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TRENTA
poliziotti a caccia del capo dei capi. |
di Maurizio Piccirilli da Il Tempo del 13 aprile 2006
Un
gruppo di uomini che da anni era sulle tracce di Bernardo Provenzano. Gli
acchiappafantsami come li ha definiti il procuratore nazionale antimafia
Pietro Grasso sono guidati da Renato Cortese, funzionario dello Sco. Uomo
massicio e di poche parole che ha condiviso ogni attimo del duro lavoro
che alla fine è stato coronato dal successo. Da quando avevate capito che
stavate sulla pista buona? «Sono anni. Anni che quando pensavamo di
essere a un passo dalla cattura ci dovevamo ricredere. Abbiamo
attraversato tutta la Sicilia seguendo passo dopo passo tutte le tracce di
Provenzano. Nessuna pista è stata lasciata. Un cerchio che si stringeva
ogni volta. Fino a Corleone..» Sempre gli stessi uomini? «Trenta uomini.
Sempre loro. Affiatati e specializzati. Da anni lavoriamo a questa
indagine seguendo un metodo investigativo affinato in tante indagini
andate a buon fine». Ma la cattura del super padrino non arrivava? «Il
capo dei capi aveva una rete di protezione degna del suo ruolo. Man mano
che ci avvicinavamo a lui trovavamo un ambiente sempre più ostile. A
Corleone la gente che lì vive da 50 anni conosce ogni ramo d’albero e
ogni presenza estranea viene segnalata in un attimo». Così vi siete
trasformati in cespulgli. «In parte è così. Mesi e mesi di
appostamenti. Lontano dai centri abitati. Salivamo sulle montagne
all’alba e ne discendevamo la sera protetti dal buio. Tanta pazienza e
sopportazione. Dovevamo trovare le montagne più lontane e da lì
osservare con attenzione i movimenti». Siete così diventati latitanti..
. «Un po’ sì - a Cortese sfugge un sorriso - Una vitaccia. Lontano
dalle famiglie. dalla civiltà senza contatti, senza poter parlare se non
per bisbigli. Lassù una parola detta a voce normale prende l’eco e il
suono attraversa tutta la valle». Poi una settimana fa il cerchio si
stringe a pochi casolari.. «L’adrenalina e la tachicardia hanno assunto
livelli indescrivibili. Ma niente, noi tutti a reprimere gli istinti
animaleschi di urlare, saltare. Ci mordevamo la lingua e le labbra e
soprattutto facevano scongiuri. Troppo spesso ci sembrava di essere
arrivati sull’obiettivo e poi... Momenti di buio dove si perde la
speranza». Questa volta però non è andata così. Tre giorni fa avete
avuto la certezza che la masseria di Montagna dei cavalli ospitava
qualcuno di importante. «Abbiamo continuato a sorvegliarlo da lontano.
Poi abbiamo deciso di avvicinarsi». Strisciando? «No, in venti dentro un
furgone siamo arrivati a ridosso del casale. Stipati come sardine. In
silenzio. Zuppi di sudore con la tensione che si tagliava con il coltello.
Piano piano per non farci notare dal pastore Marino, quello che portava il
pacco con la biancheria». Poi l’irruzione? «Quando quel braccio è
spuntato dalla porta siamo entrati in azione. Sfondato il vetro e me lo
sono trovato di fronte. Ho subito capito che era lui. Lavorando per anni
su questo obiettivo, studiando il suo identikit, le fotografie dei
familiari, è come se lo avessi conosciuto da sempre». Come ha reagito
Provenzano? «I primi secondi è rimasto sorpreso da quell’intervento
improvviso, che subito dopo ha lasciato il posto a un’espressione
rassegnata sul volto che, anche se non l’ha pronunciato, voleva dire
"è finita". Ha detto "state facendo un errore". Ma
questa è un’espressione che usano tutti i mafiosi quando vengono
scoperti. Un modo per dimostare la loro innocenza». A quel punto però
avete urlato? «È stata scaricata tutta la tensione di giorni, anni. I
ragazzi hanno scaricato tutta l’adrenalina che avevano accumulato
durante tanti giorni lontano da casa al freddo, sotto la pioggia.
Frustrati dai progressi che non arrivavano. In quel momento tutta la gioia
trattenuta è uscita fuori». E adesso? «Adesso vedremo. Dobbiamo
analizzare le cose trovate nel covo di Provenzano. Cercheremo di
ricostruire i rapporti e vediamo di identificare chi ha favorito la
latitanza». Si parla di oltre 300 pizzini. Provenzano era un grafomane?
«D’altra parte era l’unico passatempo a parte la televisione arrivata
un paio di giorni fa e la lettura della Bibbia». Non ha detto una parola?
«Il minimo indispensabile. Ha sempre tenuto quello sguardo mistico con un
sorrisetto imperscutabile». |
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Da L' Espresso del 26 aprile 2006
MAFIA / I RETROSCENA DELL'ARRESTO DEL PADRINO DI CORLEONE
Provenzano agli infrarossi
Gli appostamenti. I controlli al casolare. Le tecnologie sofisticate. Tappa per
tappa la cattura del boss
L'elicottero della polizia vola sopra Roma, un po' prima del tramonto di
martedì 11 aprile. Lassù ci sono Bernardo Provenzano, 73 anni, capo di Cosa
nostra, e gli agenti che hanno appena interrotto la sua fuga cominciata nel
1963. Zu Binu, zio Bino come lo chiamano i mafiosi, avvicina il suo volto da
sfinge al grande finestrino e guarda scorrere i palazzi del potere. Sullo sfondo
sfilano il tetto di Montecitorio, Palazzo Chigi, il Tricolore che sventola sul
Quirinale. Forse non li nota o forse ripensa alla storia d'Italia, andata e che
verrà, come soltanto lui e pochi altri conoscono. All'improvviso il pilota
muove la barra verso ovest e sotto i piedi di quei pochi passeggeri passano il
cupolone di San Pietro e il Vaticano. Provenzano si sporge per guardare meglio.
Si fa tre segni della croce, uno dopo l'altro. Tre, come i crocefissi sulla
catenina d'oro che ha al collo. Poi stringe le mani e prega in silenzio. Sono le
ultime immagini del mondo libero negli occhi di uno degli uomini più feroci
d'Europa, così come chi c'era su quel volo le ha raccontate a 'L'espresso'.
Poco dopo l'elicottero atterra finalmente nel cortile del carcere di Terni. E,
anche per l'imprendibile boss dei boss, l'orizzonte ha ora tutt'altra
prospettiva.
I cacciatori di Provenzano, 18 poliziotti della squadra mobile di Palermo e otto
del servizio centrale operativo della polizia, hanno più volte rischiato di
fallire. E forse, se negli ultimi giorni di ricerche il cielo non fosse stato
così limpido, non lo avrebbero mai preso. 'L'espresso' ha ripercorso con loro
le tracce che hanno portato al blitz nel covo di Corleone. Ecco i retroscena mai
raccontati della cattura.
I pedinamenti Bisogna tornare indietro di alcuni mesi e lasciare Palermo. Nel
2005, i ragazzi della Squadra mobile decidono di ricominciare le ricerche dalla
grande villa a due piani della famiglia Provenzano, in contrada Punzonotto,
periferia di Corleone. Lì abitano la compagna del boss, Benedetta Saveria
Palazzolo, 65 anni, e i figli Angelo, 31, e Francesco Paolo, 24, da poco scelto
dal ministero dell'Istruzione per insegnare italiano in una scuola in Germania.
Tre mesi fa vedono uscire dalla villa un collega di Angelo Provenzano, Giuseppe
Lo Bue, 36 anni. Con il figlio del boss vende e ripara aspirapolveri. Fin qui
storia già raccontata. Quel pomeriggio Lo Bue ha in mano un sacchetto azzurro
della spazzatura. A casa dei Provenzano si fa vedere una volta ogni dieci
giorni, sempre di pomeriggio. Ma è la seconda volta che esce dalla villa con un
sacchetto azzurro che poi carica sulla sua Audi 4 Station Wagon: "Se per
due volte succede la stessa cosa, vuol dire che c'è una regola",
immaginano quel giorno gli investigatori. A inizio febbraio vedono Lo Bue
togliere un altro sacchetto dalla sua auto e metterlo sulla Opel Astra del
padre, Calogero, 60 anni. La casa di Calogero Lo Bue è a poche centinaia di
metri dai Provenzano, sulla strada che sale verso la montagna di Rocca Busambra
il bosco della Ficuzza. L'uomo da pedinare adesso è lui. Un aiuto arriva dalle
microtelecamere piazzate in paese da polizia e carabinieri in anni in cui le
indagini hanno sempre portato qui.
Il pomeriggio di sabato 25 marzo gli agenti sorvegliano la casa di Calogero Lo
Bue. Da qualche giorno lì dentro c'è un altro sacchetto. Padre e figlio
salgono sull'Opel Astra. Giuseppe al volante, l'altro accanto. Attraversano il
centro di Corleone, seguiti da una Golf: è intestata a una donna, alla guida
c'è il marito. Si chiama Bernardo Riina, 68 anni e un guaio negli anni '80 per
essersi inventato un alibi. Nella salita di via del Calvario, una strada stretta
che taglia in due il paese, gli agenti devono interrompere l'inseguimento. Da un
punto di osservazione parallello, altri investigatori assistono allo scambio:
Calogero Lo Bue con il sacchetto lascia il figlio e sale in macchina con Riina.
La Golf riparte. Dopo cento metri incrocia una strada. A destra si va a
Campofiorito. A sinistra, verso il bivio per Prizzi. Ancora una volta il capo di
Cosa nostra ha vinto. La Golf è persa. Ma poco tempo dopo riappare in paese con
i due uomini. La strada per Campofiorito era controllata da agenti nascosti in
un bosco. Lo stesso quella per Prizzi. Le due pattuglie raccontano di non avere
visto la Golf. Significa che Riina e Lo Bue non hanno lasciato la zona. È lì
ci sono soltanto altre due vie senza uscita: quelle che salgono a Montagna dei
cavalli.
L'accerchiamento ormai è come un'operazione militare. Il servizio centrale
della polizia mette a disposizione termocamere in grado di rilevare la presenza
di persone dal loro calore corporeo. Ma diventano inutili: "Il problema
sono i cani. Per usare quegli strumenti, bisogna avvicinarsi molto alle masserie
e i cani abbaiano", raccontano gli investigatori. Per vedere meglio, i
cacciatori di Provenzano decidono di andare il più lontano possibile. Ad almeno
8 chilometri, in un bosco, sopra contrada Casale. Piazzano un Celeston, uno di
quei grandi telescopi portatili usati per osservare le stelle. Per ogni loro
spostamento, si muovono di notte tra l'una e le tre, quando il paese dorme. A
volte devono smontare in fretta l'osservatorio per non essere visti dai
guardiani della Forestale. Non si fidano di nessuno. Dal telescopio seguono
tante scene di vita quotidiana a Corleone. Lo Bue va a casa di Riina, proprio in
fondo alla valle. Un'altra volta Riina sale sulla sua Golf e dopo un po'
riappare sulla strada per Montagna dei cavalli. Ma da lì è impossibile
scoprire quale sia la meta. Gli alberi nascondono la fine delle indagini.
Bisogna salire sulla cima opposta, Montagna vecchia. È un pascolo spoglio,
circondato da pareti di roccia verticali. Là sopra nessuna persona si può
mimetizzare. Martedì 4 aprile, una settimana prima dell'arresto, entra in
funzione la telecamera radiocomandata. Gli agenti l'hanno nascosta tra le pietre
sotto la cima di Montagna vecchia. E da adesso, quasi ogni notte, qualcuno deve
andare a cambiare le batterie. Salgono dal versante opposto, un'ora a piedi
lungo un canalone. Devono anche aggirare i cani e i pastori di guardia a una
mandria. Da lassù la telecamera inquadra la Golf di Riina dentro la masseria di
Giovanni Marino, 42 anni, un pastore incensurato. Il cielo sereno è d'aiuto,
perché con le nuvole non avrebbero visto nulla. Per ricevere le immagini in
diretta, viene nascosta un'antenna in una costruzione abbandonata sul versante
opposto. Quella mattina i poliziotti rimangono accovacciati fino a notte perché
Giovanni Marino porta le sue pecore proprio nel prato accanto al piccolo
casolare. Vengono intanto controllati i consumi di elettricità nell'ovile. Si
scopre un picco durante l'inverno: qualcuno si è scaldato con una stufa
elettrica.
Il primo sguardo "Quando poco prima delle 8,30 dalla telecamera è stato
visto quel braccio uscire dalla porta, noi eravamo già pronti al blitz",
raccontano gli agenti: "Aspettavamo l'ordine con il cuore a 3 mila, dentro
due furgoni chiusi, come per Giovanni Brusca. Avevamo le armi in mano e i
passamontagna 'mefisto' sul volto. Anche senza quel braccio, saremmo
intervenuti". Fino a domenica 9 aprile, giorno delle elezioni, però c'è
ancora un dubbio: che quell'ovile sia solo un punto di transito di pacchi e
pizzini. Ma lunedì per ben due volte la telecamera inquadra una stranezza:
quando il pastore Marino si avvicina al covo, la porta in ferro e vetro si muove
un istante prima che lui appoggi la mano sulla maniglia. Adesso quella vetrata
è a pezzi. La reazione di Provenzano l'ha fatta cadere addosso agli agenti.
"Chi sei?", urla il caposquadra quando se lo trova davanti. "Voi
non sapete quello che fate", risponde il capomafia. Ma a quel punto i suoi
cacciatori sono più che sicuri: "Io l'ho capito al primo sguardo, dagli
occhi e dagli zigomi. Provenzano ha gli stessi occhi blu del figlio Angelo e i
tratti somatici di suo fratello Simone", rivela uno dei primi a entrare.
Sulla scrivania, proprio sopra agli ultimi pizzini, zu Binu ha lasciato un
righello giallo con il logo della Sogema. Per Provenzano quel nome è forse
l'inizio della fine. Perché è la ditta legata a Ciccio Pastoia, l'uomo che
avrebbe dovuto proteggerlo per sempre: ma è finito in carcere con mezzo
mandamento dopo aver parlato troppo vicino a una microspia. In Cosa nostra gli
errori si pagano. E Pastoia si è ucciso in cella. Adesso quella stessa scelta,
forse, toccherà ad altri. Sempre che Matteo Messina Denaro, Salvatore Lo
Piccolo, il clan Cannella di Prizzi e i capimafia che verranno, non abbiano già
perdonato chi ha fatto arrestare il loro vecchio zio Bino.
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LA FIRMA DEL BOSS
Il verbale di sequestro nel casolare in cui era nascosto
Bernardo Provenzano, con l'elenco degli oggetti e del denaro ritrovati. In calce
la firma del capo di Cosa nostra
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Il postino venuto dall'antimafia
di Piero Messina
Il procuratore Pietro Grasso l'aveva definito il "ministero delle Poste e
delle telecomunicazioni" di Cosa nostra: la rete che garantiva a Bernando
Provenzano di mantenere il comando della mafia siciliana. Le prime tracce di
questa ragnatela sono emerse dieci anni fa: solo nella provincia di Ragusa, i
carabinieri avevano ricostruito 29 viaggi di emissari che da Palermo si recavano
a Vittoria, a oltre 200 chilometri di distanza, per fare tornare indietro i
messaggi al boss dei boss. Provenzano aveva fissato regole rigidissime per
selezionare i suoi messi. Pochi fra i tanti postini si dovevano conoscere tra
loro. E tutti dovevano essere più che fidati. Anche i tre arrestati insieme con
il padrino avevano superato la selezione. Giuseppe Lo Bue, 'il ragazzo', era
tenuto in grande stima: oltre a lavorare come rappresentante nello stesso
ufficio dove opera Angelo Provenzano, uno dei due figli del boss, è anche
legato da stretti vincoli di parentela all'anziano padrino, avendo sposato la
figlia di Carmelo Gariffo, nipote di Provenzano. Gariffo è un personaggio noto
alle cronache giudiziarie: considerato per anni capo mandamento di Corleone
venne arrestato e condannato per associazione mafiosa e riciclaggio. C'è poi
Rosario Lo Bue, il padre di Giuseppe, che aveva già dimostrato la sua fedeltà
alla causa: nel 1997 venne arrestato per avere favorito la latitanza di Totò
Riina. Infine Bernardo Riina. Nessun legame di parentela con 'Totò o curtu', ma
un passato di tutto rispetto. Era il 1969 quando Bernardo Riina salì sul banco
dei testimoni davanti ai giudici di Bari per scagionare Provenzano dall'accusa
di omicidio. Trentasei anni dopo tocca a lui consegnare l'ultimo pacco della
latitanza più lunga e discussa. Solo Bernardo Riina, infatti, aveva accesso al
rifugio di Bernardo Provenzano. La storia di Bernardo Riina ha un risvolto
paradossale. Di mestiere faceva l'agricoltore ed era noto in paese per il suo
impegno antimafia, assunto e mostrato in pubblico dopo essersi lasciato alle
spalle un periodo di soggiorno obbligato. Una redenzione soltanto a parole,
perché chi avrebbe potuto immaginare che proprio lui, il vicepresidente della
cooperativa antimafia di Corleone, altri non era se non l'ultimo pony express di
Provenzano?
da L' Espresso del 26 aprile 2006
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