticamente finì. Si giocava
solo perché si doveva arrivare al 90°, ma in sottofondo si respirava
l'aria del trionfo. Il pubblico veronese al seguito della squadra
ribolliva di gioia. Il suo tifo assordante spingeva in avanti le lancette
dell'orologio. Tutti aspettavamo il triplice fischio di chiusura e quando,
finalmente, l'arbitro Boschi di Parma decretò la fine delle ostilità si
scatenò il putiferio...
Ero pazzo di gioia, felice per la scelta che avevo compiuto nemmeno un
anno prima, consapevole di aver partecipato alla realizzazione di
un'impresa storica, destinata, forse, a rimanere unica. Una settimana di
festa ci accompagnò all'ultima gara di campionato con l'Avellino. Quella
domenica lo stadio era bellissimo, tutto colorato di giallublu. Ma nei
giorni precedenti tutta Verona ha vissuto, credo, un momento magico. La
gente scendeva nelle piazze, cantava e ballava per la felicità che le
aveva regalato l'Hellas. Credo che una cosa del genere non fosse mai
successa e mi piace sapere di avere contribuito a questo "miracolo".
Questa città, infatti, mi è entrata nel cuore. Ho ancora la casa sul lago
di Garda e se un giorno dovessi decidere di lasciare la Danimarca so già
dove rifugiarmi. Mio figlio Max è veronese. Lui è nato nel 1987...
Quando sono andato via dal Verona, la squadra è retrocessa in serie B. Ho
sofferto molto per questo fatto, perché, per come l'ho conosciuta io,
questa piazza merita di giocare solo in serie A. Adesso c'è tornata e mi
auguro ci rimanga a lungo. Me lo auguro soprattutto per i tifosi del
Verona che sanno sostenere la propria squadra come pochi.
Io ero un loro beniamino ed ero forse un privilegiato. Ma l'amore nacque
spontaneo, senza forzature. Io sapevo solo ridere e giocare bene. Loro mi
hanno apprezzato per questo. E ancora adesso, quando sono a Verona e mi
incontrano per strada, mi dicono semplicemente "Ciao Elkjaer" e io sono
contento. Perché so che non mi hanno dimenticato. La loro riconoscenza va
di pari passo con la mia. Perché quando hai modo di conoscere ed
apprezzare chi soffre con te alla domenica e partecipa alle tue gioie e ai
tuoi dolori pur non essendo in campo, ti ci affezioni. Almeno io sono
fatto così. E per questo motivo, per rispetto nei confronti chi mi ha
amato e osannato fino ad invocarmi come sindaco di Verona, non ho
accettato di vestire altre maglie di società italiane. Il loro rispetto
meritava il mio rispetto...
Ci sono momenti, in Danimarca, in cui chiudo gli occhi e rivedo Verona. Ma
mi basta guardare Max per capire che il legame con questa città sarà per
me indissolubile. Lui, Max, me lo fa presente ogni volta che ci
arrabbiamo. "Papà - mi dice - ricordati che io sono italiano. Anzi, sono
veronese". È furbo Max, perché sa che il solo
pronunciamento di quella parola fa scomparire la mia arrabbiatura. Verona
città magica, parola di Preben.
Testo tratto da:
"Storie in gialloblu"
Verona, Chievo e Scaligera Basket
raccontati dai protagonisti
di Antonio Spadaccino
Edito da:
Associati Media srl
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