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Ultimo aggiornamento: 15-10-03

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La riforma della Sanità

di Rosy Bindi
Deputato del Gruppo parlamentare Margherita – DL – L’Ulivo;
ex-ministro della Sanità

 

Pubblichiamo il testo della lezione tenuta dall’onorevole Rosy Bindi (Ministro della Sanità dei Governi Prodi e D’Alema I e II, nella XIII legislatura, dal 1996 al 1999) presso lo European Studies Centre dell’Università di Oxford (Inghilterra), il 25 ottobre 2002. La politica sanitaria è uno dei nodi critici in cui si gioca la giustizia sociale di una comunità nazionale e manifesta una determinata impostazione culturale e antropologica.

  Il presente contributo descrive il lavoro avviato nella Sanità dai Governi di centro-sinistra in Italia, spiegando le ragioni dell’intervento, i cambiamenti introdotti e cosa resta di quella riforma. Un rapido esame della situazione attuale concluderà la riflessione. L’analisi del passato permette, tra l’altro, di fare un interessante confronto tra la Gran Bretagna e l’Italia, nel quadro di un confronto tra le politiche sanitarie in Europa. 

 1. La riforma De Lorenzo

«Più mercato e meno Stato» è lo slogan che, nella seconda metà degli anni Ottanta, accompagna anche in Italia una radicale rivisitazione della Pubblica Amministrazione. Il Paese deve sottoporsi a una drastica «cura dimagrante» per scongiurare la bancarotta, dopo gli anni della finanza allegra e di un’economia drogata dall’espansione del debito pubblico che aveva superato il valore del Prodotto interno lordo (pil). L’ondata liberista assume però un profilo meno esplicito che nel mondo anglossassone. L’offensiva nei confronti dello Stato sociale, e più in generale di un sistema di tutele che ha plasmato le nostre società del benessere, è stata prima di tutto un’offensiva nei confronti della politica e delle sue istituzioni. Non c’è dubbio che vi fosse una verità nella semplificazione che ha portato a identificare l’«assistenzialismo» con le disfunzioni e le degenerazioni del sistema politico (dal clientelismo alla crescente invadenza dei partiti fino alla corruzione di Tangentopoli). Ma l’insofferenza, legittima, nei confronti di una pesante burocratizzazione dei modelli di assistenza sanitaria e sociale si è dilatata fino a diventare ostilità e insofferenza nei confronti dello Stato sociale, identificato come l’unico responsabile del crescente debito pubblico. 

La spinta doverosa a contenere la spesa e a correggere alcune involuzioni gestionali trova in Italia una sponda culturale e politica nella riforma della signora Thatcher, che avrebbe dovuto «modernizzare» il Servizio sanitario nazionale inglese (nhs: National Health Service) con una robusta iniezione di mercato. La riforma inglese punta alla netta separazione tra acquirenti (rappresentati dalle strutture locali amministrative) e produttori di servizi ospedalieri e territoriali, trasformati in aziende autonome. La competizione tra ospedali per assicurarsi le commesse delle autorità sanitarie locali avrebbe dovuto sviluppare progressivamente un vero e proprio mercato interno che avrebbe prodotto un aumento dell’efficienza e della qualità dell’assistenza. La suggestione di questa deregulation sanitaria valica la Manica e approda, alla fine del 1992, in Italia attraverso il Decreto legislativo n. 502 (la cosiddetta «riforma De Lorenzo», dal nome dell’allora Ministro della Sanità), che avvia la controriforma della legge n. 833, che nel 1978 aveva istituito il Servizio sanitario nazionale (ssn). Le analogie tra il modello anglossassone e il Decreto legislativo n. 502 sono molto forti e possono essere ricondotte alla scelta di fondo di separare le funzioni di finanziamento e di programmazione da quelle di gestione e di organizzazione dei servizi. 

La regionalizzazione della spesa, la creazione di Aziende sanitarie locali (asl) in competizione tra loro e con le strutture private accreditate, l’introdu-zione del sistema di rimborso a tariffa (drg, cfr box nella pagina successiva) — per citare solo gli elementi più innovativi che hanno avuto un forte impatto sull’organizzazione originaria del ssn — sono inseriti in un contesto politico e legislativo contraddittorio, volutamente ambiguo, soprattutto per quel che riguarda i rapporti tra pubblico e privato, e in un quadro di drastica contrazione delle risorse pubbliche per la salute.

Riguardo alle risorse si stabilisce infatti un percorso di questo tipo: prima si definisce l’ammontare del Fondo sanitario nazionale e poi, in relazione ai fondi disponibili, si individuano i livelli di assistenza a carico del ssn. La controriforma De Lorenzo segna, così, il passaggio da un diritto alla tutela della salute costituzionalmente garantito a un diritto finanziariamente condizionato. Nella legge n. 833 del 1978, istitutiva del ssn, i bisogni rappresentavano la variabile indipendente e la spesa era concepita come variabile dipendente (determinata cioè dal grado di soddisfacimento di quei bisogni). A partire dalla riforma del 1992 la spesa diventa, invece, una variabile indipendente (stabilita annualmente dal Governo in funzione delle compatibilità economiche e finanziarie del Paese), mentre i bisogni di salute rappresentano una variabile dipendente. Alle nuove asl viene affidato il compito di garantire anzitutto il pareggio del bilancio, a prescindere dai risultati di salute degli assistiti. Il metodo delle risorse definite ex ante produce una inevitabile e costante riduzione dei fondi a disposizione e il finanziamento pubblico risulta decisamente sottostimato rispetto al fabbisogno.

Per quanto riguarda il rapporto tra pubblico e privato, la competizione è affidata a un modello di accreditamento delle strutture private debole, svincolato dalla programmazione, ancorato ai soli criteri quantitativi; sul versante pubblico, essa fa perno sulla separazione degli ospedali dalle aziende territoriali e sulla loro trasformazione in aziende ospedaliere autonome, le cui prestazioni sono pagate secondo tariffe prestabilite (drg). È il primo passo verso la separazione tra la funzione di programmazione e di tutela della salute e la funzione di erogazione delle prestazioni. Il modello di accreditamento si limita a registrare la situazione di fatto, senza avere la forza di governare gli interessi in campo e garantire le compatibilità economico-finanziarie del sistema e la libertà di scelta del cittadino. Del resto la libertà di scelta è presentata come il biglietto da visita di un sistema in cui, secondo il motto della signora Thatcher, «il denaro avrebbe seguito il paziente». 

La concorrenza tra aziende pubbliche e strutture private accreditate è fittizia: chi finanzia, ovvero rimborsa la struttura pubblica e quella privata accreditata, è sempre e solo il Servizio sanitario nazionale. È un mercato in cui non esiste il rischio d’impresa e che continua a essere, nei fatti, un mercato assistito. È stato calcolato che nel 1996, complessivamente 175 presidi ospedalieri (compresi gli Istituti di cura a carattere scientifico, pubblici e privati, policlinici universitari e ospedali classificati), pari al 17,2% del totale e al 39,3% dei posti letto, erano in condizioni di autonomia giuridica rispetto alle asl. Se si aggiungono le strutture private accreditate, le dimensioni del mercato interno, ovvero l’insieme delle strutture interessate ai meccanismi di acquisto delle prestazioni finanziate dal ssn, ammontavano complessivamente al 35,4% delle strutture e a quasi il 60% dei posti letto. Rispetto ad altri settori, come la prevenzione, la riabilitazione o la salute mentale, questa tipologia di servizi prevalentemente ospedaliera risulta di gran lunga più forte e potente, in grado di drenare la quota maggioritaria di risorse e di condizionare il profilo e la qualità dei servizi complessivamente erogati. Anziché stimolare l’efficienza produttiva,  la «concorrenza» tra pubblico e privato si trasforma in una corsa alla produzione e al consumo delle prestazioni più remunerative: in un primo tempo da parte dei privati, ma poi anche del settore pubblico, come si è visto in Lombardia. Inoltre, l’organizzazione dei servizi privilegia le strutture ospedaliere piuttosto che la prevenzione, la medicina di base, la riabilitazione, e più in generale tutti i servizi territoriali (salute mentale, cura tossicodipendenze, consultori familiari, assistenza a persone portatrici di handicap, ecc.). Anche sul versante della spesa gli esiti della controriforma sono tutt’altro che «virtuosi» e, insieme al drastico sottofinanziamento della Sanità, comportano un aumento considerevole dei deficit delle Regioni: alla fine del 1997 i disavanzi non coperti ammontavano a circa 13 miliardi di euro (26.000 miliardi di lire). 

Anche la regionalizzazione del sistema procede in modo del tutto insoddisfacente, pur essendo la Sanità il terreno più avanzato di autonomia organizzativa e gestionale. Il finanziamento è ancora centralizzato, con una ripartizione del Fondo sanitario nazionale attraverso una quota capitaria, per così dire, «secca», che non tiene conto delle grandi differenze regionali nella distribuzione degli anziani e nelle condizioni sociali ed epidemiologiche. La maggiore autonomia locale produce conflittualità a tutti i livelli: tra Regioni e Comuni, perché i sindaci non hanno alcuna voce in capitolo sulle scelte regionali; tra Governo centrale e Governi regionali, impegnati soprattutto in una estenuante contrattazione delle risorse sempre più scarse. Le Regioni procedono in ordine sparso e il Ministero non ha né strumenti efficaci di verifica e controllo sullo stato di attuazione del processo di riordino, né poteri per sanzionare i ritardi e le omissioni. Ad esempio, dal 1988, anno in cui si finanzia la legge per il programma straordinario di riqualificazione delle strutture, al 1996, la maggioranza delle Regioni ha utilizzato poco o male i fondi per l’edilizia sanitaria e il Ministero non aveva strumenti per sanzionare i ritardi. Si accentuano il divario tra Nord e Sud del Paese e le disuguaglianze nelle opportunità di cura. 

In pochi anni dunque si impone l’esigenza di correggere le ambiguità e le contraddizioni di un modello di aziendalizzazione e regionalizzazione che aveva finito per aggravare il debito senza migliorare la qualità. Tra il 1992 e il 1995 la spesa sanitaria pubblica passa dal 6,5% del pil al 5,3% del pil, pari a una riduzione del 18,3%, mentre la spesa privata cresce del 22,9% (dati ocse 2001). 

La Sanità italiana si trova davanti a un bivio: abbandonare il sistema u-niversalistico, sostituendolo con forme assicurative private più o meno estese, o rafforzare il ssn e gli strumenti di governo del sistema.

 2. La politica sanitaria dell’Ulivo

Dopo la stagione dei Governi tecnici, caratterizzata dagli obiettivi di stabilizzazione macroeconomica e dalla transizione politica verso un sistema maggioritario (con l’intermezzo breve ma non irrilevante del primo Governo Berlusconi), la Sanità torna, nel maggio del 1996, nelle mani di un Governo politico. È il segnale della volontà di rafforzare il ssn e di riappropriarsi di un settore che aveva scontato una troppo lunga disattenzione. Si arriva a questa svolta dopo uno scontro tra Polo di centro-destra e Ulivo di centrosinistra giocato essenzialmente sulle politiche sociali e sulla contrapposizione di due concezioni alternative di Stato sociale

La ricetta di Berlusconi nella campagna elettorale del 1996 è sostanzialmente identica al programma del 1994: massiccia riduzione della pressione fiscale e corrispondente contrazione della spesa sociale. Lo slogan «meno tasse meno spesa sociale» è reso più appetibile dall’illusione della «libera scelta» veicolata dal «buono salute» e dal «buono scuola». Allo Stato sociale è affidato un compito residuale, tutelare i più poveri e gli emarginati, mentre ai ceti medi si prospetta la libertà di organizzare in proprio forme di tutela alternative, commisurate al reddito dei singoli. È implicita una idea di Sanità come settore improduttivo, come spesa insostenibile per la comunità, di cui il sistema pubblico si deve progressivamente liberare, incentivando il ricorso alle assicurazioni private. 

Il programma dell’Ulivo valorizza, invece, la riforma del Welfare che Prodi definisce «la più grande conquista del XX secolo». Il centro-sinistra si candida a governare un processo di grandi riforme sociali, dalla Sanità alla scuola, al lavoro, con l’obiettivo di riqualificare e rilanciare un settore chiave dello sviluppo e della crescita sociale e civile del Paese. Modernizzare il sistema non equivale a destrutturare, semmai a tradurre nella nuova realtà socioeconomica di fine secolo i  principi di giustizia e uguaglianza che sorreggono i sistemi di solidarietà sociale. 

L’Ulivo vuole rispondere positivamente a questa sfida: è possibile coniugare, da una parte, l’equità (per cui tutti contribuiscono alla spesa sanitaria secondo le proprie possibilità economiche e non in ragione del proprio stato di salute), l’universalità (chiunque può utilizzare il ssn senza essere discriminato in base al reddito, l’età, la condizione culturale e sociale), la globalità del ssn (la copertura di prestazioni che vanno dalla prevenzione alla riabilitazione) e, dall’altra parte, la produttività e l’efficienza dei sistemi di mercato? La riforma sanitaria compie una scelta trasparente e univoca a favore di un sistema universalistico e ne modella una nuova organizzazione in modo da rendere effettivi i valori a cui si ispira. 

Anziché tentare correzioni di questo o quell’aspetto del Decreto legislativo n. 502, si è preferito ridisegnare puntualmente l’intero impianto legislativo per restituire la coerenza tra i principi del ssn e gli strumenti che ne rendono possibile l’attuazione. Da qui un complesso lavoro di riscrittura affrontato con il metodo del confronto e della verifica tra tutti i soggetti interessati: Parlamento, Regioni, Enti locali, Sindacati, Associazioni di categoria.

Il Governo riceve dal Parlamento un mandato preciso: riformare l’organizzazione dell’assistenza sanitaria, ma non il suo finanziamento, che resta saldamente ancorato alla fiscalità generale. Si tratta di una indicazione precisa della volontà politica di consolidare il ssn e di non rinunciare all’esercizio della responsabilità pubblica nei confronti della salute. Le modalità di finanziamento del ssn sono state successivamente definite nell’ambito della riforma Visco, riguardante il cosiddetto federalismo fiscale, che riconosce piena autonomia finanziaria alle Regioni pur mantenendo salda una cornice di parità e uniformità, attraverso un Fondo nazionale perequativo. La definizione del fabbisogno complessivo e la verifica della sua compatibilità con la finanza pubblica avvengono con il Documento di programmazione economico-finanziaria (dpef). 

La riforma opera così una prima forte discontinuità con l’impianto del Decreto De Lorenzo. Si prevede infatti la «contestualità» fra l’identificazione dei Livelli essenziali di assistenza (lea), i servizi e le prestazioni che le Regioni devono garantire in modo uniforme con risorse pubbliche, e la determinazione del fabbisogno finanziario nel rispetto delle compatibilità definite a livello nazionale. Viene meno il metodo centralistico di fissare le risorse prima di aver individuato il «fabbisogno di salute», e al suo posto acquista un ruolo centrale la programmazione, nazionale e regionale. Solo attraverso la programmazione è infatti possibile l’incontro virtuoso tra domanda e offerta. La legge di riforma interviene dunque sul profilo interno del sistema, e tocca sia il livello delle responsabilità istituzionali sia quello organizzativo.

 

a) Responsabilità istituzionali

Sul piano istituzionale, si completa il processo di regionalizzazione av-viato in modo confuso nel 1992. In armonia con l’evoluzione federalista dello Stato, il ssn è definito come il sistema delle funzioni e dei servizi propri dei Servizi sanitari regionali. L’elemento unificante, grazie al quale il Servizio sanitario mantiene il suo carattere «nazionale» è rappresentato dai Livelli essenziali e uniformi di assistenza. «Essenziali» e non «minimi» perché rispondono in modo uniforme e appropriato, ovvero clinicamente efficace ed economicamente conveniente, alle necessità assistenziali dei pazienti. Sono individuati nel Piano sanitario nazionale, lo strumento della programmazione sanitaria. Il processo di programmazione sanitaria introdotta dalla riforma è circolare: da un lato le Regioni concorrono alla definizione del Piano nazionale e dall’altro il Ministero della Sanità verifica che i singoli Piani regionali siano compatibili con esso. 

I poteri delle Regioni sono bilanciati da nuove responsabilità degli Enti locali, chiamati a partecipare a tutti i livelli della programmazione. Il ruolo di primo piano assegnato ai sindaci, coinvolti sia nel momento della programmazione sia in quello della verifica sui risultati conseguiti dalle asl, rappresenta  la garanzia di un più stretto rapporto tra il ssn e il cittadino, e il primo fondamentale livello di partecipazione degli utenti al governo della Sanità. Il federalismo disegnato dalla riforma valorizza il sistema delle autonomie senza spezzare l’unitarietà del sistema. È un federalismo cooperativo e solidale che si fa carico dell’interesse generale. Non a caso, al Ministero sono affidati compiti di indirizzo, verifica e monitoraggio, e di garanzia che i Livelli essenziali di assistenza siano effettivamente erogati a tutti i cittadini con la stessa qualità.

 

b) Livello organizzativo

La riforma precisa il ruolo delle asl, definisce i rapporti tra pubblico e privato, valorizza l’assistenza primaria e territoriale con la creazione dei Distretti; inoltre, regola il rapporto di lavoro dei professionisti e rivendica il protagonismo della Sanità pubblica nel campo della ricerca e della formazione. 

Siamo convinti che per garantire Livelli essenziali e uniformi di assistenza adeguati alle necessità della popolazione, il ssn deve svolgere sia la funzione di programmazione dell’assistenza, dove domina il principio di equità, sia la funzione di produzione dei servizi, dove domina il principio di efficienza. Questo non significa che la combinazione ottimale di equità e di efficienza, obiettivi di qualunque servizio pubblico, sia meglio raggiungibile attribuendo queste funzioni a soggetti diversi (i «compratori» e i «produttori» della assistenza). In questo caso sarebbe stato necessario separare dalle asl tutte le funzioni assistenziali specialistiche, ambulatoriali e ospedaliere per trasferirle a strutture autonome in competizione fra di loro e con i loro «pagatori», le asl, come si era cominciato a fare a partire dal 1992, in particolare nella Regione Lombardia governata dal centro-destra. Noi crediamo che queste funzioni, benché doverosamente distinte, non possano essere del tutto separate. 

La nostra scelta è stata infatti quella di non affidarci a meccanismi di mercato né per il finanziamento, né per la produzione dei servizi sanitari. La separazione netta delle due funzioni, infatti, determina uno squilibrio ai danni dei cittadini e dei malati: affidarsi al mercato per il finanziamento metterebbe in discussione il principio dell’uguaglianza di fronte al diritto alla tutela della salute, innescando un processo di progressiva differenziazione nell’accesso ai servizi; ma affidarsi esclusivamente al mercato nell’erogazione dei servizi finirebbe per mettere in discussione il ruolo del ssn, in quanto garante che le prestazioni erogate rispondono effettivamente ai bisogni della popolazione, ai criteri di appropriatezza e di efficacia, e non alla logica del profitto d’impresa.  

La riforma fa proprio il principio della aziendalizzazione, ma rafforza le finalità pubbliche di questo particolare tipo di azienda, orientandole decisamente alla tutela e promozione della salute. E soprattutto individua nell’accreditamento un nuovo strumento di raccordo tra le due funzioni di programmazione e di produzione, per disinnescare così gli effetti perversi della concorrenza 

Enti strumentali delle Regioni, le asl hanno personalità giuridica di di-ritto pubblico, propria autonomia imprenditoriale e, per gli aspetti organizzativi, sono sottoposte a una disciplina di diritto privato. Questa scelta pone fine alla contrapposizione fra responsabilità regionale e autonomia aziendale, chiarisce i reciproci ruoli e spinge fino al massimo possibile il processo di «privatizzazione» delle condizioni operative delle Aziende. Gli ospedali possono costituirsi in aziende autonome solo in casi limitati, quando rispondono alle caratteristiche (quantitative e qualitative) di presidi di rilievo interregionale o nazionale. 

L’integrazione ospedale-territorio è infatti un aspetto essenziale e qualificante della nostra riforma. Il nuovo ssn vuole «prendersi cura» delle persone e non solo «curare» la malattia: per questo si attrezza con una rete di servizi distrettuali e ospedalieri in comunicazione tra loro. Il Distretto garantisce la continuità assistenziale ed è il cuore dell’integrazione tra i servizi sociali e i servizi  sanitari. L’assistenza ai soggetti deboli, dai bambini agli anziani, dai portatori di handicap ai tossicodipendenti, ai malati di aids, non è un intervento sporadico e casuale, ma diventa una strategia di presa in carico globale della persona malata.

La logica dell’integrazione sostituisce quella della concorrenza nel rapporto tra pubblico e privato. Contrariamente a quanto sostenuto dall’opposizione di destra, la riforma non ha affatto un’impronta statalista. Sarebbe stato difficile, in un Paese in cui la Sanità privata, formata sia dal privato profit che da un privato non-profit, assorbe circa il 30% della spesa sanitaria pubblica. Il nostro approccio è stato quello di definire, con il processo di accreditamento, regole chiare e trasparenti valide per tutti. Le strutture pubbliche e quelle private sono messe sullo stesso piano e competono tra loro non per produrre maggiori prestazioni, spesso anche inutili, ma più qualità. 

Il processo di selezione degli erogatori che possono agire per conto del ssn prevede quattro tappe: autorizzazione della costruzione; autorizzazione del funzionamento; accreditamenti; accordi contrattuali. I soggetti accreditati dalla Regione formano una lista di potenziali fornitori entro la quale la Regione e le asl scelgono, attraverso valutazioni comparative dei costi e della qualità dell’assistenza offerta da ciascuno, gli erogatori effettivi delle prestazioni. Con l’accreditamento la struttura pubblica deve liberarsi di alcune certezze sull’automatismo del finanziamento e deve imparare a gestire l’azienda secondo criteri di appropriatezza ed efficacia; il privato, d’altra parte, non può più lucrare sulle inefficienze del pubblico. Tutti i soggetti, non importa se pubblici o privati, concorrono, nella certezza delle risorse e delle regole, a una finalità comunque pubblica, quella di tutelare un bene inalienabile quale la salute. Come si vede, l’accreditamento non è concepito come un semplice strumento di presa d’atto della realtà, ma come strumento di programmazione, che punta a incentivare e a premiare una competizione per la qualità e l’appropriatezza delle prestazioni, impostando nuovi e trasparenti rapporti tra pubblico, privato e ssn, che in questo contesto svolge una funzione di garanzia e di controllo. 

Un’ultima significativa innovazione riguarda il rapporto di lavoro dei medici. Su questo versante, la riforma opera il più radicale cambiamento degli ultimi vent’anni. Le risorse umane rappresentano un fattore chiave per la credibilità del sistema, per questo la riforma investe e valorizza i medici offrendo loro più responsabilità e più autonomia. Si introduce il principio del rapporto esclusivo per tutti i nuovi assunti. Ai medici in servizio si è chiesto di scegliere: o il lavoro a tempo pieno nella struttura pubblica, nella quale potranno svolgere anche l’attività privata regolata e trasparente; o l’attività privata nel proprio studio, con la rinuncia ad avere un ruolo di comando nell’ospedale pubblico. A chi sceglie il rapporto esclusivo, il ssn garantisce un adeguato trattamento economico (il nuovo contratto prevede una consistente indennità), la formazione permanente e l’aggiornamento continuo, la partecipazione al governo clinico dell’Azienda. La riforma rovescia la logica dello «scambio implicito» tra medici e Stato, che aveva condizionato in modo pesante la vita degli ospedali italiani. I medici avevano accettato stipendi poco gratificanti in cambio della libertà di esercitare la professione, nel proprio studio o nella clinica, in concorrenza con la struttura di cui erano dirigenti. La riforma chiede invece ai nostri medici di legarsi di più e in modo trasparente alla struttura pubblica, in cambio di concrete opportunità di valorizzare la propria autonomia e il proprio ruolo. Al momento della scelta (autunno 1999) l’85% dei medici ospedalieri e universitari sceglierà il rapporto esclusivo. 

 

c) Atti di governo

Il nostro obiettivo è stato quello di superare l’autoreferenzialità e il corporativismo del sistema sanitario e mettere al centro il cittadino, l’ammalato, i diritti della persona. Per farlo abbiamo accompagnato il progetto di riforma con atti di governo che ne hanno preparato e sorretto l’approvazione parlamentare. Mi riferisco innanzitutto alla battaglia per garantire un finanziamento adeguato al fabbisogno. Tra il 1996 e il 2001 la spesa sanitaria pubblica è cresciuta del 9,4%, passando dal 5,3 % al 5,9% del pil, mentre quella privata è cresciuta solo del 3% (dati ocse 2001). È stato aumentato il Fondo sanitario nazionale di circa 30.000 miliardi di lire; sono state aumentate le risorse per la ricerca sanitaria (con 950 miliardi di lire in più); sono stati accelerati gli investimenti nell’edilizia sanitaria (con 12.500 miliardi in più); sono stati finanziati programmi speciali per la riqualificazione della Sanità nei grandi centri urbani (con 1.500 miliardi in più) e per l’assistenza ai malati terminali (con 130 miliardi in più).

La Sanità italiana ha registrato una considerevole disponibilità di risorse che ha permesso di avviare importanti processi di razionalizzazione e di rinnovamento: riorganizzazione della rete ospedaliera, integrazione socio-sanitaria, nascita di una rete nazionale per i trapianti, potenziamento dell’assistenza ai soggetti deboli.

È doveroso registrare che la riforma sanitaria non è stata attuata, se non in modo parziale e solo in alcune Regioni. L’ultimo anno di governo del centro-sinistra ha infatti, per così dire, ibernato il Decreto legislativo n. 229/99. Lo stallo ha prodotto conseguenze rilevanti, prima di tutto sotto il profilo finanziario, esplose nell’estate del 2001, pochi mesi dopo l’avvento del Governo Berlusconi.

 3. La politica sanitaria del Governo Berlusconi

La politica sanitaria del centro-destra è caratterizzata, sul piano organizzativo, dalla parola d’ordine, coniata dal Ministro dell’Economia Tremonti, «debindizzare la Sanità» e, sul piano finanziario, dal mancato rispetto degli impegni assunti.

Il disegno del Governo, reso esplicito nel Documento di programmazione economico-finanziaria per il 2003, con la previsione di introdurre assicurazioni private per l’assistenza ai non autosufficienti, è quello di una progressiva rinuncia a esercitare la responsabilità pubblica nei confronti del diritto alla tutela della salute con la progressiva fuoriuscita dal sistema universalistico. Il progetto delle assicurazioni private ha subito un primo forte arresto, e nella Legge Finanziaria 2003 non ne è rimasta traccia. Ma, come vedremo più avanti, i presupposti per inserire segmenti di finanziamento privato della Sanità, via via più ampi, sono rilevanti e destano preoccupazione tra gli operatori e i cittadini. 

La destrutturazione del sistema passa per una vistosa marcia indietro sui finanziamenti pubblici e il Disegno di legge sulla devolution. Un primo segnale della riluttanza del Governo a investire risorse nella Sanità si è avuto nel corso del 2002 con la mancata attuazione dell’accordo siglato tra Governo e Regioni nell’agosto del 2001 per i tre anni successivi. Il patto sottoscritto fra lo Stato e le Regioni stabilisce che il «finanziamento» del ssn, espresso in proporzione del pil, dovrebbe tendere a raggiungere entro un ragionevole periodo di tempo il valore del 6%. Ma, ancor prima della verifica prevista, il Tesoro non ha tenuto fede agli impegni, ritardando l’erogazione dei fondi e in alcuni casi riducendone l’importo. 

La finanza regionale presenta un quadro molto diversificato. Alcune Regioni, non a caso quelle governate dal centro-sinistra, pur con qualche sofferenza, presentano i conti sostanzialmente in ordine. Altre, tutte governate dal centro-destra, registrano deficit pesanti, in alcuni casi, come il Lazio, clamorosi. All’origine di questi squilibri finanziari, che provocano pesanti ricadute sulla qualità e i livelli di assistenza (nel corso dell’anno in quasi tutte le Regioni governate dal Polo vengono introdotti i ticket sui farmaci aboliti dall’ultima Finanziaria dell’Ulivo, aumentate le tasse locali, ridotte le prestazioni sociosanitarie), c’è l’ostinazione con cui la destra italiana ha perseguito e incoraggiato un modello funzionale agli interessi economici della Sanità privata, in cui la programmazione e il governo dell’offerta e della domanda sono del tutto assenti. Un modello contrapposto alla riforma dell’Ulivo e che oggi, adottato da altre Regioni, rischia di mettere in crisi la sostenibilità finanziaria del sistema. 

Del resto, la Finanziaria 2003 stringe il cappio intorno al collo degli Enti locali, con un taglio dei trasferimenti a Comuni e Regioni di circa 6.000 miliardi e subordina l’erogazione di altri 42.000 miliardi nei prossimi tre anni a una verifica così macchinosa che le Regioni in regola potranno incassare i fondi previsti per il 2001 solo nella primavera del 2004. La drastica riduzione del finanziamento del Fondo sanitario nazionale prevista con il decreto-taglia spesa che impone a fine anno di ridurre le spese del 15%, spese in realtà già sostenute dalle Regioni, rappresenta il segnale più espliciti della volontà del Governo di impoverire il sistema di solidarietà pubblica e di percorrere strade alternative.

L’attuale Ministro della Salute continua a ripetere che non ci sono risorse e che, non potendo aumentare le tasse, bisogna trovare nuove forme di finanziamento, inevitabilmente aperte al mercato privato. Va in questa direzione la proposta di privatizzare gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, i gioielli della Sanità e della ricerca pubblica italiana, che saranno trasformati in Fondazioni di diritto privato. Nella stessa linea si muove il disegno — per ora bloccato dalla ferma contrarietà delle Regioni, dei sindacati dei medici e dell’opposizione parlamentare — di abolire il rapporto esclusivo per i medici, che tornerebbero a fare la professione privata senza vincoli e senza penalizzazioni di carriera.

La deregulation economica e organizzativa ha il suo corrispettivo istituzionale nella devolution. Il disegno di legge di riforma costituzionale del Governo, perseguito con tenacia dalla Lega Nord, prevede una esclusiva competenza organizzativa e di sistema delle Regioni, lascia del tutto indeterminato il problema del finanziamento e mette in discussione il vincolo nazionale dei Livelli essenziali e uniformi di assistenza. Si cancella anche formalmente il principio dell’uguaglianza nel diritto alla tutela della salute e si persegue un federalismo d’abbandono, in cui le Regioni economicamente più forti hanno la meglio su quelle più deboli.

 Devolution, ridimensionamento del finanziamento pubblico, ingresso del mercato nella gestione dei servizi, marginalizzazione dei professionisti: è intorno a questi fattori che sta prendendo corpo lo smantellamento del ssn. Una prospettiva che non ci piace e che il centrosinistra sta contrastando con energia. La politica sanitaria, infatti, non è terreno di un confronto bipartisan ma questione decisiva sulla quale misurare il carattere alternativo delle discriminanti culturali e politiche tra il centro-destra e il centro-sinistra.

 

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Ultimo aggiornamento: 06-09-03