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Ultimo aggiornamento: 19-01-04

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Aldo Moro

L’EREDITÀ DI ALDO MORO TRA MEMORIA STORICA E VERITÀ PUBBLICA NELLA TRANSIZIONE DALLA PRIMA ALLA SECONDA REPUBBLICA

Andrea Ambrogetti

Una riflessione circa la lezione politica dello statista ucciso venticinque anni fa dalle Brigate Rosse e sul patrimonio ideale, morale e intellettuale da egli prematuramente depositato nelle mani degli italiani appare oggi tanto importante quanto opportuna, se non altro perché il paese si trova ancora impantanato nella transizione dalla prima alla seconda Repubblica. Si tratta di una transizione – è bene ricordarlo – cui molti guardano al di là dei suoi termini meramente istituzionali, anche se non tutti concepiscono l’idea che ciò dovrebbe significare non fermarsi alle scelte istituzionali (dal minimo della legge elettorale al massimo del tipo di stato e della forma di governo) ma anche aggredire il problema della concezione e della pratica della democrazia, in altre parole della sovranità popolare. Si tratta di una transizione – peraltro – che Moro fece in tempo non solo ad intravedere, ma anche ad affrontare con una ampiezza di prospettiva che poi deve essere in buona parte mancata, se due stravolgimenti epocali (il crollo del muro di Berlino e Tangentopoli), quattro Commissioni bicamerali e la scomposizione e ricomposizione di quasi tutte le forze politiche italiane non sono bastati per arrivare dall’altra parte del guado.
Ci si può allora domandare se Aldo Moro – questo indubbio protagonista dei primi trenta anni di vita della nostra Repubblica – abbia ancora qualche cosa da dire di rilevante circa le prospettive della transizione italiana, qualcosa che possa risultare utile alla cultura politica italiana durante questo passaggio e su quanto dovremmo trovare al termine di esso: la seconda Repubblica. In altri termini, è possibile delineare e mettere in risalto alcuni aspetti di una eredità del leader democristiano da richiamare in questa fase?
Per tentare di rispondere a questa domanda è metodologicamente necessario prendere avvio con il richiamare i tratti peculiari del contesto politico-culturale degli ultimi venti anni e dal mettere in evidenza alcuni termini preliminari circa la delicata questione della attualità e della inattualità di Aldo Moro.


Rimozione collettiva e eredità perduta: un «delitto d’abbandono» senza colpevoli?
Per introdursi nel tema del contesto, vale a dire l’Italia degli anni ottanta e novanta, basterà rileggere questa frase di Carlo Bo, il grande critico letterario, senatore a vita, rettore dell’Università di Urbino, il quale il 9 maggio 1979, oltre venti anni fa, scriveva:

«La tragedia di Moro avrebbe dovuto essere un momento della nostra coscienza comune, oggi sappiamo che non lo è stato, anzi abbiamo il sospetto che si sia fatto l’impossibile perché non lo diventasse».

Cosa vuol dire questa frase, con la quale Carlo Bo comincia un articolo significativamente intitolato «Delitto d’abbandono», e cosa ci dice a proposito della necessità metodologica di identificare il contesto? Identificare le caratteristiche del contesto è sempre necessario, in qualsiasi processo di riflessione e di comunicazione, se si vuole salvaguardarne il buon esito, dal momento che uno stesso concetto, una stessa idea, possono variare di significato al variare del contesto.
A questo proposito vanno allora sottolineati due elementi di difficoltà, si potrebbe dire due ostacoli cognitivi, i quali dimostrano come sia avvenuto quanto tristemente e genialmente fu intuito all’impronta da Carlo Bo: una analisi della figura di Moro si presenta oggi di difficile intrapresa perché i soggetti protagonisti del mondo politico e culturale italiano non hanno impedito che nel corso degli anni si delineasse una situazione caratterizzata da due elementi critici:
a) la rimozione della figura di Moro dall’immaginario nazionale, figura ridotta ad irriconoscibile volto di marmo sul brutto e – soprattutto – illeggibile monumento di via Caetani, ai piedi del quale gli italiani si sono rassegnati a vedere in televisione, una volta all’anno, piccole folle di delegazioni di uomini politici;
b) il fatto che le circostanze, le modalità e le finalità relative alla morte dello statista non sono ancora state chiarite, vale a dire – come ha scritto Giovanni Moro – il fatto che sugli eventi collegati al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro non è stata ancora raggiunta una verità soddisfacente, condivisa dai diversi protagonisti dell’epoca ed esauriente per chi a quelle vicende guarda con gli occhi di oggi.
A proposito del primo ostacolo Carlo Bo sembra dirci che la rimozione non è avvenuta per caso o per inerzia, ma per una volontà remissiva, che egli qualifica giustamente come «delittuosa», tesa cioè ad abbandonare all’oblio uno dei pochi statisti lungimiranti che l’Italia ha avuto nella seconda parte del secolo scorso. Uno statista che lavorava sul versante della risoluzione dei problemi strutturali relativi all’impianto e al funzionamento della democrazia nel suo paese in un’ottica di largo respiro e di lungo termine – come noi oggi possiamo constatare a contrario se guardiamo alla mancanza degli effetti benefici che il proseguimento del suo tipo di politica avrebbe comportato. 
Che la rimozione sia avvenuta lo dicono poi numerosi elementi, i quali si potrebbero considerare altrettanti indicatori socio-culturali di rimozione morotea:
il fatto che quasi nessuna famiglia politico-culturale del paese ha avviato una seria, laica ed approfondita riflessione sulla figura e sull’operato dello statista pugliese, nessuno – magari più semplicemente o anche solo strumentalmente – ne ha «sposato la memoria», nessuno ne ha fatto – magari banalmente – un «monumento» da inserire nella galleria delle proprie glorie, tanto meno il suo partito di allora, tanto meno – tranne poche e significative eccezioni degli ultimissimi anni – il suo ambiente di origine, cioè il mondo cattolico, nel quale Aldo Moro aveva non poco militato (chi si ricorda, in questi venti anni, un vescovo che abbia promosso una riflessione di un certo spessore su di un uomo politico che gli stessi vescovi nel ‘46 spinsero quasi a forza nelle liste democristiane per la Costituente?);
le intramontabili vulgate giornalistiche sul Moro temporeggiatore, incomprensibile, fumoso, poco concreto, poco coraggioso di cui si legge sui grandi organi di informazione con una certa regolare frequenza e di cui si potrebbero citare non poche, curiose smentite, di sapore anche attuale (di quando, ad esempio, nell’ottobre del ‘73, da ministro degli Affari Esteri, rifiutò agli americani, in occasione della guerra del Kippur, l’utilizzazione delle basi militari ubicate in Italia, negando che potesse trattarsi di una crisi Nato);
la fortuna mass-mediologica e pubblicistica che ha baciato terroristi, carnefici, postini e vivandiere con le loro migliaia di ore di apparizioni televisive e con le loro migliaia di pagine di libri, ore e pagine che sembrano in gran parte dedicate a ripetitive sedute psicoanalitiche di autoassoluzione – peraltro con scarso pudore – piuttosto che allo sviscerare e al portare alla coscienza nazionale un reale contributo di verità sul ruolo da essi giocato nell’impedire l’evoluzione della democrazia italiana verso equilibri nuovi e più avanzati e non verso l’immobilismo che sono stati gli anni ottanta e la rottura forzata dei vecchi equilibri, a quel punto inevitabile e, in parte, rovinosa, che sono stati gli anni novanta.
A questa situazione si collega anche una relativa sfortuna storiografica di cui lo statista è rimasto vittima e che solo negli ultimissimi anni sembra vivere un’inversione di tendenza, anche grazie ad una nuova e intensa stagione di storiografia italiana contemporanea, all’interno della quale gli interrogativi di ricerca sul ruolo di Moro nella storia repubblicana paiono moltiplicarsi

Certo, su Aldo Moro, sono usciti tanti libri e sono stati fatti, non molti, ma pochi convegni, alcuni dei quali ben riusciti. Ma, all’Italia che volta secolo, l’impressione di una lontananza, sembrerebbe quasi di una – almeno per il momento – irrecuperabilità dell’uomo Moro e del leader politico Moro, delle sue idee e dei risultati delle sue azioni di governo, sembra restare ancora oggi. 
Sembra restare nonostante l’impegno dei nuovi gruppi dirigenti del paese – quelli successivi alla vittoria dell’Ulivo nel ‘96 – che, tramite i presidenti delle due Camere, nel maggio del 1998, hanno riportato Moro nell’aula di Montecitorio e hanno chiamato a ragionare su di lui i leaders politici di questi anni.

Sembra restare nonostante la provocazione lanciata nella stessa occasione dall’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, sulle «intelligenze criminose che scelsero, mirarono e centrarono il bersaglio in quel momento politico essenziale», a suo dubbio rimaste forse non comprese nei processi celebrati fino ad oggi.
Per quanto riguarda il secondo ostacolo cognitivo, esso appare non meno importante perché (come ha fatto presente Giovanni Moro negli ultimi anni in più occasioni) fino a quando non saranno state raggiunte soddisfacenti condizioni di verità circa le circostanze, le modalità e le finalità della morte e circa i comportamenti tenuti dai vari attori in gioco durante il lungo sequestro sembra difficile poter dire qualcosa di definitivo anche sull’opera dello statista pugliese nei venti-trenta anni precedenti all’attacco al cuore dello stato e, dunque, avviare e condurre a primi punti di approdo la stessa ricerca storiografica su Aldo Moro.
A nessuno possono sfuggire, infatti, le forti connessioni tra l’azione politica dello statista e le circostanze della sua morte: chiarire le prime e chiarire le seconde è ormai divenuto quasi un solo sforzo conoscitivo. Lo sanno bene gli storici, i quali non possono fare altro che lasciare almeno in parte in sospeso le loro ricostruzioni dell’azione politica del leader democristiano e lo sanno bene gli uomini delle istituzioni incaricati di fare un po’ più di luce sul sequestro e l’assassinio, i quali non possono fare altro che andare all’indietro a cercare nell’attività dello statista elementi utili anche alla comprensione della sua tragica fine.
Nel limbo in cui è rimasto sospeso Aldo Moro, tuttavia, non si trova in solitudine. Egli è solo il più alto ed emblematico caso di un problema più generale, problema non politico, non istituzionale, non economico, ma culturale, che attanaglia la nostra Repubblica ad oltre cinquanta anni dalla sua fondazione: quello del nesso tra memoria storica e verità pubblica. Un problema originato dalla persistenza di buchi neri nella nostra storia recente di cui, appunto, la controversa scomparsa di Moro è solo l’esempio più significativo, in buona compagnia con le stragi, i tentativi di colpi di stato, le zone oscure in cui politica e mafia si sono sovrapposte, gli intrecci perversi tra politica e affari dei quali è difficile credere che si sia saputo tutto in cinque minuti. Fino a quando non sarà raggiunta una sufficiente verità pubblica su queste come su altre pagine poco chiare della recente storia italiana non sarà neanche disponibile una sufficiente memoria storica, sufficiente per rinsaldare l’identità nazionale e per rafforzare la tenuta democratica delle istituzioni.


Condizioni e spunti per una possibile eredità morotea
Nonostante tutte le avversità costituite da questo tipo di contesto resta il dubbio che una qualche possibile eredità morotea esista e che possa ancora essere spesa nel tempo presente e in quello futuro. Questo a patto che non si trascuri che – inevitabilmente – la sua vicenda intellettuale e politica è, almeno in parte, inattuale e che su di essa non si può ancora parlare in termini compiuti perché, come già detto, il debito di verità nei suoi confronti non è stato ancora pienamente saldato. Si tratta di quel debito di verità del paese nei confronti di Aldo Moro che è stato evocato da Pietro Scoppola parlando nell’aula della Camera dei Deputati, in occasione del ventennale della morte: «Vi è un debito di verità verso Moro che è anche un debito di verità verso la storia del paese».
Per quanto riguarda l’inattualità su di essa non c’è molto da dire perché deriva, sia dalla crescente distanza temporale, sia da un radicale cambiamento delle principali caratteristiche della situazione politica: ad esempio, è venuta meno la grande contrapposizione mondiale in due blocchi, i soggetti politici si sono rimescolati e non ce n’è più uno che rappresenta i cattolici, la transizione infinita ha portato ad una situazione tale per cui oggi non si può comunque prescindere dallo «sblocco» delle riforme costituzionali e istituzionali perché si possa avviare una nuova fase della storia repubblicana.
Per quanto riguarda il versante dell’attualità, è necessario porsi il problema di disporre di un metodo, con il quale eventualmente individuare quanto ci può essere di attuale in una vita, in un’opera e in un pensiero inevitabilmente legati alla loro epoca. Due potrebbero essere allora gli aspetti di una prima proposta per questo tipo di metodo:

a) verificare la pertinenza per il tempo presente di ciò che continuiamo a condividere con il tempo in cui Moro ha vissuto e b) verificare l’effettiva appropriatezza per i nostri anni di quanto egli ha esplicitamente indicato come importante per il futuro che sarebbe venuto dopo di lui, cioè quanto da lui era stato appena intravisto, ma sottolineato come rilevante per la sua incidenza a lungo termine.
A proposito di ciò che continuiamo e continueremo a condividere con l’epoca in cui Moro ha vissuto, un possibile spunto può riguardare quello della democrazia: questo tipo di «regime» politico a cui ci si può forse essere abituati, almeno in Europa, ma che a livello planetario costituisce una sfida tutta aperta. A proposito di quanto era stato indicato come valido per il futuro, un possibile spunto può riguardare quei nuovi attori politici ai quali Moro si riferisce quando parla, a seconda delle espressioni, di cittadini o di società civile, e dei quali aveva preconizzato una importanza crescente.


La democrazia: da un tipo di regime a un tipo di società
Terminata la lunga oppressione della dittatura fascista, dai banchi della Costituente, fino alla tormentata fase degli anni settanta, Moro prende sempre molto sul serio il fatto che viviamo in tempi di democrazia e si interroga sulla sua natura con costante attenzione. Si tratta peraltro di un aspetto tanto trascurato quanto interessante del suo pensiero, che dovrebbe a mio parere interpellarci in questi anni in cui spesso vediamo quali sono le tragiche differenze tra una nazione democratica e una in cui la democrazia è assente, in costruzione, incerta o in pericolo.
Moro ritorna, in più occasioni, sulla democrazia, considerandola sotto molteplici aspetti:
come sistema istituzionale, in cui gli attori politici si muovono, partecipando al «gioco democratico», il quale «senza poter risolvere di per sé tutti i problemi, offre con una sua naturale pieghevolezza ed intrinseca fecondità strumenti di dialogo ed occasioni per assumere responsabilità quali il momento storico richiede»;
come ambiente di valori condivisi, in cui gli attori politici si riconoscono (si legga, per tutti, il famoso intervento all’Assemblea Costituente, del marzo ‘46, sulla democrazia intesa come una casa comune costruita su di un minimo comune denominatore – il valore della dignità della persona umana – valido per gli uomini di tutte le diverse ideologie)9;
come finalità costante (e obiettivo pratico) verso cui sempre tende la politica e lo stato in un’opera che in realtà non ha un termine precostituito, dovendo lo stato e la politica farsi in eterno carico dello stesso rafforzamento e ampliamento della democrazia dentro, ci dice lo statista, un incessante circolo virtuoso i cui benefici sono esaltati e moltiplicati mano a mano che un numero maggiore di individui e popoli gode della libertà, e assume quindi una sempre più attiva e consapevole presenza nelle realtà sociali in cui si trova a vivere;
come, infine, vedendo questo ultimo passaggio, un nuovo tipo di società, che si afferma quando il continuo sviluppo della vita e delle istituzioni democratiche e delle loro conseguenze sulle donne e gli uomini induce, in connessione con altri fattori contemporanei, altrettanto se non più rilevanti, primo fra tutti il processo di modernizzazione, ad una «maturazione democratica delle masse», qualcosa in fondo di abbastanza vicino all’idea di mutazione antropologica, se si accetta che essa possa avere una accezione non necessariamente tutta negativa.
Alla luce di questo interesse così ricco e sfaccettato per la democrazia, se si guarda bene anche all’insistenza con la quale Moro ritorna sul tema dell’«estensione dell’area della dignità degli uomini e dei popoli», e sul significato epocale che gli assegna, vale forse la pena di azzardare la tesi secondo la quale lo statista pugliese è stato tra i primi ad abbandonare le concezioni in cui i problemi dello stato, del ruolo della politica e dei partiti erano sostanzialmente inquadrate in una visione di parte (per cui la democrazia è – in realtà – un modo per arrivare al socialismo, o per preservare l’identità cristiana del paese, o per garantire le libertà formali), oppure erano ancorate ad un processo storico ritenuto – in realtà – centrale rispetto al cammino democratico (la continua ridefinizione del welfare state o la dipendenza internazionale, ad esempio). In Moro lo stato, la politica, i partiti sono finalmente valorizzati come fattori ed effetti di una nuova società – quella democratica – in cui si dispiega, appunto, la «dignità umana e dei popoli».
È il tema, altrettanto caro allo statista, del «fare la rivoluzione nella democrazia», con il che già si chiarisce come questa situazione non sia meno priva di problemi e sfide. Lo sottolinea lo stesso statista, ad esempio nella funesta occasione del colpo di stato in Cile.

«Qual è infatti il senso dello sviluppo storico, del quale siamo in qualche misura protagonisti, se non il portare nell’alveo della democrazia la rivendicazione sociale del nostro tempo, di rendere attuabile mediante il consenso e con la forza della legge e delle istituzioni la richiesta di giustizia e di partecipazione? Nostro compito in questa epoca è trovare nella democrazia un’alternativa alla rivoluzione e far sì che la democrazia non sia un alibi per la stagnazione sociale».

Mi sembra allora che l’opera di Aldo Moro per allargare, consolidare e portare a compimento la democrazia italiana sia rivelatrice di un tipo di leader politico di tipo nuovo e di una concezione della democrazia originale rispetto a quelle prevalenti nella sua epoca. Un leader politico di tipo nuovo (e forse ancora attuale) perché la sua azione di uomo di partito, di governo, del parlamento non discende da una ideologia, ma scaturisce da una attiva interpretazione del reale e del suo divenire, che va guidato verso nuove sintesi e nuovi equilibri, nei quali il rapporto tra istituzioni pubbliche e cittadini si modifica a favore di questi ultimi, soprattutto da quando se ne è scoperta la nuova soggettività sociale e l’irriducibile protagonismo politico. Una concezione della democrazia originale perché svincolata (o almeno proiettata verso un affrancamento) dalle ideologie e dalle appartenenze separate.
A proposito della democrazia, infine, non è da trascurare il fatto che Moro si sia dovuto mobilitare anche per la difesa tout-court del sistema democratico in Italia, contro gli attacchi occulti alla sua legittimità. 
Il titolare della sovranità e la sua soggettività politica 

In coerente continuità con la sua idea – più volte manifestata negli anni quaranta e cinquanta – di uno stato democratico da cui nessun cittadino dovesse essere escluso, a partire dagli anni sessanta Moro (forse il primo in Italia?) accede lucidamente alla consapevolezza che nelle società industriali dell’occidente non è possibile governare le complesse trasformazioni in atto in tutti i settori della vita sociale senza l’inserimento a pieno titolo dei cittadini nel sistema degli attori politici. Vi è, negli ultimi suoi discorsi, qualche chiaro accenno a questo stato di cose, che per il leader democristiano acquista un tale spessore da superare in prospettiva perfino la terribile crisi degli anni settanta. Così si esprime nel marzo del 1976:

«l’urgenza di trovare una soluzione al problema della vasta e talora disordinata domanda di partecipazione che investe tutte le società industriali e minaccia di travolgerle, se le forze politiche non sapranno trovare appropriati assetti istituzionali nei quali, in maniera nuova ed originale, questa esigenza abbia risposta piena e soddisfacente».

«So che, pur con distorsioni ed errori, per i quali si paga talvolta un alto prezzo, avanza nella nostra epoca una nuova umanità, più ricca di valori, più consapevole dei propri diritti, più impegnata nella vita sociale. So che la vita civile ha una sua consistenza, proprie intuizioni, proprie proposte, proprie esigenze. … Insomma, malgrado la crisi, sotto la crisi, è un nuovo mondo che si affaccia e al quale è doveroso e insieme saggio dare spazio. Tra il realismo della preoccupazione e l’idealismo delle forze e dei diritti emergenti, non c’è contraddizione. Sono le due facce di una stessa realtà, nella quale la ricchezza del nuovo e dell’umano che avanza non deve essere soffocata, ma composta in un assetto costruttivo. Noi non siamo chiamati a fare la guardia alle istituzioni, a preservare un ordine semplicemente rassicurante. Siamo chiamati invece a raccogliere, con sensibilità popolare, con consapevolezza democratica, tutte le invenzioni dell’uomo nuovo a questo livello dello sviluppo democratico».

Si tratta di un’intuizione sostanzialmente confermata, non solo dall’ampio sviluppo che hanno avuto, a partire dagli anni ottanta, prima i movimenti politici di seconda generazione (ad esempio quelli ecologisti), poi le organizzazioni della cittadinanza attiva (ad esempio Legambiente), ma anche dalla vastissima letteratura sociologica e politica sulla governance che, a partire dagli anni novanta, ha invaso i siti internet di tutto il mondo.
Si dovrebbe allora meditare sulle modalità attraverso le quali recuperare la ricca tematizzazione dello statista circa una società civile che – con la seconda metà di questo secolo, in seguito alle ultime tappe del processo di modernizzazione – incarna ed esprime da sé un inedito protagonismo politico, in una buona parte non incanalabile e non rappresentabile tramite gli istituti tradizionali (partiti, sindacati). A proposito del «cittadino protagonista» così si esprimeva Moro nel 1974:

Un partito che voglia guidare, non può non capire, non può non seguire, non può non farsi carico di tutto quello che è alle sorgenti della sua funzione politica, la realtà concreta degli interessi, dei valori, dei pensieri, degli ideali nella quale si muove il cittadino, come protagonista della vita politica. Questa è l’autentica base, sulla quale l’istituzione deve collocarsi, il potere dev’essere esercitato, l’unità deve essere realizzata.

La società – afferma lo statista sempre più spesso dalla seconda metà degli anni sessanta in poi – ha maturato una propria autonoma soggettività politica e una propria capacità di esprimersi, al di là appunto dei canali tradizionali della rappresentanza politica, mettendone in discussione ogni pretesa monopolistica. Dal novembre del ’68 in poi Moro ritorna in ogni suo intervento pubblico su queste dinamiche e parla di: «un impetuoso emergere di una umanità nuova che propone gravi problemi ad un partito», «una acuita sensibilità sociale (che) eccita la sensibilità dei partiti», «un fermento sociale (che) mette in crisi la funzione rappresentative dei partiti». Dinamiche che nel loro complesso avvengono nell’ambito di un processo di liberazione al quale è connessa una inedita soggettività politica delle aree di base della società. Un processo di liberazione – faceva presente profeticamente Moro – che è in grado di «spazzare via e trascinare con sé» molte certezze della politica e dei suoi protagonisti, compresa la diversità comunista, volendo forse richiamare l’attenzione sul fatto che in crisi c’era il sistema della rappresentanza partitica in generale e non solo un certo partito. A proposito del fatto che in gioco ci fosse la necessità di riequilibrare i poteri, è significativo che Moro nel 1976 arrivi a dire «È diminuito il potere dello stato»: erano sorti altri poteri che andavano inseriti nel contesto democratico per garantire una ordinata prosecuzione del progresso civile.
Questa pionieristica visione del cittadino «sovrano» appare importante proprio oggi, nel momento in cui è in discussione lo statuto del cittadino comune, il quale si sta solo ora faticosamente liberando dallo stigma che lo vede come un soggetto omologato dai mass media e dagli imperativi consumistici, o come un elemento di disturbo al tranquillo funzionamento delle istituzioni. Un cittadino che oggi esercita un ruolo autonomo di tutela dei suoi diritti e di verifica della qualità dei servizi e dei beni pubblici e che rivendica piena parità con quelli che una volta si chiamavano i «governanti» e che dagli artefici delle modifiche istituzionali, in una progettata democrazia della stabilità e dell’alternanza, è candidato a svolgere il ruolo di «arbitro».
È peraltro proprio tale consapevolezza della sovranità pratica del cittadino contemporaneo il punto di partenza dell’elaborazione morotea sulla «terza fase» della vita politica italiana, sulla quale il minimo che allora si possa ipotizzare è che essa avrebbe dovuto vedere nuovi rapporti tra stato e società, e non solo nuove regole e nuove alternative di governo.
La soggettività politica della società, dunque, potremmo aggiungere noi oggi, non solo non è da considerare come un elemento critico per la vita della democrazia (perché apparentemente ne aumenta l’entropia e l’ingovernabilità), ma come un suo punto di forza, non potendo più esserci – in questo mondo sempre più complesso e sempre più globale – un governo della realtà e dei processi di sviluppo affidato ad un unico attore, quello statuale. È proprio questo ciò che viene riconosciuto da più parti in ambito internazionale, in special modo da quella corrente che sta proponendo appunto l’approccio della governance, un’espressione traducibile all’incirca con «sistema di governo allargato» (allargato alla società civile, al settore privato, ecc.). Un approccio che, invece, trova ancora purtroppo difficoltà a farsi strada in Italia, un paese dove le amministrazioni locali non hanno ormai più difficoltà a convocare le associazioni ambientaliste dopo una frana o una alluvione, mentre ne hanno ancora moltissime a convocarle prima, con lo scopo, ad esempio, di mettere a punto un sistema permanente di monitoraggio e di prevenzione «misto» stato-cittadini.


Democrazia incompiuta, riforme istituzionali e seconda Repubblica
Tornando alla transizione italiana, ci si può a questo punto domandare se essa si potrà dichiarare conclusa quando sarà stato approvato dal Parlamento, prima, e – forse – dal popolo, poi, un nuovo testo della seconda parte della Costituzione, oppure quando il premier sarà indicato direttamente dall’elettorato, oppure, invece, secondo una linea forse più consona ad un approccio moroteo, quando si saranno consolidati nel paese i nuovi soggetti politici della democrazia e, in particolare, della democrazia dell’alternanza.
In una disamina della transizione alla seconda Repubblica un riferimento a Moro è dovuto (messa da parte la precisazione relativa al fatto che, ovviamente, l’Ulivo non è stata una esperienza politica simile o analoga alla solidarietà nazionale ma un’esperienza che essa ha casomai reso poi possibile) anche perché egli è stato forse l’ultimo leader politico italiano che ha tentato di affrontare in profondità lo storico nodo della «democrazia difficile» in Italia. Pur sapendo bene quanto essa fosse «difficile» perché priva della possibilità di una alternanza fisiologica tra opposti schieramenti, soprattutto a causa dei limiti imposti dagli schieramenti internazionali, Moro ha tuttavia operato sul versante non solo dell’arena ristretta del gioco politico o di quello delle modifiche istituzionali, ma anche su quello più ampio del consolidamento della democrazia nel tessuto sociale del paese, del suo progressivo allargamento a tutte le famiglie politiche sinceramente democratiche, anche attraverso la legittimazione di quelle forze che il mondo contrapposto di allora impediva di considerare affidabili.
Si tratta allora di chiedersi se vi sono o meno legami tra l’ultima azione politica dello statista pugliese negli anni settanta e la transizione italiana, all’apparenza senza fine. In altre parole, ci si può domandare: la transizione italiana è infinita, tra l’altro, a causa dei limiti negativi della politica di solidarietà nazionale (cioè il consociativismo) o, al contrario, essa è infinita anche per la ragione che quella politica è stata interrotta?
Giuseppe Cotturri ha esaminato questi legami mettendo in evidenza la necessità di tematizzare l’oggetto della transizione e di verificare se la terza fase morotea fosse o meno una proposta di transizione, anche se non esplicita, verso una ulteriore tappa della democrazia repubblicana. A suo parere, negli ultimi due decenni, si sono effettivamente confrontate in Italia due ipotesi diverse circa l’oggetto della transizione, una relativa alla riforma politica e una relativa alle riforme istituzionali, che è poi prevalsa dalla seconda metà dagli anni ottanta in poi. Secondo Cotturri, inoltre, per Moro la terza fase avrebbe dovuto comportare anche una transizione politica profonda, rimasta però solo abbozzata e non più coltivata adeguatamente da altri leaders. Potrebbe essere questo un ulteriore spunto per tornare oggi ad interrogarsi sulla natura della transizione che tutti auspicano, senza farla automaticamente coincidere con le sole modifiche costituzionali e istituzionali.
Con la solidarietà nazionale, intanto, come è stato bene messo in evidenza da Franco De Felice, «in Italia il muro è caduto dieci anni prima che in Europa». Secondo De Felice, infatti, anche grazie alle politiche condotte da Moro negli anni settanta si registra nel nostro paese «un mutamento sostanziale nella ridefinizione dei rapporti fra le forze politiche italiane rispetto al precedente trentennio», tanto che si «può dire, allora, che in quegli anni si chiuda il dopoguerra italiano e si apra una nuova fase».
E si potrebbe aggiungere che, non solo il leader democristiano aveva idealmente scavalcato la cortina di ferro con la sua politica nei confronti del PCI, ma anche che aveva preso atto e correttamente interpretato i mutamenti sociali che stavano portando alla crisi e al superamento delle ideologie e delle appartenenze separate. Ne emerge un leader politico capace di mettersi in sintonia con i cambiamenti di lungo periodo e di prefigurare situazioni ancora lontane. Lo si vede, ad esempio, da come Moro legge i successi elettorali del Partito comunista della metà degli anni settanta, sottolineando «la caduta della barriera morale e politica» e non tanto il rischio di una prossima consegna dell’Italia al comunismo (ad esempio nel Consiglio nazionale democristiano del luglio ’75).

«Soprattutto il voto giovanile ha concorso fortemente a far cadere quella pregiudiziale, in forza della quale si considera il Partito comunista un partito ‘diverso’. I giovani elettori innanzitutto, ma poi anche altri, ideologicamente non comunisti, hanno trascurato o escluso la diversità del Partito comunista ed hanno votato per il suo programma sfumato, senza che giocassero in nessun modo nel loro giudizio le esperienze storiche del comunismo internazionale. È caduta così per molti quella barriera morale e politica, che pur nello svolgersi della dialettica democratica, per alcuni decenni era stata innalzata».

Certo, contro le potenzialità della politica di consolidamento della democrazia praticata dal leader pugliese, rimaneva insormontabile l’ostacolo del muro di Berlino, degli effetti pratici del quale Moro era perfettamente consapevole, anche se già immaginava un futuro diverso.
A questo proposito, nel Congresso della Democrazia cristiana del 1976, si esprimeva in questi termini.

«E possono essere trascurati i fattori internazionali? È naturale e giusto rivendicare l’autonomia del nostro paese, il cui assetto interno non può che dipendere dalla volontà del popolo italiano. Resta però vero che vi sono conseguenze sul piano internazionale, rischi almeno d’isolamento, i quali non sono solo importanti per se stessi, per il pregiudizio che arrecano agli interessi nazionali, ma anche per i riflessi che possono avere sui delicati equilibri sui quali ancor oggi riposa la pace nel mondo.
Quali che siano le decisioni che il paese, nella sua sovranità, sarà per prendere, è doveroso mettere in guardia l’opinione pubblica di fronte ai rischi che permangono e sono gravi, anche se non provocano quell’ondata emotiva che ha caratterizzato una lunga fase della politica italiana e in generale di quella europea occidentale. Trova così giustificazione la posizione negativa di fronte alle forme proposte di associazione dei comunisti alle responsabilità del potere, il coinvolgimento della Democrazia cristiana in una comune esperienza di governo con il Partito comunista».

Per quanto riguarda il tema di un futuro diverso, nel discorso ai gruppi parlamentari democristiani del febbraio 1978, Moro non si sente di escluderlo.

«Se mi chiedesse se la situazione di oggi si riprodurrà domani, in elezioni ravvicinate, la mia risposta, che può essere sbagliata ma è sincera, è: sì! Se voi mi dite: fra qualche anno cosa potrà accadere, fra qualche tempo cosa potrà accadere? Non parlo di logoramento di partiti, linguaggio che penso non sia opportuno, ma parlo dell’andamento delle cose, del movimento delle opinioni, della dislocazione delle forze politiche. Se mi dite: fra qualche tempo cosa accadrà? Io rispondo: può esservi qualcosa di nuovo».

D’altronde già cinque anni prima non si era sentito di escludere grandi cambiamenti futuri, proprio scontrandosi con la democrazia italiana «bloccata».

«Ho detto prima che l’impossibilità di un’alternativa, sia di avvicinamento, sia di avvicendamento, contrassegna la nostra come una democrazia difficile. Ed ho rilevato che qui risiede il fondamento della tensione propria del nostro sistema politico. Non noi, con la nostra volontà, ma la storia stessa, l’evoluzione delle cose ed i movimenti reali dello spirito umano, potranno forse, in tempi imprevedibili, modificare questa situazione».

In fondo, se guarda con attenzione all’Italia degli anni novanta, una volta caduto materialmente il muro di Berlino, è accaduto, almeno in parte, qualcosa di simile proprio a quanto Moro ipotizzava, mentre delle riforme istituzionali si parla dall’inizio degli anni ottanta e ancora è stato fatto poco in concreto, nonostante che sulla loro necessità esista un consenso generalizzato.
Se l’Italia è ancora una democrazia incompiuta, se è ancora impegnata in una complessa transizione, si dovrebbe allora riconoscere che tale transizione non è tanto costituita da quella aperta da Tangentopoli e dal rapido mutare della geografia partitica ma, soprattutto, da quella iniziata alla fine degli anni settanta, quando si sarebbe dovuta affrontare, prima che diventasse patologica, la crisi fisiologica dei partiti dopo trenta anni di storia democratica e si sarebbe dovuto acquisire, si potrebbe dire quasi incorporare, al sistema democratico il contributo della società civile e della cittadinanza, insomma da quando è rimasto in sospeso il problema posto dal nocciolo duraturo della terza fase: una profonda riforma non solo dello stato ma anche dei rapporti stato-cittadini.
In questo senso, è vero allora che la morte di Moro, nel 1978, rappresenta uno spartiacque nella storia della Repubblica, nel senso che da quel momento quest’opera di ulteriore sviluppo della democrazia italiana resta senza guida, la degenerazione partitocratica prende il sopravvento, si cede il campo alla stagione moderata degli anni ottanta e il coinvolgimento/legittimazione nel governo del paese della parte politica diversa da quella che aveva governato ininterrottamente dal dopoguerra deve attendere molti anni.
Ecco perché, tra l’altro, nonostante la sua rimozione e la carenza di verità sulla sua morte non si spegne nel paese l’interesse verso Aldo Moro, ecco perché il suo fantasma continua a passeggiare fuori e dentro il palazzo e il suo spirito aleggia su questa infinita transizione italiana.
Infine, per quanto riguarda la nascita e il consolidamento dei nuovi soggetti politici dell’alternanza in che cosa dovrebbe consistere? Vuol dire forse – come suggerisce Pietro Scoppola nella Prefazione ad un libro dedicato proprio ad Aldo Moro – porre l’accento sui dati di cultura politica che condizionano la costruzione di una democrazia dell’alternanza, cioè porre l’accento su una nuova mentalità democratica. Ecco cosa scrive Scoppola a questo proposito.

«L’esperienza stessa degli ultimi anni sta a dimostrare – mi sembra – che la costruzione di un tale tipo di democrazia non è una operazione che possa compiersi solo sulla base di mutamenti istituzionali, quali sono anzitutto i sistemi elettorali, ma esige non solo la costruzione, da noi incompiuta, dei soggetti politici dell’alternanza, bensì anche di una maturazione di mentalità, un modo nuovo di sentire la democrazia stessa, un lungo percorso insomma, nel quale la cultura politica ha un ruolo certamente decisivo».

Si tratta di un’indicazione tipicamente morotea, una delle tante possibili tra quelle recuperabili da uno statista e da un pensatore che la cultura italiana dovrebbe riscoprire e studiare a fondo per trarne utili categorie interpretative, delle quali ancora non sospettiamo la ricchezza e la modernità.

Pietro Scoppola, Prefazione, in Fabio Vander, Aldo Moro. La cultura politica cattolica e la crisi della democrazia italiana, Marietti, Genova, 1999.

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Ultimo aggiornamento: 14-01-04