Il
“Codice Provenzano”
edito da Laterza , la risposta
della mafia a Dan Brown
giovedì,
8 marzo 2007
di
Antonella Ciancio
MILANO
(Reuters) - Non è nato dal computer di un autore di bestseller come Dan Brown,
ma dalla macchina da scrivere del "boss dei boss" Bernardo Provenzano,
il "codice" della mafia in
libreria.
Ricostruito
pazientemente da un giornalista e dal magistrato che l'11 aprile 2006 tolse la
libertà all'ultimo padrino dopo 43 anni di latitanza, "Il Codice
Provenzano" è il più grande archivio della mafia mai rinvenuto.
"Questo
libro è Cosa Nostra spiegata da Cosa Nostra. La mafia spiegata dalle parole dei
mafiosi", dice il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale
Antimafia Michele Prestipino, autore del volume con il giornalista Salvo
Palazzolo, in un'intervista telefonica a Reuters, da Palermo.
Il
libro edito da Laterza pubblica per la prima volta oltre 45 "pizzini"
-- minuscoli messaggi di carta ripiegati eredità di un'antica tradizione
popolare, infilati tra le dita e passati di mano in mano -- con cui il boss di
Corleone ha comandato una rete silenziosa e occulta di interessi criminali,
racket e complicità non del tutto decifrate.
"L'intenzione
del libro è offrire uno spunto di riflessione su quello che è stato il più
grande archivio di mafia mai rinvenuto", spiega Prestipino.
IL
CODICE DEL SILENZIO
Nato
74 anni fa e soprannominato Binnu "u tratturi", il trattore, per il
modo con cui aveva ucciso un capomafia, Provenzano è stato il capo indiscusso
di Cosa Nostra dal 1993 -- anno dell'arresto di Totò Riina, l'ideatore della
strategia stragista -- fino all'11 aprile 2006.
Latitante
per 43 anni, distante dalla linea "dispotica" di Riina, Provenzano ha
scelto la mediazione silenziosa e la parola scritta per gestire il più a lungo
possibile gli affari della cupola mafiosa.
"Il
linguaggio di Provenzano è stato ed è l'unico strumento di conoscenza di un
personaggio che per oltre 10 anni è stato il capo di Cosa Nostra", dice
Prestipino. I "pizzini" sono "il suo verbo", lo
"specchio della sua persona", aggiunge il magistrato.
Ancora
oggi, dal carcere di massima sicurezza dove sconta una ventina di ergastoli
sotto il duro regime del 41 bis, il boss continua a tacere.
Il
suo codice, che non è il primo nella storia della mafia e muta nel tempo,
assegna sigle fatte di lettere e numeri -- da 1, il numero di Provenzano, a 164
-- ad autori e destinatari dei messaggi. Si tratta di mafiosi che
interloquiscono direttamente con il boss, chiedendo anche favori per conto di
altri esterni alla mafia. Missive sgrammaticate, composte da un uomo che ha
lasciato la scuola dopo la seconda elementare, dense di citazioni religiose.
"RINGRAZIA
GESU' CRISTO"
Uno
dei suoi complici più misteriosi e ancora da identificare è "l'adorato
Gesù Cristo", che Provenzano ringrazia in un messaggio per avergli svelato
le telecamere nascoste nel casolare di Vicari dove si tenevano i summit.
"Niente
per me ringraziamenti. Ringrazia a Nostro Signore Gesù Cristo", scrive
Provenzano in un pizzino.
"Non
sappiamo se (Gesù Cristo) corrisponde a una persona fisica, a un'entità.
Certamente esiste in modo specifico e concreto. E' difficile ipotizzare che
la Divina Provvidenza
sappia e venga a conoscenza dei luoghi in cui la polizia e i carabinieri hanno
installato telecamere, microspie", commenta il sostituto procuratore.
Gli
inquirenti stanno cercando di capire se vi sia nelle citazioni tratte dalla
Bibbia e nella "maniacale" religiosità di Provenzano un altro codice
nascosto.
Il
giorno dell'arresto, nel covo di Montagna dei Cavalli, nel Corleonese dove il
boss era tornato per trovare appoggi, c'erano 91 santini, quadri religiosi con
una copia dell'"Ultima cena" di Leonardo Da Vinci, due macchine da
scrivere e una Bibbia, edizione febbraio 1978, contenente numeri e annotazioni
sistemate con ordine tra i versetti della Sacra Scrittura.
Più
volte Provenzano ha chiesto di riavere la sua Bibbia, che è custodita al
sicuro. Anche l'Fbi ha chiesto di consultarla per cercare di decriptarne i
messaggi.
"Sicuramente
era un documento personale di Provenzano, che aveva da molti anni. Uno strumento
di lettura quotidiana", ricostruisce Prestipino. "Se poi in queste
glosse si nasconda un Codice, questo è un risultato al quale non siamo
pervenuti".
Ora
che l'ultimo padrino è in carcere, "chi detiene i segreti del suo
codice?" si domandano gli autori.
"Probabilmente
non c'è un capo che abbia sostituito Provenzano", perché la sua
esperienza non è sostituibile, spiega il magistrato. "Credo si possa
ipotizzare una diversa forma di comando", conclude. "Un regime in cui
ognuno governa il proprio territorio senza danneggiare il vicino".
Chi
è Michele Prestipino
«passione»
e «serenità»
Il
pm Prestipino a sinistra
«No, non ho ricevuto minacce espresse. Del resto il passato ci ha insegnato che
Cosa nostra ha fatto le stragi senza minacciarle». Nella procura di Palermo
vuole rimanere a lungo? «E’ difficile rispondere. L’esperienza è appagante
ma molto faticosa. Anche perché il pm viene additato come un soggetto parziale.
Può subire pressioni esterne e interne. Bisogna essere resistenti. E
crederci. Continuare a svolgere il lavoro con passione. E serenità». Pausa. «Altrimenti
si rischiano errori».
Romano di origine siciliana, 47 anni, venti in magistratura , da quando acquista
il grado di consigliere di Cassazione, un passato da cultore della materia a
La Sapienza
a Roma. Michele Prestipino è sostituto procuratore all’Antimafia di Palermo.
In quell’ufficio, con a capo Piero Grasso, difficile anche per le forti
polemiche interne. Sta seguendo indagini che scottano: quella sulle
dichiarazioni di Antonio Giuffrè, lo scandalo sulle «talpe» all’interno
della procura e sulle connessioni tra mafia, politica e sanità. Inchiesta in
cui è coinvolto anche il presidente della regione, Totò Cuffaro. Alle spalle
sette anni alla pretura di Avezzano, quattro alla sorveglianza a L’Aquila e la
sentenza «Postiglione» dell’82, confermata dalle Sezioni Unite della
Cassazione. Famosa per gli addetti ai lavori, è una delle prime che ha ammesso
la costituzione come parte civile di associazioni ambientalistiche (WWF e
Italianostra).
Otto anni fa ha scelto Palermo. Qui vive e lavora sotto scorta. Ha scovato Bernardo
Provenzano, ma si è occupato delle le indagini che hanno portato all’arresto
di altri ex latitanti come Benedetto Spera e Salvatore Sciarabba . «Sono
risultati eccezionali ottenuti non con soffiate, ma grazie a tante ore di
pedinamenti e intercettazioni – dice -. Si tratta di strumenti di lavoro
costosi, ma a rischio per mancanza di fondi. Serve un’iniezione di risorse».
A Palermo, in alcuni periodi, è mancata la carta per le fotocopie, la benzina
per le auto blindate, e anche i soldi per gli straordinari. «Un uomo della Pg
spesso lavora senza limiti di orario - afferma -, e deve avere la garanzia di
percepire l’extra». Per Prestipino il giudice si deve formare studiando «tutti
i giorni», non con concorsi saltuari, «a cui un magistrato si può sottrarre
continuando ad amministrare la giustizia». Ma soprattutto deve «essere al di
sopra di ogni sospetto». Vuol dire: «Non deve appartenere a nessuno».
Gisella
Desiderato
Il Libro
Salvo Palazzolo, Michele
Prestipino Il codice Provenzano Ed.Laterza
I pizzini dell'ultimo padrino custodiscono misteri, nomi e insospettabili
complicità della nuova mafia.
Il codice Provenzano è un giallo da decifrare.
Questo libro - documento ne pubblica per
la prima volta tutti gli elementi indiziari più preziosi.
Leggi un brano: Il Mistero dei pizzini
«Non sapete quello che state facendo», sussurrò
Bernardo Provenzano ai poliziotti che l’ammanettavano dentro il suo covo di
Corleone, a Montagna dei Cavalli, dopo 43 anni di latitanza.
L’11 aprile 2006. Erano le 11.21 di una mattina che il capo di Cosa Nostra
aveva dedicato interamente alla scrittura dei pizzini, l’unico strumento che
utilizzava per comunicare con il mondo al di fuori della sua casa bunker in
mezzo alle campagne della provincia palermitana. Bernardo Provenzano aveva
comandato da sempre così, battendo i tasti delle sue macchine per scrivere.
Dovunque si trovasse. Poi affidava quei messaggi, ripiegati sino
all’inverosimile e avvolti dallo scotch trasparente, nelle mani di fidati
mafiosi. Mai il capo di Cosa Nostra aveva utilizzato un telefono o un cellulare,
mai aveva ceduto alle lusinghe e alle scorciatoie di quella tecnologia che pure
fa della sicurezza nelle comunicazioni un baluardo imprescindibile. La centrale
di comando su cui si era fondato il trono di Bernardo Provenzano stava per
intero su un tavolino. Quella mattina dell’11 aprile apparve in tutta la sua
chiarezza ai poliziotti che avevano indagato per otto lunghi anni.
[...]
La cartella dei pizzini in partenza fu l’ultima cosa che Bernardo Provenzano
fissò prima di abbandonare per sempre l’ultimo nascondiglio. L’espressione
sbigottita dei primi momenti aveva già lasciato il posto a quell’enigmatico
sorriso che avrebbe fatto presto il giro del mondo, immortalato dai fotografi e
dalle telecamere davanti alla squadra mobile di Palermo. Solo per un momento, il
padrino fu distratto dal servizio del telegiornale di Rai 2 che annunciava il
suo arresto, poi rilanciò lo sguardo verso la macchina per scrivere dove aveva
lasciato un segreto a metà. Per la prima volta, si separava dai pizzini,
simbolo del suo comando. Che era terminato alle 11.21 di quel giorno di inizio
aprile, ma non era stato ancora svelato.
Ecco perché fu l’archivio dei pizzini il mistero che si manifestò subito a
chi aveva trovato la strada per Montagna dei Cavalli. Perché al capo di Cosa
Nostra i poliziotti del gruppo ribattezzato «Duomo», dal nome del vecchio
commissariato nel cuore della Palermo antica dove avevano sistemato il loro
quartier generale, erano arrivati seguendo i fedeli messaggeri dei pizzini del
capo. Partivano da casa della compagna e dei figli di Bernardo Provenzano,
all’ingresso di Corleone, e si immergevano nella città dove il padrino era
cresciuto settant’anni fa ed era diventato un killer spietato. Uno, due, tre
postini fidati avevano il compito di proteggere i misteri che restavano dopo
otto anni di indagini e arresti fra i manager, i picciotti e i favoreggiatori
del capo di Cosa Nostra, finalmente costretto all’angolo dall’azione dello
Stato.
I misteri che restavano apparvero presto in tutta la loro asfissiante presenza
agli uomini che si aggiravano dentro il covo di Montagna dei Cavalli. Senza la
decifrazione del codice segreto, le parole dei pizzini, scritte a macchina o a
penna, apparivano frasi senza senso e senza tempo. Appesantite dalle continue
sgrammaticature di un capomafia che da bambino non aveva terminato la seconda
elementare. Eppure, una ragione doveva esserci in quel codice. Un metodo
criminale doveva legare ogni pedina del mistero grande che era
l’organizzazione mafiosa Cosa Nostra dopo le stragi di Giovanni Falcone e
Paolo Borsellino, così come Bernardo Provenzano l’aveva riformata per farla
sopravvivere allo sconquasso dei pentimenti e della reazione dello Stato.
Ai poliziotti fu subito chiaro che dietro ogni numero che scandiva i pizzini
c’erano misteriose strade, tanti altri postini ancora, luoghi discreti per
ogni scambio, un destinatario o un autore che quasi sempre avevano una doppia
vita. Perché nessuno fa il mafioso e basta. Ma cerca di rimodellare la società
in cui vive secondo il proprio personale verbo. Il verbo di Provenzano, il
mafioso per eccellenza.
Dietro quella sequenza di numeri c’erano i nomi dei favoreggiatori e dei capi,
degli insospettabili di tutte le risme e dei nuovi adepti a Cosa Nostra.
L’euforia del momento per un arresto tanto importante lasciò presto il posto
alla riflessione. Perché per bloccare davvero Bernardo Provenzano e la sua
organizzazione sarebbe stato necessario individuare subito il codice che
nascondeva la sequenza dei suoi ordini, degli esecutori e dei gregari, dei
consiglieri e degli insospettabili. Gli unici indizi per riuscirci erano altri
misteri, quelli rappresentati dai pizzini già scoperti: fra il luglio 1994 e il
dicembre 1995, Luigi Ilardo, vicerappresentante della famiglia di Caltanissetta
e confidente dei carabinieri, ne aveva consegnati nove al colonnello dei
carabinieri Michele Riccio; un pizzino era stato scoperto dalla squadra mobile
di Palermo nel covo di Giovanni Brusca, a Cannatello, nell’Agrigentino, al
momento del suo arresto, il 20 maggio 1996; un altro era nel casolare di San
Giuseppe Jato dove nell’ottobre 1997 si nascondeva Giuseppe Maniscalco, anche
lui autorevole interlocutore di Provenzano, che come Brusca è oggi
collaboratore di giustizia. Nel marsupio di Antonino Giuffrè, componente della
Cupola mafiosa arrestato dai carabinieri il 16 aprile 2002 in un casolare della
provincia palermitana, c’erano cinque pizzini di Provenzano fra molti altri
scritti da diversi capi e uomini d’onore. Altri 31 biglietti erano stati
ritrovati qualche mese dopo grazie alle indicazioni di Giuffrè, ormai
collaboratore di giustizia, nascosti dentro un barattolo di vetro custodito in
un casolare fra le montagne di Vicari. Era l’archivio del capomafia Giuffrè,
un tempo insegnante di educazione tecnica, che aveva accumulato grande
esperienza all’interno dell’organizzazione: lui era il padrino a cui
Provenzano aveva affidato la più delicata delle riforme mafiose, quella di
mutare il linguaggio di Cosa Nostra e persino il nome. Perché ormai «picciotto»,
«famiglia», «capodecina», «capomandamento», «commissione provinciale»
venivano ritenuti termini antiquati e soprattutto pericolosi, considerato il
peso delle intercettazioni ambientali negli arresti degli ultimi anni. A Giuffrè
il padrino aveva anche chiesto di studiare un nuovo cifrario alfanumerico da
utilizzare per le comunicazioni riservate. Lui si era applicato, aveva fatto per
iscritto la sua proposta, ritrovata anche questa. Ma fu bocciata da Provenzano,
perché ritenuta «troppo semplice». Qualche anno dopo, da collaboratore di
giustizia, Giuffrè ha contribuito a svelare molti segreti della Cosa Nostra
voluta da Provenzano, però il capo dei capi aveva già provveduto a cambiare il
codice. Così da rendere impossibile l’individuazione dei nuovi ordini e degli
esecutori.
Ma c’era molto di più dietro il mistero. Che non era fatto solo di numeri.
Persino Giuffrè, vicinissimo al capo e ai suoi segreti, non ha saputo spiegare
il vero significato di alcune espressioni di Bernardo Provenzano. Più che
concetti, erano altre enigmatiche presenze. Sintetizzate dal padrino nei «ringraziamenti»
a «Nostro Signore Gesù Cristo». Lo ha fatto per ben due volte.
Inizialmente, erano sembrati i soliti riferimenti pseudo religiosi di cui sono
pieni i pizzini. Ma presto quei brani avevano fatto ipotizzare la vera essenza
del mistero Provenzano: le complicità inconfessabili di cui il padrino ha
goduto e i nomi di chi gli ha consentito di regnare per 43 anni di delitti,
affari e collusioni nei palazzi che decidono.
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