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Crescono in fretta Uccelli spauriti Nascono con zaini
d'angoscia Non sono di quelli Crescono in fretta: Plagiati
dai telecomandi Crescono in fretta |
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I vecchi del mio paese dedicata al mio concittadino Lorenzo Rubino (centenario) |
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I bimbi del Kossovo sono angeli:
Avevano ali piccole e forti
e volavano a bassa quota sul mondo,
bastava poco per renderli felici .
Chi rubò la loro
pace ?
I bimbi di Serbia sono innocenti:
chi infangò di sangue le loro ali ?
Avevano occhi grandi e neri
e un sogno custodito
tra le pagine di un libro di racconti.
Chi negò loro la fantasia ?
I bimbi del Brasile sono forti:
chi seminò le lacrime sui loro volti ?
Avevano grandi sorrisi
su bocche sdentate di povertà.
Chi rubò loro la gioia ?
I bimbi d’Albania sono buoni:
chi barattò la loro vita
in cambio di un passaporto verso l’ignoto?
Avevano tra le mani la speranza,
di una vita senza dittatura,
che si infranse lungo
le scogliere.
Chi ha rubato il loro
pane ?
Rispondetemi, voi che siete assisi
sui capisaldi del potere.
Chi assolverà le vostre colpe ?
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Orecchino
di cristallo impolverato
Pur
restando una rosa
Difendendo
l’eletta sudditanza Restare
uniti, questo è l’imperativo!
Che nessun
petalo abbandoni anzitempo
Ma
seppure giungesse |
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LA BAMBOLA DI PANEQuella mattina mia madre mi svegliò di buon’ora. Dovevamo impastare insieme
la bambola di pane. Aveva atteso che raggiungessi
l’età della ragione affinché apprezzassi
quel dono fragrante e dorato. Dovevo assistere alla preparazione, altrimenti non avrei riconosciuto la bambola destinata a mutare di forma e di colore a causa della cottura. “Ecco!”, Disse mia madre.. pregustando una sottile soddisfazione.- “Questa mattina giocheremo a costruire una bambola di pane!”. Così facendo, staccò dalla massa lievitata, dalla quale poi avrebbe ricavato i pani, una manciata di pasta quanto una grossa arancia. Mia madre la
lavorò con maestria, muovendo le mani come due farfalle. La pasta, dapprima
ruvida ma ancora calda, divenne ben presto lucida e bianca, ed
emanava un odore particolare. Come se fosse esperta nell’arte della didattica,
commentava ogni gesto prima di compierlo, per facilitarmene la comprensione
“Ora formeremo la testa.” Disse, schiacciando la pasta e ricavandone quasi un visetto di bambola. Al posto degli occhi affondò due grossi chicchi di uva passita, quindi incise il nasino con un pizzichino e con un coltello disegnò la bocca con gli angoli rivolti all’insù, ad imitazione di un sorriso. Abbozzò anche una semplice capigliatura, intrecciando delle striscioline di pasta e attaccandole alla testa, con una lieve pressione delle dita. “Ora costruiremo il corpo.” Disse poi, - infondendomi un interesse ed una gioia che non avrei più dimenticato. Abbozzò un piccolo tronco, al quale aggiunse delle piccole braccia, che terminavano con ulteriori appendici, somiglianti a due mani di bimba. Mia madre spiegò anche
che era inutile dotarla di piedini,
perché quella bambola non avrebbe mai camminato:
essendo di pane, era destinata, prima o poi, a finire nel mio pancino. Così disse esattamente, rivelandosi abile pedagoga e
fugando l’innocente, visibile ,disappunto apparso nei miei occhi.Per molti
anni , amorevolmente, impastò per me
una bambola di pane,anche se non mi
alzai più all’alba
per vedere come le mani di una mamma compiano magie, al
pari delle fate.
Così composta e continuando a darle ulteriori e rapidi
tocchi, quasi ad infonderle anima, oltre alle fattezze umane,
la adagiò sulla lunga tavola infarinata. Giacché c’ero, decisi
di assistere alla lavorazione del pane, ed io vidi solo allora con quanta fatica, ma anche con quanta
abilità, lei formò i grossi pani, che costituivano l’approvvigionamento
familiare di una intera settimana. La mole di pasta scoppiettava sotto le mani di mia madre, la quale usava come fulcro l’interno della mano nel punto in cui si unisce al polso, affondando, a pugni chiusi, il carpo in profondità e risalendo rapidamente. Scandiva il suo lavoro con un ritmo regolare che mi
affascinava. Passava, poi, ora la mano sinistra ora la mano destra
sulla pasta, formando
lunghi cordoli di circa mezzo metro ; poi sul più bello, voilà, li
arrotolava su se stessi imprimendo loro una mirabile rotondità che, finché durò
l’innocente stagione dell’infanzia, paragonai
al guscio di una grossa lumaca. Poi li schiacciava quel tanto che bastava e con amorevole
cura adagiava i panetti sulla tavola, segnando,
su ogni pane, un segno di croce col taglio della mano.
Suggello di una sacralità ormai da tempo perduta nei riguardi di questo
prezioso alimento dell’uomo. Copriva, poi, come un figlio addormentato, i pani con una coperta, per non interrompere l’azione degli enzimi contenuti nel lievito, che avevano già operato il primo, sperato, prodigio. Di lì a poco, la solerte fornaia, avvertita per tempo, ritirava le tavole del pane da numerose altre case. Realizzando autentici capolavori di equilibrismo,
le fornaie si caricavano le pesanti tavole, accomodandole
ora su una spalla, ora sulla testa. Qualche ora dopo
restituiva alle famiglie il pane fragrante,
dietro un esiguo compenso che le bastava per vivere dignitosamente. Molte bimbe, come me, attendevano il loro dorato e
profumato panetto, con fattezze di bambola. Allora, bastava così poco
per gustare l’autentico sapore della felicità, che oggi ci si affanna a
cercare nelle cose più effimere, invano.[1]
[1] Tradizionalmente, la madre di famiglia, qualora vi fosse un bambino in casa, soleva fare per lui un pupazzo di pane detto “lu mònicu“ ovvero, “il fraticello” |
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