Penitenza
Tradizione
San Ignazio martire ai fedeli di Fila scrive che "il Signore perdona a coloro che si ravvedono, purché il loro pentimento li riconduca all'unità di Dio e alla comunione con il vescovo".
Più precise testimonianze si hanno nel secolo II: come quella di Dionigi di Corinto che, verso la metà del secolo, raccomanda di "accogliere coloro che si convertono da qualsiasi peccato o delitto o anche da uno sviamento eretico".
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Tradizione cristiana
Ci rimangono due documenti insigni: un lungo intitolato Il Pastore, e scritto da Erma, fratello del papa S. Pio I. Siamo verso il 150. Lo scritto è stato sviluppato, per rivendicare la liceità della confessione, ossia di un mezzo sacramentale di remissione dei peccati dopo il battesimo. L'annunzio è proposto con circospezione e cautela, forse per non urtare troppo rudemente la coscienza dei rigoristi bene intenzionati. Si afferma cioè l'unicità della confessione dopo il battesimo si dà la confessione, ma per una sola volta.
La stessa rivendicazione, con lo stesso limite, fa Tertulliano in un'opera intitolata appunto De poenitentia: esiste una seconda penitenza (la prima essendo il battesimo), ma una sola volta, semel. "E non basta questa volta sola? - soggiunge Tertulliano - tu ricevi quello che non avresti meritato, perché avevi perduto quello che già avevi ricevuto, è più gran cosa il ridare che il dare, come è cosa più triste l'aver perduto che il non aver ricevuto".
Eppure nel Vangelo sono scritte quelle parole sul perdono delle offese: "Quante volte dovrò perdonare - chiese Pietro a Gesù - al mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?". E Gesù gli rispose "non fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette". La generosità dell'uomo dovrà forse essere più grande di quella di Dio? Se l'uomo deve perdonare sempre, Dio non perdonerà sempre?
Con Tertulliano siamo agli inizi del secolo III, quando un'altra controversia si era accesa, non più a proposito della possibilità di essere assolti dopo il battesimo, ma a proposito della specie dei peccati da assolvere. Questa controversia fu più lunga e più tenace.
In un primo momento le obiezioni furono specialmente contro i gravi peccati carnali, in un secondo momento specialmente contro il peccato di apostasia. Nel primo momento i rigoristi deviarono in un'eresia, il montanismo, cui aderì anche Tertulliano. Essi pretendevano irremissibili i più, gravi peccati carnali. Tertulliano insorge contro il provvedimento del papa S. Callisto, che prescriveva di assolvere tali peccati da chiunque fossero con messi, anche da un presbitero. Il contenuto del decreto di papa Callisto c'è noto appunto solo attraverso le due opere polemiche di Tertulliano (De dicitia) e di Ippolito (Filosofumeni). Tale decreto ribadiva dottrina e prassi sempre tenute dalla Chiesa di Roma il potere delle chiavi riguardare o specie di peccato.
Poco più tardi la controversia penitenziale si polarizzò sull'apostasia. La persecuzione di Decio era stata la prima davvero sistematica e astuta. Decio professava di voler smantellare i cristiani e non fare martiri, egli mise in opera ogni arte per indurre i cristiani a fare atto di omaggio alla religione dello Stato e dell'atto di omaggio veniva rilasciato regolare certificato (libellus). Taluni, riuscivano a farsi rilasciare il libello senza compiere l'atto, erano i libellatici. Molti furono allora i libellatici e molti i lapsi (caduti), sicché, morto Decio, la Chiesa si trovò di fronte al loro problema, che assunse proporzioni inattese. Ammetterli al perdono, riammetterli nella Chiesa? Molti si rifiutavano, opponendo all'apostasia degli uni la resistenza, le sofferenze, il martirio degli altri. Il perdono e la riammissione dei primi non era forse un'ingiuria. Per i secondi? Anche qui i rigoristi finirono in un'eresia: l'eresia dei novaziani, che contestava alla Chiesa lo stesso potere di assolvere. A difendere dottrina e prassi romana scese in campo il vescovo di Cartagine S. Cipriano.
Dalla fine del secolo III si può considerare superato il periodo di controversie teoriche e di incertezze pratiche: ormai la dottrina e la prassi, sempre vive in Roma, diventarono la dottrina e la prassi universali: ogni peccato remissibile senza limite alcuno, purché vi siano le condizioni soggettive ed oggettive per le quali il sacramento sia valido e lecito.
L'adulterio e apostasia si potevano riconnettere con due dei tre peccati canonici, ossia esplicitamente denunciati nelle prime norme (canoni), emanate .dal concilio degli apostoli tenuto a Gerusalemme nel 54, quando fu deliberato di non sottoporre i gentili, che volevano, farsi cristiani, alle obbligazioni della legge mosaica, ma di invitarli tuttavia ad "astenersi dalle contaminazioni degli idoli, dalla fornicazione, dagli animali soffocati e dal sangue" (Atti 15, 20). Sul significato esatto di queste prescrizioni e sul loro valore giuridico ed etico discutono gli esegeti. I rigoristi di allora, piuttosto sommariamente, vi attribuirono un loro ben preciso significato e una loro ben precisa valutazione etica. Accanto all'adulterio e all'apostasia sembra che taluni sostenessero l'imperdonabilità anche dell'omicidio, quasi terzo peccato canonico. Sono certe due cose. La prima, che l'elenco dei peccati irremissibili era piuttosto variabile: lo stesso Tertulliano finisce per dire irremissibili, oltre che la fornicazione, anche gli altri due peccati canonici, e inoltre la frode e la bestemmia.
La seconda cosa è che nei riguardi di questi peccati rimasero a lungo prevenzioni rigoristiche. Ancora in taluni concili particolari del secolo IV si ribadisce di non assolvere certi peccati. Così alcuni canoni di un concilio di Elvira nel 300 negano l'assoluzione a certe forme di idolatria e di fornicazione; e altri canoni di un concilio di Arles del 314, la negano agli apostati. Ancora il concilio di Nicea dovette occuparsi della cosa e porre fine alle incertezze, asserendo in maniera perentoria e generale che non si deve negare la comunione a chiunque, in pericolo di morte, la richieda. Il che suppone che nessun peccato la Chiesa non vuole o non può assolvere, almeno nel punto di morte.
Si noti che anche i rigoristi, i quali negavano o il potere o l'opportunità di assolvere da certi peccati, non è che condannassero il peccatore alla perdizione eterna: anche se volevano che la Chiesa non l'assolvesse neppure nel punto di morte, non impegnasse cioè il suo potere neppure in quel punto estremo, protesta invano tuttavia di affidare il peccatore alla misericordia di Dio. La Chiesa intanto che rifiutava il suo officio di mediazione efficace, avrebbe offerto il suo officio di efficace impetratrice.
In Matteo si parla dell'irremissibilità della bestemmia contro lo Spirito Santo, e nella prima lettera di Giovanni si parla di peccati che conducono alla morte e di peccati che non conducono alla morte. Si tratta della distinzione di peccati mortali e veniali, secondo il nostro attuale linguaggio. Sono due passi di difficile interpretazione: in che cosa consiste la bestemmia contro lo Spirito Santo? il peccato ad mortem? che rapporto esiste fra i peccati canonici e il peccato ad mortem? Non sembra, comunque, che la morte dì cui parla Giovanni o la irremissibilità di cui parla Matteo debbano intendersi in modo da costituire un insuperabile limite al potere della Chiesa circa la remissione dei peccati.
Resta però comprensibile come agli inizi della riflessione cristiana, agli inizi del lungo cammino esegetico, questi testi dovessero pesare sulla dottrina e sulla prassi penitenziale. Così Origene il quale, pure, solitamente afferma il potere della Chiesa di rimettere ogni peccato, in un passo del De oratione parla di peccati insanabili, ossia irremissibili e dei tre peccati canonici, e del peccato che conduce alla morte. Persino Cipriano che fu uno tra i più combattivi polemisti contro l'eresia rigorista, persino Cipriano resta perplesso dinanzi al testo di Matteo, e parla della irremissibilità della bestemmia contro lo Spirito Santo.
Eppure nel Vangelo la potenza del Cristo guarisce ogni male: "e tutti quelli che lo toccavano - dice Marco erano guariti", e neppure la morte è ostacolo alla sua potenza: la figlia di Giairo appena spirata, il figlio della vedova di Naim portato al sepolcro, e persino Lazzaro nel sepolcro già disfatto e putrefatto riprendono la vita. Se questo nell'ordine della vita fisica, sarà da meno la potenza del Cristo nell'ordine della vita soprannaturale, in quell'ordine cioè in rapporto al quale propriamente il Cristo venne mandato come restauratore, come salvatore?.
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