Europa e Radici Cristiane
Il dibattito aperto sulle "radici cristiane"
dell'Europa, più volte richiamato all'attualità dal Santo Padre, sembra un
tema su cui la destra italiana si sia fortemente impegnata. E' davvero
così? Cosa intende Giovanni Paolo II e la Chiesa, quando richiama i
cattolici al riconoscimento esplicito di queste "radici"? Questo testo,
approfondisce il tema e ci porta a riflettere e discernere meglio quali
siano i valori che meglio rappresentano il sentire cristiano.
LE «RADICI CRISTIANE» DELL’EUROPA
Bartolomeo Sorge S.I.
Da una cinquantina d’anni l’Europa comunitaria è
un cantiere aperto. Tanto cammino si è fatto da quando, nel 1951, i sei
Stati fondatori (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi
Bassi) con il trattato di Parigi istituirono la Comunità Europea del
Carbone e dell’Acciaio (CECA), e da quando, nel 1957, i trattati di Roma
diedero vita alla Comunità Economica Europea (CEE) e alla Comunità Europea
per l’Energia Atomica (EURATOM). Più vicini a noi, l’Atto Unico Europeo
(1986), il trattato di Maastricht sull’Unione Europea (1992) e il trattato
di Amsterdam (1997) hanno contribuito a creare tra gli Stati membri (che
nel frattempo sono divenuti quindici) vincoli così saldi da rendere
possibile un traguardo che a molti sembrava irrealizzabile: l’unione
monetaria (1999) e l’adozione dell’euro come moneta unica (2002).
Nello stesso tempo, importanti passi avanti sono stati fatti pure verso
l’unità sociale e politica del Continente. Tuttavia non si può negare che
l’Unione Europea sia nata e si sia sviluppata soprattutto come comunità
economica.
È stato un bene o un male iniziare
l’unificazione a partire dall’economia? Se lo chiedeva Jean Monnet, che
dell’unità economica fu il principale architetto.
Pochi giorni prima di morire, confessava: «Se
l’Europa fosse da rifare, comincerei dalla cultura»; infatti, commenta lo
storico F. P. Braudel, «noi non coalizziamo gli Stati, noi uniamo gli
uomini»; si tratta cioè di unire tra di loro non tanto i Governi, quanto i
popoli: non l’Italia, la Francia e la Germania…, ma gli italiani, i
francesi e i tedeschi (cfr M. A. MACCIOCCHI, Di là dalle porte di bronzo,
Mondatori, Milano 1987, 206). Insomma, l’euro è certamente un traguardo
significativo e importante, ma non basta. L’Europa è molto di più della
sua economia. È soprattutto una idea, una cultura, uno spirito.
Ne siamo più consapevoli ora che altri tredici
Paesi chiedono di far parte dell’Unione: nel 2004 ne entreranno dieci
(Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca,
Slovacchia, Slovenia, Ungheria), due nel 2007 (Bulgaria, Romania), mentre
i negoziati con la Turchia ancora non sono iniziati.
Come mettere insieme tante vedute e tanti
interessi diversi? Come ottenere il consenso di venticinque o ventotto
Paesi su un progetto comune, sulle priorità e sugli strumenti per
attuarle?
È necessario costruire insieme un grande
soggetto politico, che abbia forza e autorità di prendere democraticamente
decisioni vincolanti per tutti, nel rispetto della identità degli Stati
membri. Ma come avventurarsi in una simile impresa, senza un patrimonio
culturale comune, senza essere d’accordo su quali valori fondare la
convivenza tra i popoli del Continente?
In vista di questo traguardo politico, il 7
dicembre 2000 è stata varata a Nizza la Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea. «I popoli europei — si legge nel Preambolo —, nel
creare tra loro un’unione sempre più stretta, hanno deciso di condividere
un futuro di pace fondato su valori comuni.
Consapevole del suo patrimonio spirituale e
morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità
umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l’Unione si basa sui
principi di democrazia e dello Stato di diritto. Essa pone la persona al
centro della sua azione».
La Carta dei diritti fondamentali si può
considerare, quindi, un passo decisivo verso l’unità politica del
Continente, da consolidare con il varo della Costituzione europea, a cui
dal febbraio 2002 lavora una «Convenzione» ad hoc, che dovrà terminare i
lavori entro il 2003.
1. Il dibattito sulle «radici cristiane»
Il 6 febbraio 2003 a Bruxelles il presidente della «Convenzione», V.
Giscard d’Estaing, ha presentato all’assemblea plenaria la bozza dei primi
16 articoli della Costituzione.
Essi definiscono la natura dell’Unione, i suoi obiettivi e le sue
competenze, nonché i diritti fondamentali dei cittadini europei.
Ovviamente si tratta solo di una bozza, che dovrà essere discussa ed
emendata, prima di venire approvata. Si spiega dunque perché la sua
presentazione abbia aperto un ampio dibattito.
In particolare, non poteva passare inosservata l’assenza di qualsiasi
riferimento alle «radici cristiane» dell’Europa. Infatti, parlando
dell’ispirazione ideale dell’Unione, la bozza si limita a dire: «L’Unione
si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, di libertà, di
democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti dell’uomo,
valori che sono comuni agli Stati membri. Essa mira a essere una società
pacifica che pratica la tolleranza, la giustizia, la solidarietà»
(art. 2). Come si vede, è caduto perfino il generico richiamo al
«patrimonio spirituale e morale», che si trova invece nel Preambolo della
Carta dei diritti fondamentali. Su questo punto è divampato il dibattito.
Si sono subito delineati due schieramenti: da un parte, coloro che —
condividendo l’impostazione della bozza — vorrebbero fondare l’Unione sui
«valori laici» in essa enunciati, senza alcun riferimento alla
religione, quale fattore che concorre a fondare quei valori; dall’altra,
coloro che insistono invece sulla necessità di definire l’Unione anche in
base alla sua identità storica e culturale, quindi introducendo un
richiamo esplicito alle sue «radici cristiane».
È prevedibile che, in un modo o nell’altro, si giungerà a un
compromesso. Infatti, non dovrebbe essere impossibile introdurre nel
Preambolo della Costituzione (ancora da scrivere) una menzione di «ciò
che l’Europa deve alla sua eredità religiosa»; tanto più che la
rilevanza della religione è già riconosciuta dall’art. 10 della Carta dei
diritti fondamentali, che entrerà a far parte della Costituzione;
ugualmente è possibile trovare un accordo che porti a riconoscere e
rispettare lo status giuridico, di cui le Chiese e altre comunità
religiose già godono all’interno degli Stati membri.
Tuttavia, al di là dei compromessi possibili, è evidente che la questione
sulle «radici cristiane» dell’Europa non si risolve introducendo
nella Costituzione un generico richiamo ai tradizionali valori religiosi e
spirituali del Continente. Il problema è più complesso. Esso comprende: 1)
anzitutto il discorso sui valori; 2) in secondo luogo, la questione
del ruolo sociale delle Chiese; 3) infine, il richiamo formale
alle radici religiose.
2. Il discorso sui valori
L’art. 2 della bozza della Costituzione propone come valori
fondamentali dell’identità europea: la dignità umana, la libertà, la
democrazia, lo Stato di diritto, il rispetto dei diritti dell’uomo. Anche
se questi oggi sono considerati «valori laici», tuttavia non si può
negare la loro originaria ispirazione cristiana. «Dopo venti secoli
di storia — rileva Giovanni Paolo II —, nonostante i sanguinosi conflitti
che hanno contrapposto tra loro i popoli di Europa e nonostante le crisi
spirituali che hanno segnato la vita del Continente — fino a porre alla
coscienza del nostro tempo gravi interrogativi sulle sorti del suo futuro
—, si deve ancora affermare che l’identità europea è incomprensibile senza
il cristianesimo, e che proprio in esso si ritrovano quelle radici comuni
dalle quali è maturata la sua intraprendenza, la sua capacità di
espansione costruttiva anche negli altri continenti; in una parola, tutto
ciò che costituisce la sua gloria» (Atto europeistico a Santiago de
Compostela, in L’Osservatore Romano, 11 novembre 1982).
In altre parole, nonostante tutti i sommovimenti, le lacerazioni e le
trasformazioni sociali e culturali, l’identità dell’Europa affonda pur
sempre le sue radici nel patrimonio spirituale e morale del cristianesimo,
che ha accomunato fin dal loro sorgere i popoli che la compongono.
Certo, oggi il mondo è cambiato, ed è cambiata pure l’Europa. La
visione dell’uomo e della società non è più quella della primitiva
«cristianità»: la cultura europea si è accresciuta con quanto di positivo
hanno prodotto le correnti moderne del pensiero filosofico e scientifico,
anche di orientamento «laico» e razionalistico; cosicché — per
usare una immagine di Giovanni Paolo II —, «la storia d’Europa è un
grande fiume, nel quale sboccano numerosi affluenti, e la varietà delle
tradizioni e delle culture che la formano è la sua ricchezza» (Omelia
a Gniezno, in L’Osservatore Romano, 4 giugno 1997, n. 4). Tuttavia,
l’avvento del pluralismo culturale, etnico e religioso che oggi
caratterizza il Continente non solo ha rotto la vecchia unità, ma ha
prodotto lacerazioni spirituali e divisioni politiche.
Proprio per questo, per costruire come «casa comune» un’Europa
culturalmente pluralistica, plurietnica e plurireligiosa, occorre fondarne
l’unità su valori fondamentali condivisi. Questi, però, nel mutato
contesto socio-culturale, non si possono più proporre nella forma della
vecchia «cristianità».
La laicità degli Stati e dei rapporti culturali, sociali, economici e
politici è un’acquisizione pacifica anche per la Chiesa. Superare il
confessionalismo, però, non significa strappare la pianta dalle sue
radici: «La marginalizzazione delle religioni, che hanno contribuito e
ancora contribuiscono alla cultura e all’umanesimo dei quali l’Europa è
legittimamente fiera — ha ribadito Giovanni Paolo II al Corpo
Diplomatico accreditato presso la Santa Sede —, mi sembra essere al
tempo stesso un’ingiustizia e un errore di prospettiva. Riconoscere un
fatto storico innegabile non significa affatto disconoscere l’esigenza
moderna di una giusta laicità degli Stati e, dunque, dell’Europa»
(L’Osservatore Romano, 11 gennaio 2002).
In conclusione, i valori comuni richiamati dall’art. 2 della Costituzione,
pur essendo divenuti «laici», rimangono in radice valori cristiani.
Ciò non impedisce che essi si possano ulteriormente specificare e che
esistano lacune e divergenze nella loro comprensione e applicazione, anche
su temi di fondamentale importanza, quali la famiglia, l’istruzione,
l’applicazione delle nuove tecnologie alla vita umana, la giustizia
sociale, le relazioni internazionali, la costruzione della pace.
3. Il ruolo sociale delle Chiese
La questione del riconoscimento giuridico delle comunità religiose è
importante, non solo perché esse costituiscono un forte elemento di
coesione morale e spirituale, ma anche per il servizio che esse compiono
di adattare i valori tradizionali alle nuove esigenze della nostra epoca
di rapido progresso scientifico e tecnico.
Perciò — ribadisce la Commissione degli Episcopati della Comunità
Europea (COMECE) — non basta tutelare il diritto alla libertà
religiosa; occorre pure riconoscere il diritto che le Chiese e le comunità
religiose hanno, in quanto «soggetti sociali», di intervenire e di essere
consultate anche su temi non specificamente religiosi nell’interesse
stesso dei cittadini.
Infatti, «nel corso dei secoli le comunità religiose hanno costruito una
tradizione di promozione dei valori fondamentali per la condizione umana e
di adattamento di questi valori al mutamento dei tempi. […] Esse si
impegnano a servire la società — inter alia, nei settori dell’istruzione,
della cultura, dei media e del sociale — e svolgono un compito importante
nella promozione del rispetto reciproco, della partecipazione, dei diritti
del cittadino, del dialogo e della riconciliazione tra i popoli
dell’Europa dell’Est e dell’Ovest. Esse pongono l’accento sulla
responsabilità dell’Europa, non solo nei confronti dei suoi vicini, ma di
tutta la famiglia umana» («Il futuro dell’Europa», in Notiziario della CEI,
n. 5 [20 luglio 2002], 186).
Perciò — insistono i vescovi europei —, affinché il prezioso contributo
delle Chiese non vada perduto, occorre dare rilevanza costituzionale ai
rapporti tra le comunità religiose e le istituzioni comunitarie,
rispettando almeno lo status giuridico che esse già hanno all’interno dei
singoli Stati membri. Questa richiesta, sulla quale tornano oggi gli
episcopati europei, fu già avanzata alla Conferenza Intergovernativa di
Amsterdam (1997), con scarso successo. Non venne accolta neppure come
Protocollo aggiuntivo. Si ripiegò invece su una Dichiarazione (n. 11) di
scarso rilievo costituzionale, perché non soggetta a ratifica da parte
degli Stati membri. Essa si limita ad affermare che «l’Unione Europea
rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni nazionali
per le Chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati membri».
Si otterrà di più da parte della Costituzione?
4. Il richiamo formale alle radici religiose
Il Papa continua a chiedere con insistenza che sia introdotto nella
Costituzione europea il richiamo esplicito alle radici religiose.
Il 16 febbraio 2003, dopo aver ricordato quanto l’opera dei patroni
d’Europa, Cirillo e Metodio, abbia contribuito «al consolidarsi delle
comuni radici cristiane dell’Europa, radici che con la loro linfa hanno
impregnato la storia e le istituzioni europee», ha ribadito: «Proprio
per questo è stato chiesto che nel futuro Trattato costituzionale
dell’Unione Europea non si manchi di far spazio a questo patrimonio comune
dell’Oriente e dell’Occidente. Un simile riferimento non toglierà nulla
alla giusta laicità delle strutture politiche (cfr Lumen gentium, n. 36;
Gaudium et spes, nn. 36 e 76), ma, al contrario, aiuterà a preservare il
Continente dal duplice rischio del laicismo ideologico, da una parte, e
dell’integralismo settario, dall’altra. Uniti sui valori e memori del
proprio passato, i popoli europei potranno svolgere appieno il loro ruolo
nella promozione della giustizia e della pace nel mondo intero»
(L’Osservatore Romano, 16-17 febbraio 2003).
Gli stessi non credenti, del resto, non possono fare a meno di
confrontarsi con l’eredità storica, culturale e spirituale della
tradizione ebraico-cristiana, a cui si rifà la concezione della esistenza
umana, propria della civiltà europea, con i suoi elementi caratteristici:
primato della persona umana, rispetto della vita, tutela dell’infanzia e
della famiglia, parità tra uomo e donna, libertà di coscienza, di pensiero
e di religione, giustizia sociale ed economica, tutela del pluralismo
culturale e politico, pace basata sul diritto. Negare la matrice religiosa
di questi valori, oggi ritenuti «laici», sarebbe fare violenza alla
verità e renderebbe incomprensibile la storia dell’Europa. Il problema,
dunque, non è «se» parlare nella Costituzione delle radici cristiane —
scelta che appare doverosa —, ma «come» parlarne.
5. Quale atteggiamento assumere?
Di fronte a questi aspetti del dibattito, quale atteggiamento assumere?
a) In primo luogo, è ovvio che nell’Europa di oggi secolarizzata,
culturalmente pluralistica, multietnica e multireligiosa, non si può
parlare delle sue radici religiose e cristiane nella forma confessionale
come ai tempi della «cristianità», quando potere temporale (il trono) e
potere spirituale (l’altare) erano strettamente congiunti. Perciò è
comprensibile la diffidenza di chi teme che dietro il richiamo alle «radici
cristiane» si nasconda l’intenzione di imporre o privilegiare una
precisa identità confessionale.
D’altra parte, è impossibile non tener conto che l’Europa è ormai un
Continente multietnico e multireligioso (è significativo il possibile
prossimo «allargamento» alla Turchia). Secondo stime recenti, insieme ai
555 milioni di cristiani (di cui 269 cattolici, 170 ortodossi, 80
protestanti, 30 anglicani) vivono in Europa 32 milioni di musulmani, 3,4
milioni di ebrei, 1.600.000 induisti, 1.500.000 buddhisti, 500.000 sikh (cfr
Jesus, settembre 2002, 54). Dal canto suo, il Concilio Vaticano II ha
definitivamente chiarito che il cristianesimo non si identifica con
nessuna civiltà, neppure con quella europea e occidentale.
b) In secondo luogo, si deve ammettere che, molto più di un generico
richiamo alle radici cristiane (che pure è doveroso), è importante che
nella Costituzione siano accolti di fatto i valori che a quelle radici si
ispirano. Perciò, l’art. 2 va ritenuto già di per sé un traguardo
positivo, anche se i valori in esso richiamati possono essere
ulteriormente arricchiti e meglio specificati.
c) In terzo luogo, bisogna chiaramente affermare che la religione non
potrà mai essere ridotta a mero affare privato, ma avrà sempre rilevanza
sociale. Pertanto rimane aperta la questione del riconoscimento giuridico
delle Chiese e delle comunità religiose. La reciproca collaborazione,
leale e rispettosa, con le istituzioni comunitarie va garantita
nell’interesse non tanto delle confessioni religiose e delle istituzioni,
quanto soprattutto dei cittadini e del bene comune.
d) Infine, la natura dell’evangelizzazione è essenzialmente profetica.
Se è vero che il fatto religioso non può essere relegato nel privato e che
il riconoscimento giuridico delle confessioni religiose risulta utile ai
cittadini e al bene comune, tuttavia è altrettanto vero che tale
riconoscimento non si richiede affatto affinché i cristiani siano «sale
della terra». Talvolta le garanzie giuridiche possono essere
controproducenti: alcuni potrebbero scorgervi il tentativo delle Chiese e
delle comunità religiose di cercare sicurezze e privilegi; altri vi
vedrebbero una indebita imposizione confessionale e un vulnus alla laicità
dello Stato. Va dunque ribadito con coraggio che la forza della Chiesa non
sta nei privilegi o nel favore del potere di turno; la sua vera e unica
forza sta nella santità dei suoi figli, nella potenza disarmata della
Parola di Dio, nella povertà evangelica. Proprio per questo — ricorda il
Concilio Vaticano II — la Chiesa «non pone la sua speranza nei privilegi
offertile dall’autorità civile; anzi essa rinuncerà all’esercizio di certi
diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse
far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze
esigessero altre disposizioni» (Gaudium et spes, n. 76).