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WTO 2003

  Ultimo aggiornamento: 19-01-04

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La "svolta" di Cancùn...

1-12-03

B. Sorge Ag. Sociali

Dal 10 al 14 settembre 2003 ha avuto luogo a Cancún (Messico) la V Conferenza ministeriale della Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o, secondo la dizione inglese, WTO – World Trade Organization). La stampa ha dato il giusto risalto all’avvenimento ed è stata unanime nel definirlo un «fallimento». A nostro avviso, invece, l’insuccesso ha il significato di una «svolta» storica, se lo si giudica tenendo presenti, da un lato, la natura e le finalità dell’OMC e, dall’altro, i problemi che erano all’ordine del giorno della Conferenza.

1. La Organizzazione Mondiale del Commercio
Dalla fine della Seconda guerra mondiale fino agli anni ’70, la regolazione dell’economia mondiale è stata influenzata e diretta da due istituzioni, nate nel 1944 con finalità precise: il Fondo Monetario Internazionale (FMI), per tutelare la stabilità dei cambi e quindi promuovere il commercio, e la Banca Mondiale (BM), per finanziare la ricostruzione dell’Europa e successivamente il processo di sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo. La fondazione di questi due organismi rispondeva alla convinzione che le turbolenze economiche del periodo fra le due guerre mondiali fossero da annoverarsi tra le cause dell’avvento del nazismo in Germania e della seconda guerra mondiale: si trattava quindi di garantire un ordinato andamento dell’economia che non mettesse a repentaglio la pace mondiale. Negli anni ’80 si è prodotta, però, una svolta radicale nel quadro politico-economico generale: da un lato, in seguito al crollo del socialismo reale, il neoliberismo si è imposto a livello mondiale, trasformandosi in una sorta di «pensiero unico»; d’altro lato, caduto il Muro di Berlino, le economie dell’Est e dell’Ovest sono entrate in rapporto tra loro, costituendo un unico mercato globale. Questo processo di globalizzazione ha cambiato anche il ruolo del FMI e della BM. Queste istituzioni, in ossequio al nuovo paradigma economico neoliberale di riferimento, portato in auge, tra l’altro, anche dai successi elettorali della signora Thatcher in Gran Bretagna e del Presidente Reagan negli Stati Uniti, si sono impegnate in un’opera di progressiva riduzione dell’intervento pubblico nell’economia e di eliminazione di ogni barriera al libero funzionamento del mercato. A questa medesima concezione si ispira l’OMC, nata nel 1995 per regolare gli scambi commerciali internazionali.
Il limite genetico di queste istituzioni (FMI, BM, OMC) sta soprattutto nel fatto che le pratiche e i meccanismi decisionali che esse adottano finiscono con lasciarne la gestione in mano ai Governi dei Paesi ricchi, spesso pesantemente influenzati dalle multinazionali. Ne conseguono decisioni e «ricette» di politica economica che mortificano i Paesi poveri e non riescono a colmare il divario tra Nord e Sud del mondo. Anzi, il processo di globalizzazione, lasciato alla pura logica del mercato, non fa che allargare la forbice tra i Paesi ricchi e quelli in via di sviluppo. «Lo squilibrio planetario — rileva il Rapporto 2003 della BM — è in aumento: il reddito medio nei 20 Paesi più ricchi è 37 volte maggiore di quello dei 20 più poveri, rapporto raddoppiato rispetto al 1970» (cit. in GRUPPO ABELE - CGIL, Rapporto sui diritti globali 2003, Ediesse, Roma 2003, 661. Da questo Rapporto prendiamo anche gli altri dati tecnici, su cui fondiamo le nostre riflessioni).
L’OMC ha esteso ormai la sua «competenza» ai più importanti settori dell’attività umana: non solo alle tariffe doganali e al commercio in senso stretto (General Agreement on Tariffs and Trade - GATT), ma anche alla proprietà intellettuale (Trade Related Aspects of Intellectuality Property Rights - TRIPS), cioè alla spinosissima questione dei brevetti, ai servizi (General Agreement on Trade in Services - GATS), alle misure sanitarie e fitosanitarie (Sanitary and Phyto-Sanitary Measures - SPS). Il fatto poi che l’OMC (come il FMI e la BM) non sia un organismo dell’ONU, ma indipendente, fa sì che esso produca una propria specifica giurisprudenza nei settori in cui interviene, regolandoli secondo la fredda logica del mercato, che prescinde da considerazioni etiche e subordina il discorso sui valori e i diritti umani alla logica del profitto e del puro interesse economico.
La situazione è resa più pesante dal fatto che la direzione dell’OMC è in mano al cosiddetto «Quadrilatero» (Stati Uniti, Unione Europea, Giappone e Canada), che esercita un potere indiscusso sui 146 Paesi membri della Organizzazione, senza altra legittimazione che la supremazia economica. Era inevitabile che, aumentando il numero dei Paesi membri in via di sviluppo, il dominio dei Paesi ricchi divenisse insostenibile. In questo senso, l’ingresso della Cina nel 2000 è risultato determinante.

2. Le Conferenze di Seattle (1999) e di Doha (2001)
Per comprendere che cosa è veramente accaduto al vertice di Cancún, occorre collegarlo alle due precedenti Conferenze ministeriali: il Millennium round di Seattle (USA) nel 1999 e il round «dello sviluppo» a Doha (Qatar) nel 2001.
A Seattle si capì che la globalizzazione ormai non era più soltanto economica, ma anche di natura sociale e culturale, in seguito all’avvicinamento tra società e culture diverse, prima non comunicanti a causa delle divisioni ideologiche. Per la prima volta, gli esclusi del Terzo Mondo si sono trovati coalizzati, insieme con gruppi venuti dai Paesi ricchi, in un unico movimento di dimensioni globali, capace di far sentire la propria voce su temi quali i diritti umani, la sanità, la fame, la tutela dell’ambiente. Migliaia di organizzazioni e di associazioni di diversa natura (dai sindacati al volontariato, alle ONG, ai centri sociali, a organismi religiosi) hanno dato vita al «popolo di Seattle», portatore non solo di proteste, ma anche di proposte. Centinaia di migliaia di uomini e donne di ogni parte della Terra hanno chiesto che i Paesi poveri siano ascoltati prima che le Organizzazioni mondiali prendano decisioni di carattere universale.
Purtroppo il vandalismo di alcuni gruppi violenti, infiltrati tra le file del «popolo di Seattle», ha potuto nascondere agli occhi dell’opinione pubblica il vero senso di quelle manifestazioni popolari, espressione di una nuova consapevolezza dei Paesi poveri. L’interruzione della Conferenza di Seattle fu il primo segnale che qualcosa di veramente nuovo sta maturando nella coscienza del nostro tempo.
La Conferenza di Doha (Qatar), nel 2001, riuscì a evitare la violenta contestazione dei no-global. L’OMC poté avviare negoziati molto importanti sull’agricoltura, sulla proprietà intellettuale (compresi i brevetti sui farmaci) e sui servizi (tra cui la sanità, l’istruzione e la protezione dell’ambiente), che si sarebbero dovuti concludere entro il 2005. Si giunse ad approvare una dichiarazione d’intenti, con cui si riconosceva il diritto dei Paesi poveri di produrre farmaci a basso costo per combattere le emergenze sanitarie, dovute al diffondersi dell’AIDS, della tubercolosi, della malaria, della polmonite e della diarrea: vere e proprie epidemie, che provocano circa 11 milioni di morti ogni anno, di cui la metà sono bambini con meno di 5 anni. Purtroppo questa dichiarazione d’intenti, salutata come la riaffermazione del primato della salute sui brevetti e sui profitti, fu vanificata nel dicembre 2002 dal veto degli Stati Uniti, ricattati dalle grandi multinazionali farmaceutiche. Di conseguenza, la vita di oltre 30 milioni di persone in 120 Paesi dei 133 in via di sviluppo oggi è a rischio, perché mancano di una industria farmaceutica in grado di produrre farmaci a basso costo, né hanno la possibilità economica di importarli. Altrettanto esplosivi sono gli squilibri mondiali nel settore del commercio dei prodotti agricoli, pesantemente distorto dal protezionismo dei Paesi ricchi. In questo clima pesante si apriva a Cancún la V Conferenza dell’OMC.

3. La Conferenza ministeriale di Cancún (2003)
Tra i molti problemi all’ordine del giorno del vertice di Cancún, i più complessi apparvero subito quelli riguardanti l’acqua, gli organismi geneticamente modificati (OGM), i servizi e i sussidi all’agricoltura.
L’acqua. – Nel mondo sono circa un miliardo e 300 milioni le persone che tuttora non hanno accesso diretto all’acqua potabile. Per richiamare l’attenzione su questo gravissimo problema, l’ONU ha dichiarato il 2003 «Anno mondiale dell’acqua dolce». La maggior parte della disponibilità totale di acqua (il 70%) viene impiegata in agricoltura, il 20% è consumato dalle industrie (soprattutto per produrre energia idroelettrica o nucleare) e solo il 10% è destinato a usi civili. Il consumo di acqua per uso domestico nei Paesi sviluppati è di circa 10 volte superiore a quello dei Paesi in via di sviluppo. Tuttavia lo squilibrio appare ancor più inaccettabile, se si calcola la diversa disponibilità di acqua tra un Paese e l’altro: il consumo annuo pro capite è di 2.150 metri cubi in USA, di 1.200 metri cubi in Italia, di 45 in Nigeria. E l’Organizzazione Mondiale della Sanità denuncia che, per patologie dovute alla mancanza d’acqua potabile, ogni anno muoiono 5 milioni di persone e 250 milioni si ammalano.
Bastano questi pochi dati per comprendere quanto assurda sia l’intenzione dell’OMC e di alcuni Paesi di privatizzare la gestione delle risorse idriche, considerandola alla stregua di un qualsiasi servizio industriale da mettere sul mercato. In realtà, l’acqua è un bene essenziale alla vita, non meno del sole e dell’aria. Pertanto, l’acqua non è una merce, ma un diritto umano vero e proprio. L’acqua è patrimonio comune dell’umanità e la sua corretta gestione non può essere affidata unicamente al mercato e alla logica del profitto.
Gli organismi geneticamente modificati (OGM). – Attualmente nel mondo 5 grandi società multinazionali controllano i tre quarti dei brevetti rilasciati nell’ultimo decennio per colture agricole geneticamente modificate. La multinazionale Monsanto, da sola, produce o concede in licenza circa il 90% delle sementi modificate, utilizzate in tutto il mondo. Negli anni ’90 alcune grandi multinazionali hanno investito miliardi di dollari nella ricerca e nella produzione di OGM e oggi premono sui Governi perché non pongano limiti e divieti al loro commercio, vantando le potenzialità che gli OGM avrebbero per vincere la fame e la carestia nel mondo.
Ma le cose non stanno esattamente così. Ancora non disponiamo di conoscenze sufficientemente certe per valutare gli effetti, negativi e positivi, che gli OGM possono avere sulle persone. E ciò spiega perché perfino Paesi poveri, come la Zambia e lo Zimbabwe, attenendosi rigorosamente al «principio di precauzione», abbiano rifiutato prodotti agricoli modificati geneticamente per il timore di effetti negativi sulle proprie popolazioni, già colpite dal dilagare dell’AIDS e di altre gravi epidemie. Senza dire che sono ancora in gran parte sconosciuti gli effetti collaterali che l’immissione di organismi modificati comporta nell’ecosistema. L’impollinazione è un fenomeno incontrollabile e potrebbero ritrovarsi geneticamente modificate anche coltivazioni per le quali non si è fatto uso di quei semi, con grave danno anche per la biodiversità.
Il problema degli OGM, però, non è solo quello di prevedere e prevenire le gravi minacce incombenti sulla salute dell’uomo e sull’equilibrio ecologico, ma anche quello di impedire che si attivino meccanismi speculativi, soprattutto da parte delle multinazionali. Non si può consentire che, attraverso un brevetto, si giunga a riconoscere a pochi privilegiati il diritto di disporre delle biotecnologie, quasi che le scoperte riguardanti la vita siano soggette a proprietà privata. La complesssa materia dei brevetti va regolamentata in modo da scongiurare il pericolo che si realizzino forme nuove di monopolio e di colonialismo, più disumane di quelle del passato.
I servizi. – Qualche mese dopo la interruzione violenta della Conferenza di Seattle, poté riprendere il negoziato relativo al GATS. In pratica, con questo Accordo, l’OMC estende la sua influenza molto al di là delle transazioni commerciali relative alle merci, per giungere ad abbracciare l’istruzione, la sanità, il tempo libero, la cultura, lo sport, il turismo, ecc. È stato proposto che ogni Stato membro presenti l’elenco dei servizi che vuole liberalizzati negli altri Paesi, e di quelli che esso stesso intende, a sua volta, liberalizzare.
È evidente che un simile dispositivo, qualora venisse attuato, aprirebbe la via a molti abusi, mettendo a repentaglio le regole stabilite da ciascun Paese in materia di welfare e di diritti sociali, e fornirebbe ai Governi il pretesto per introdurre privatizzazioni selvagge a danno dei settori più deboli della società. Il GATS — nota Susan George, economista e vicepresidente di Attac France — «minaccia i servizi del settore pubblico, la sanità e i servizi sociali, l’istruzione, l’ambiente e la cultura. Sotto il regime del GATS corriamo il rischio di vivere in Paesi a due o tre velocità; per il WTO e gli interessi che rappresenta, il mondo non è nient’altro che una merce» (cfr Rapporto, cit., p. 669). In altre parole, il GATS ripropone il problema di fondo: la globalizzazione, lasciata in balìa delle sole leggi del mercato, favorisce gli interessi dei Paesi economicamente più forti a spese dei più deboli. Ecco perché non lo si può accettare.
I sussidi all’agricultura. – Tuttavia, l’insuccesso del vertice di Cancún è da attribuire soprattutto alla netta presa di posizione dei Paesi poveri contro le sovvenzioni dei Paesi ricchi alle proprie agricolture. È risaputo che gli USA, l’Europa e il Giappone insieme spendono 350 miliardi di dollari all’anno (cioè praticamente 1 miliardo al giorno!) per proteggere le loro produzioni agricole, rendendole artificialmente competitive con quelle dei Paesi in via di sviluppo. Questa cifra è 7 volte superiore all’aiuto pubblico stanziato dai Paesi ricchi per lo sviluppo del Sud. Come si può ancora tollerare che i Paesi poveri, molti dei quali fondano la loro sussistenza sull’agricoltura, siano strangolati da una simile forma di protezionismo a vantaggio di poche nazioni ricche? Che altro è se non pura ipocrisia elargire una percentuale, per di più irrisoria, del proprio PIL in aiuto ai Paesi in via di sviluppo e poi ostacolare l’esportazione dei loro prodotti, attraverso le sovvenzioni agricole e altre misure discriminatorie? Si calcola che il protezionismo dei Paesi ricchi costi a quelli poveri oltre 100 miliardi di dollari ogni anno in esportazioni perdute, cioè circa il doppio di tutti gli aiuti allo sviluppo che essi annualmente ricevono.
Era inevitabile, dunque, che a Cancún lo scontro più duro fosse proprio sull’Accordo relativo alle politiche agricole: 22 Paesi (tra cui Cina, Brasile, Filippine e Sudafrica), rifiutando il documento ufficiale dell’OMC e presentandone uno alternativo, hanno di fatto provocato lo stallo anche di tutti gli altri negoziati.

4. La «svolta» di Cancún
La lezione è chiara: i grandi Paesi in via di sviluppo oggi sono in grado di opporsi alla pretesa dei Paesi ricchi di continuare a fare i propri interessi, solo perché sono economicamente più forti. A Cancún il «fronte dei poveri» si è fatto sentire non solo in piazza, come già era accaduto a Seattle, ma il «G21», guidato da India, Cina e Brasile, si è affermato all’interno stesso della Conferenza: 100 Paesi hanno avuto il coraggio di contrapporsi alle manovre dei Paesi più ricchi, fino a bloccarle. Proprio il fatto che la contestazione sia avvenuta all’interno della Conferenza consente di parlare non di «fallimento», ma di «svolta» nella vita dell’OMC.
Certamente i Paesi poveri hanno vinto una battaglia, ma non hanno vinto la guerra. Hanno inferto un duro colpo al predominio delle grandi potenze economiche, ma ora c’è il pericolo di ritorsioni: i Paesi ricchi potrebbero abbandonare l’OMC e fare ricorso ad accordi commerciali bilaterali, anziché multilaterali. E i Paesi poveri ne farebbero ancora le spese. Infatti, sarebbe un grave errore smantellare l’OMC. Non si può lasciare il commercio internazionale in balìa delle sole leggi di mercato, senza regola alcuna. L’anarchia è un male ancora peggiore. Le regole ci vogliono: è l’intuizione che sta all’origine della fondazione delle stesse istituzioni economiche internazionali (FMI, BM, OMC).
Occorre, dunque, riformare i meccanismi decisionali dell’OMC, rendendoli veramente democratici e non solo sulla carta, come è stato finora. Al limite, perché non far rientrare l’OMC nell’ambito delle Nazioni Unite, essendo la sua attività decisiva ai fini della necessaria regolazione dei processi di globalizzazione?
In ogni caso, dopo Seattle e dopo Cancún, una cosa è chiara: occorre poter contare su organismi internazionali dotati di autorità e di strumenti efficaci, capaci di elaborare democraticamente e con l’apporto di tutti adeguate politiche economiche che abbiano presenti altresì gli aspetti sociali e culturali della globalizzazione. È l’unica prospettiva per garantire la giustizia e la pace tra i popoli, su cui tanto insiste Giovanni Paolo II: «A livello mondiale — ha detto lo scorso anno alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali —, si devono prospettare e applicare scelte collettive, attraverso un processo che favorisca la partecipazione responsabile di tutti gli uomini, chiamati a costruire insieme il loro futuro»; occorre, cioè, «regolamentare i mercati, sottoporre le leggi del mercato a quelle della solidarietà, affinché le persone e le società non siano in balìa di cambiamenti economici di ogni tipo e siano protette dalle scosse legate alla deregolamentazione dei mercati» (L’Osservatore Romano, 12 aprile 2002, n. 5).
 

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