INFANZIA ED ALTRE ETA'

 
 

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Crescono in Fretta i Bimbi

I Vecchi del mio paese

I Bimbi sono Angeli

Il Tempo della Rosa

 La Bambola di Pane

Dedicata a Megan

 

 

 
 
 

     Crescono in Fretta i Bimbi

 

     Crescono in fretta
     i bimbi del 2OOO,
     nascono su rami precari
     e spiccano presto il volo
     per non cadere.      

     Uccelli spauriti
     spinti presto fuori dal nido
    
da colpi d'ala  di madri frettolose.      

     Nascono con zaini d'angoscia
     sulle spalle i bimbi del 2OOO,
     e recano sul volto cicatrici
     di un'infanzia segnata dalla noia.      

     Non sono di quelli
     che sentirono scorrere il latte materno
     nelle gole, stillato da un favo di carne

     
nell’intrigo di tenere  mani.      

     Crescono in fretta:
     bimbi dagli occhi svuotati d'allegria.
     Altri barattarono la loro fantasia
     con serials di cartoons televisivi.      

     Plagiati  dai telecomandi
     non conoscono la magia delle fiabe
     narrate con voce carezzevole dai nonni.     

     Crescono in fretta
     i bimbi del 2OOO,
     sazi di effimero  e affamati di carezze,
     viaggiano nel loro tempo
     con mappe di Eldorado nelle tasche
.

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 I Vecchi del mio paese

 

I vecchi del mio paese
sostano su panchine sverniciate
dipanando gomitoli di memorie
che risuonano come carte di caramelle
ripiegate nel taschino.

I vecchi del mio paese
raccontano  storie  infinite,
all’ultimo  raggio  del giorno
che ascolta con stupore  di bimbo.

I vecchi del mio paese
mutano i loro volti di pergamena
in fisarmoniche sognanti
che si accendono  ad un cenno di saluto.

I vecchi del mio paese
narrano di tesori nascosti
sotto le “chianchedell’antica piazza,
levigate da puledri in disuso.

E a sera
recitando giaculatorie sconnesse
si affidano ad uno scampolo di tempo
ormai liso come il loro bastone.

I vecchi del mio paese
come scolari li conto ad uno ad uno:
che non se ne perda nessuno
inseguendo il residuo di un sogno.
 

dedicata al mio concittadino Lorenzo Rubino (centenario)
Chianche: lastre di selce con le quali anticamente si  lastricavano le strade

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I BIMBI  SONO ANGELI

 

                       I bimbi del Kossovo sono angeli:    

                       chi spezzò le loro ali?

                       Avevano ali piccole e forti

                       e volavano a bassa quota sul  mondo,

                       bastava poco per renderli felici .

                       Chi  rubò  la loro pace ?

 

                       I bimbi di Serbia sono innocenti:

                       chi  infangò di sangue le loro ali ?

                       Avevano occhi grandi e neri

                       e un sogno custodito

                       tra le pagine di un libro di racconti.

                       Chi negò loro la fantasia ?

 

                         I bimbi del Brasile sono forti:

                         chi seminò le lacrime sui loro volti ?

                          Avevano grandi sorrisi

                          su bocche sdentate di povertà.

                          Chi  rubò loro la gioia ?

 

                            I bimbi d’Albania sono buoni:

                            chi  barattò la loro vita

                            in cambio di un passaporto verso l’ignoto?

                            Avevano tra le mani la speranza,

                            di una vita senza dittatura,

                            che si  infranse  lungo le scogliere.

 

                            Chi ha rubato  il loro  pane ?

                            Rispondetemi, voi che siete assisi

                             sui capisaldi del potere.

 

                            Chi assolverà le vostre colpe ?


 

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Il Tempo  della   Rosa

 Orecchino di cristallo impolverato
lo sguardo dei 50 anni più non riluce.
Infida e rapida l’età del mutamento

insidia la stagione della giovinezza.

 Detronizza la rosa

Che nel giardino regnò
sopra ogni altro stelo.  

Pur restando una rosa
già la foglia più esterna l’abbandona,
svenandosi di rorido humus
che la riveste di  tessuto damascato .  

 Difendendo l’eletta sudditanza
al suo interno i petali
l’uno all’altro abbracciati,
invocano alleanza di rugiada.  

Restare uniti, questo è l’imperativo!

Che nessun petalo abbandoni anzitempo
 la reggenza del calice!
Forse domani refrigerio di pioggia
Potrà farla rivivere, invidiata.  

 Ma seppure giungesse
il temuto momento di sfiorire,
sul riarso terreno ricadere,
lascerà testimonianza di Regina,
per il suo Tempo, per il suo potere.

                                                                               7 agosto  1995 

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 LA BAMBOLA DI PANE

Quella mattina mia madre mi  svegliò di buon’ora. Dovevamo impastare insieme  la  bambola di pane.

Aveva atteso che  raggiungessi  l’età della ragione affinché  apprezzassi quel dono fragrante e dorato.

Dovevo assistere alla preparazione, altrimenti non  avrei  riconosciuto la bambola destinata a mutare di forma e di colore a causa della cottura.

“Ecco!”, Disse mia madre.. pregustando una sottile soddisfazione.-

“Questa mattina giocheremo a costruire una  bambola di pane!”.

Così facendo, staccò dalla massa lievitata, dalla quale poi avrebbe ricavato i pani, una manciata di  pasta quanto una grossa arancia.

 Mia madre la lavorò con maestria, muovendo le mani come due farfalle. La pasta, dapprima ruvida ma ancora calda, divenne ben presto lucida e bianca, ed  emanava un odore particolare.

Come se fosse esperta nell’arte della didattica, commentava ogni gesto prima di compierlo, per facilitarmene la comprensione  

“Ora formeremo la testa.” Disse,  schiacciando la pasta e ricavandone quasi un visetto di bambola.  Al posto degli occhi  affondò due grossi chicchi di uva passita,  quindi incise il nasino  con un pizzichino e con un coltello disegnò la bocca con gli angoli rivolti all’insù, ad imitazione di un sorriso.

Abbozzò anche una semplice capigliatura, intrecciando delle striscioline di pasta e attaccandole  alla testa, con una lieve pressione delle dita.

“Ora costruiremo  il corpo.” Disse poi, -  infondendomi un interesse ed una gioia che non avrei più dimenticato.

Abbozzò un piccolo tronco, al quale aggiunse delle piccole braccia, che  terminavano con ulteriori appendici,  somiglianti  a due mani di bimba.

Mia madre spiegò  anche che era inutile  dotarla di piedini, perché quella bambola non avrebbe mai camminato:  essendo di pane, era destinata, prima o poi, a finire nel mio pancino.

Così disse esattamente, rivelandosi abile pedagoga e fugando l’innocente, visibile ,disappunto apparso nei miei occhi.Per molti  anni , amorevolmente, impastò per me  una bambola di pane,anche se non  mi alzai  più all’alba  per vedere come le mani di una mamma compiano magie, al  pari delle fate.

Lei, però, continuò  a lungo quel mirabile esercizio, fino a quando la panificazione del tipo industriale non si diffuse in maniera capillare anche nei piccoli centri come il mio paese, dedito all’agricoltura che era regnata incontrastata fino all’avvento del colosso d’acciaio  chiamato “Italsider”.

Così composta e continuando a darle ulteriori e rapidi tocchi, quasi ad infonderle anima, oltre alle fattezze umane,  la adagiò sulla lunga tavola  infarinata.

Giacché c’ero,  decisi di assistere alla lavorazione del pane,  ed io vidi solo allora con quanta fatica, ma anche con quanta abilità,  lei  formò i grossi pani, che costituivano l’approvvigionamento familiare di una intera settimana.

La mole di pasta scoppiettava sotto le mani di mia madre, la quale usava come fulcro l’interno della mano nel punto in cui si unisce al polso, affondando, a pugni chiusi, il carpo in profondità e risalendo rapidamente.

Scandiva il suo lavoro con un ritmo regolare che mi affascinava.

Passava, poi, ora la mano sinistra ora la mano destra sulla pasta,  formando  lunghi cordoli di circa mezzo metro ; poi sul più bello, voilà, li arrotolava su se stessi imprimendo loro una mirabile rotondità che, finché durò l’innocente stagione dell’infanzia,  paragonai al guscio di una grossa lumaca.

Poi li schiacciava quel tanto che bastava e con amorevole cura adagiava i panetti sulla tavola,  segnando, su ogni pane, un segno di croce col taglio della mano.   Suggello di una sacralità ormai da tempo perduta nei riguardi di questo prezioso alimento dell’uomo.

Copriva, poi, come  un figlio addormentato, i pani con una coperta, per non interrompere l’azione degli enzimi contenuti nel lievito, che avevano già operato  il primo, sperato, prodigio.

Di lì a poco, la solerte fornaia, avvertita per tempo,  ritirava le tavole del pane da numerose altre case.

Realizzando autentici capolavori di equilibrismo,  le fornaie si caricavano le pesanti tavole, accomodandole   ora su una spalla, ora sulla testa. Qualche ora dopo  restituiva alle famiglie il pane  fragrante, dietro un esiguo compenso che  le bastava per vivere dignitosamente.

Molte bimbe, come me, attendevano il loro dorato e  profumato panetto, con fattezze di bambola. Allora, bastava così poco per gustare l’autentico sapore della felicità, che oggi ci si affanna a cercare nelle cose più effimere, invano.[1]

 

[1] Tradizionalmente, la madre di famiglia, qualora vi fosse un bambino in casa, soleva fare per lui un pupazzo di pane detto “lu mònicu“ ovvero,   “il fraticello


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Dedicata a Megan



Megan i tuoi capelli

sono bòccoli di fate,

hanno attinto all’oro del grano

quel sapido fumento

che i tuoi occhi di cielo

non hanno avuto la gioia di vedere…

Le tue radici Megan, sono liane sotterranee

che sfidano l’inganno dello spazio

e giungono alle falde di un’isola felice.

Terra di sapori antichi e di leggende sempre verdi,

come le foglie degli agrumeti che cingono quella terra fortunata

irrorata di lacrime e sospiri.

La terra di tuo nonno, Megan

si muore di nostalgia

per non sentire i tuoi giovani passi

e le carezze dei tuoi occhi di cielo

percorrerla in ogni latitudine,

fino a raggiungere

quel lontano campanile

che i passi di tuo nonno custodisce

nello scampanio festoso

delle campane di una Pasqua lontana,

mai dimenticata,

e custodita nel santuario di un cuore d'Emigrante

che vive nell'Attesa di poter un giorno ritornare.

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