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Ultimo aggiornamento: 15-10-03 |
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Emergenza democratica in Italia? Luigi F. Pizzolato
Il sistema maggioritario è entrato a regime, e sta prendendo corpo nel nostro Paese quel rischio che scaturisce soprattutto laddove l’alternanza del potere non è temperata né da una comunanza di valori societari trasversali, che la rendano in qualche misura accetta a tutti, né da una cultura del confronto, possibile solo laddove la parte vincente riconosca la necessità del dialogo previo alla decisione. In Italia sembrano mancare entrambe le condizioni. Il sistema elettorale ha concesso alla maggioranza un vantaggio parlamentare ben più ampio che nel Paese reale, così ampio che essa può procedere anche senza cercare quei giusti accordi di mediazione, che soli fanno crescere in concordia una società. Nel precedente sistema proporzionale il potere era costretto a queste mediazioni se non altro dalla esiguità della maggioranza numerica e si trattava di contenere un sovradimensionamento delle minoranze. 1. Il rischio del populismo Ora il problema politico istituzionale, inedito, diventa quello di come limitare lo strapotere della maggioranza. Fu questo, a ben vedere, alla base delle Carte costituzionali postbelliche, quando era vivo il ricordo del dramma del sec. XX e dei regimi dittatoriali, che si erano realizzati col consenso della maggioranza. La soluzione fu ricercata in un forte bilanciamento dei poteri, che prevedesse forme e limiti dell’esercizio della stessa sovranità popolare (art.1 Cost.), nella paura che nemmeno questa fosse immune da «impazzimenti». Il limite consociativo ora è stato iper-corretto, scadendo nel difetto opposto, col mettere a rischio la funzione della opposizione e il dialogo previo alla decisione; e col consegnare ai voleri della maggioranza la stessa disponibilità della nostra Carta, la tutela della cui rigidità era prevista per un sistema proporzionale. La principale emergenza della nostra attuale democrazia si manifesta proprio nella avversione alle forme dell’esercizio della sovranità popolare. La leadership politica attuale rivela insofferenza verso tutti i meccanismi che non abbiano una legittimazione popolare diretta. E gli attacchi muovono, per di più, in un momento in cui una cultura frammentata (frutto del pensiero debole e della società complessa) e la mancanza di organismi di mediazione forti rendono il popolo costitutivamente diviso e interpellabile singillatim — cioè nei cittadini singolarmente presi — , non in grado di elaborare una presa di coscienza comune. Questo rapporto diretto, da potere a popolo, che sembra configurare in astratto la più alta forma di sovranità popolare, in realtà diventa un rapporto impari tra chi detiene il potere di interpellazione e di persuasione del popolo e i singoli cittadini, interpellati ad uno ad uno — nella forma del sondaggio o plebiscitaria —, sprovvisti di criteri di valutazione organizzata, e quindi di capacità di resistenza motivata e comunitaria. Questa è la fisionomia del «populismo»: un ricorso al popolo colto nei suoi singoli componenti singolarmente presi, che è a dire non più «popolo» ma «gente». Eppure sembra che questa forma — che coniuga sondaggio e decisionismo — sia oggi pagante. Si tratta di una reazione culturale a un precedente atteggiamento di rapporto mortificante e sterile tra cittadino e potere politico. In realtà troppi valori erano stati declinati in senso ideologico razionalmente astratto, senza tener conto dei soggetti sociali a cui dovevano essere finalizzati. Si pensi, ad esempio, alla ideologizzazione delle nobili categorie dell’accoglienza e della solidarietà, grazie alla quale problemi di emergenza, quali l’immigrazione, erano giustamente sottolineati ma ingiustamente scollegati dal mondo degli interessi vitali comuni, dove crescevano ignorati la paura del diverso e il bisogno di sicurezza. Si pensi alla ideologizzazione di problemi di etica radicale individualistica (comportamenti interindividuali minoritari, fenomeni di devianza, ecc.) contrapposti, e non coordinati, ai problemi relazionali più strutturali e «comuni». Sicché un’ondata di rivalse individualistiche, talora viscerali ma reali, ha spazzato via con l’ideologismo astratto ogni corretta soluzione relazionale personalistica. Si sono avvantaggiate forze meglio attrezzate a rispondere a un contatto corto tra interesse e decisione, perché o meno ideologizzate e più funzionalmente efficientistiche o meno partecipi di passati ideologismi, capaci di far servire le «nuove» e mascherate ideologie a interessi immediati, abili a trovare perciò nuove parole d’ordine simboliche. Mentre le forze a forte struttura ideologica, per rispondere alla logica degli interessi che sono per loro natura diversificati, si spaccano in tanti filoni ideologici rigidi (è il caso della frammentazione della sinistra). Se si volesse esprimere in una formula il fenomeno, si potrebbe dire che la destra riduce a interessi le ideologie di sfondo, fino a destrutturarle; la sinistra ideologizza i vari interessi, sottolineandone i prevalenti aspetti di sacrificio, e quindi rendendoli poco amabili e poco partecipabili. 2. In crisi la mediazione politica, il principio di legalità e i rapporti sociali In questa cultura cresce l’attacco agli organismi di mediazione politica, che si manifesta in particolare nell’enfasi posta sul carattere parlamentare della nostra democrazia costituzionale (le decisioni si prendono solo in Parlamento), dimenticando che l’assolutizzazione della sovranità parlamentare fu ridimensionata già in origine (nella Costituzione) da vari tipi di investitura del potere e lo è anche dal trasferimento di poteri a organismi territoriali e sociali. La stessa democrazia parlamentare è invocata non in assoluto, ma di preferenza contro la base della piramide civile, cioè in opposizione alle manifestazioni di volontà popolare (dette spregiativamente «di piazza»). E invece la si vuole timida verso l’alto, nei confronti della leadership di Governo. Perciò il carattere parlamentare è non tanto valorizzato, ma più che altro strumentalizzato: serve cioè a contrastare la base ed è però mal tollerato quando diventi, a sua volta, organismo di mediazione verso l’alto (il Governo). In questo secondo caso, il Parlamento è visto tendenzialmente come luogo di sterile discussione, tanto che troppo spesso è ridotto ad approvare previamente o in forma postuma decisioni prese dal Governo, con una serie di poteri normativi affidati all’esecutivo. L’assolutizzazione del principio della legittimazione popolare del potere (di tutto il potere) riduce la democrazia, intesa come comando del popolo, all’atto elettorale, mentre la si vuole mettere tra parentesi nel tempo del «frattanto», che è però il più lungo e il più quotidiano e quello che di fatto struttura l’ethos di un popolo e lo tiene desto. Ma la mortificazione del potere della opposizione è destinata a innescare pericolose voglie di rivincita tra i «perdenti»; a rendere perciò perennemente scontenta e discorde la società. E favorisce un trasferimento dell’opposizione parlamentare, costretta a una pura forza di «imprecazione», in una più efficace opposizione sociale, dove più direttamente emergono i rapporti di forza del Paese reale e dove si hanno maggiori possibilità di rendere note le ragioni del dissenso e di condizionare le decisioni. La cultura oggi al potere (che assomma potere legislativo, esecutivo, finanziario e della comunicazione) usa la forza della legittimazione popolare contro lo stesso principio di legalità, come se l’elezione popolare costituisse una specie di lavacro battesimale che rimette ogni peccato passato e presente. In uno Stato liberale il criterio di maggioranza non può assurgere a criterio di giudizio sulla legalità delle azioni, che è riservato a un potere diverso (la magistratura), provvisto di altra legittimazione, quella della competenza in diritto. E nessuna legittimazione d’altro tipo può sopraffare nel suo terreno il giudizio di legalità. Anzi, mentre nel nome della legalità può cadere un altro potere, nel nome del consenso elettorale non si può assolvere alcun reato. La legittimità elettorale autorizza bensì i politici a fare le leggi (che diventano perciò espressione della maggioranza), e i giudici ottemperano alla sovranità popolare giudicando sulla base di queste leggi. Due le piste di intervento che si profilano. In primo luogo, per non rischiare una delegittimazione popolare, si cerca di far rientrare nella legalità comportamenti prima illegali per la via legislativa, cioè cambiando le leggi. Per raggiungere questo risultato non si esita a far arretrare il criterio etico, cioè il rigore del giusto, perfino di quel giusto che è ancora percepito come tale dal costume corrente. Certo, la politica deve sempre commisurare la norma al costume, se vuol essere consensuale e formativa, e perciò deve adeguare ad esso la soglia delle richieste. Ma è un gioco delicato — e proprio per questo bisognoso di grande consenso e non di colpi di spugna maggioritari — stabilire dove un arretramento dell’etica risponda a un arretramento in atto del costume e ne eviti un ulteriore degrado e dove invece l’intervento contribuisca esso stesso a degradare ancor più il costume. In secondo luogo può succedere — sta succedendo — che, in forza della legittimazione popolare elettorale, il potere legislativo e quello esecutivo mostrino l’intenzione di stabilire una sottomissione diretta del potere giudiziario alla sovranità popolare. Infatti c’è chi prefigura l’elezione popolare dei giudici. Si invocano, a sostegno, i Paesi anglosassoni, dove questo sistema funzionava perché c’era un alto tasso di coscienza civica condivisa, di marcata origine religiosa. Ma si ha ragione di temere che ormai anche là esso sia destinato a cedere, col sopraggiungere di un’etica secolarizzata di tipo economico-individualistico. Riusciamo a immaginare chi, da noi, sarebbe eletto giudice in zone ad alta densità delinquenziale o mafiosa? Forse l’uomo giusto e forte? O non piuttosto l’uomo accomodante e succube? E il potere giudiziario darebbe ragione a chi è nel giusto o a chi lo ha eletto? L’insofferenza verso gli organismi di mediazione prosegue nella chiusura nei confronti di forme di dissenso sociale (dei movimenti associativi e dei sindacati), col rischio di «partitizzare» gruppi sociali che non sarebbero per loro natura politicamente schierati e di privarsi del loro prezioso compito di collante tra i due schieramenti in una corretta gestione del sistema maggioritario. Liquidare i movimenti di una vasta e pluralistica opinione pubblica e le posizioni critiche dei sindacati come movimenti succubi della «sinistra» — o, magari, dei «comunisti» —, significa privare questi della loro specifica ragione sociale e la società di un prezioso strumento di vivacità e di compensazione. E significa altresì concedere agli avversari politici la possibilità di trovare sponde programmatiche e canali aggregativi insperati, che permettono loro di fare per interposta persona un’opposizione che stenta ad organizzarsi politicamente. In particolare, quanto ai rapporti con i sindacati, è conclamato l’abbandono del metodo della «concertazione» a favore di un cosiddetto «dialogo con le parti sociali». Pare di capire che la nuova formula voglia indicare che il confronto non darà luogo a una co-decisione, ma che il Governo si arrogherà autonomamente il ruolo di interprete unico del tessuto sociale tutto intero. Certo, in linea di principio e di fatto, la decisione spetta al Governo. Ma la differenza di gestione è sostanziale. Si vuole infatti togliere credibilità globale al sindacato, ricacciandolo in un ruolo di rappresentanza di interessi particolari; e riservare sensibilità e responsabilità politica solo al Governo, che assumerebbe facilmente la logica del dominare dividendo. Per una concezione personalistica è profondamente pericoloso che i soggetti sociali siano deprivati di sensibilità politica (e quindi di «pretese» di incidenza sul bene comune) e trasformati in organismi di rivendicazioni individuali e tecniche. Perché, se la costruzione della città è riservata solo al livello decisionale supremo, nei mondi vitali societari si agiterà il conflitto degli interessi allo stato puro, senza il contenimento di quella «temperanza», che sola genera la concordia per mezzo della automoderazione dei desideri; e tale scatenamento si scaricherebbe sulla politica e la paralizzerebbe o la irrigidirebbe, in ogni caso togliendole consenso. Se il fine della politica è la creazione della pace sociale, essa ha tutto l’interesse che già la società ragioni in termini politici, e partecipi quindi, secondo le sue capacità, alla decisione. Altrimenti, la politica si prepari all’ingovernabilità o a forti manifestazioni di dissenso, perché è vano credere che un popolo accetti di attendere tranquillamente una verifica postuma, indipendentemente dagli effetti degli atti intermedi, e accetti un sacrificio della moderazione imposto solo dall’esterno. Pare quindi che, radicalmente, il vizio della nostra attuale leadership sia l’incapacità di incanalare la mentalità della società complessa in una visione politica di ampio respiro, preferendo le decisioni trancianti, di tipo decisionistico aziendale, e non le logiche coinvolgenti. Un’altra emergenza dell’attuale situazione politica è legata alla separazione del principio dell’efficacia da quello della simbolicità etica. Ci riferiamo a una serie di provvedimenti: la pratica depenalizzazione del reato di falso in bilancio (con il motivo che servirebbe a non impacciare la gestione aziendale); la facilitazione del rientro dei capitali esportati illecitamente all’estero (con il motivo che rinsanguerebbero l’economia); l’abolizione della tassa di successione per eredità miliardarie (con il motivo che, tanto, la si eludeva lo stesso); l’intralcio frapposto alle rogatorie internazionali; il progetto di legge di regolamentazione del conflitto di interessi; il progetto di reintroduzione dell’immunità parlamentare; il progetto di riforma del processo penale (con il fine di garantire, prevalentemente in via procedurale e non di merito, i diritti dell’imputato «forte», che può permettersi difese qualificate e costose); la recente proposta di condono delle multe comunali inevase. Orbene, questi provvedimenti, anche accantonando — per quanto con grande difficoltà — il sospetto che servano più ai proponenti che al Paese, dicono per lo meno che preoccupazioni tecnico-economicistiche prevalgono sul messaggio etico implicito, perché tutti sanciscono e favoriscono una caduta di senso civico, nel nome di convenienze pratiche, che risultano peraltro discutibili proprio nel loro valore di efficacia. 3. Per una democrazia matura Qualche commentatore ha fissato alcune regole per un potere maggioritario «forte», che non voglia scadere in un regime: una opposizione garantita nella sua funzione di controllo e di interlocuzione parlamentare e politica; un pluralismo garantito (alle autonomie territoriali e sociali); una comunicazione garantita (con particolare riguardo alla espressione dell’opposizione, perché la maggioranza può avvalersi di quella comunicazione che deriva dalla decisione politica e, per di più, in Italia non manca dei mezzi di comunicazione tecnologici). Una particolare enfasi sulla garanzia della comunicazione è giustificata dal fatto che, in un’epoca tecnologica, un «regime» si produce non tanto con abolizioni attive di libertà, quando mediante condizionamenti, più o meno occulti, del pensiero ad opera di mezzi persuasori. La tutela della creazione del consenso non può che essere di tipo culturale, e quindi non soggetta a rapporti di mera maggioranza politica. Deve dare insomma pari opportunità a quello che viene chiamato il «Governo in attesa». A queste regole noi ne aggiungeremmo un’altra: per rispetto del principio del maggior consenso possibile tra i diversi, il processo legislativo dovrebbe muovere preferibilmente dalle leggi più condivise, per procedere gradatamente verso quelle di più difficile adesione. Invece anche su questo terreno la nostra democrazia soffre gravemente, perché pare che si sia scelta la strada prioritaria delle decisioni più dirompenti e disgreganti, con una logica più manageriale che di regolazione dei complessificati processi della città. A noi infine piace vedere i cattolici nel ruolo di connettori sociali per vocazione, che però non vuol dire neutrali per definizione. Sembra avanzare invece una presenza politica dei cattolici come «pretesa» di giudicare dall’alto e di condizionare dall’esterno le singole decisioni politiche altrui, pronti ad eccepire su quelle che non soddisfino il proprio mondo valoriale (o, magari, alcuni interessi del proprio ambito di appartenenza), senza partecipare al faticoso lavoro di elaborazione comune. Questo ruolo connettivo da lobby condizionante dovrebbe essere rimpiazzato da un ruolo più alto, quello dell’accettazione della regola politica del prendere «parte» (nel senso di partecipare e di scegliere una parte), con giudizio avveduto e con una motivazione antropologica adeguata, inserendosi da compagni di strada in una parte politica, per quanto sempre con riserva e parzialmente, per farla evolvere verso posizioni sempre più consone al proprio universo valoriale e per creare un auspicabile avvicinamento delle parti. Così essi contribuirebbero non a sottolineare le deficienze della nostra democrazia, ma ad alleviarne le sofferenze, pur nella consapevolezza che le loro coscienze saranno sempre tormentate da quello che Aldo Moro definiva «il principio di non appagamento».
Ultimo aggiornamento: 06-09-03 |