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1 ottobre 2000

LA NOZIONE DI SCARICO INDIRETTO ALLA LUCE DEL NUOVO TESTO UNICO SULLE ACQUE

Tra le novità introdotte dal nuovo testo unico sulle acque, il decreto legislativo n.152 del maggio 1999, ora modificato, la definizione di scarico è certamente una delle più rilevanti, se non la maggiore sotto il profilo giuridico. Per essere sintetici ricordiamo che alla radici del dibattito è sempre stata la difficile distinzione su cosa si dovesse intendere per scarico e cosa per rifiuto liquido.

Ancora prima dell'entrata in vigore del decreto presidenziale n.915/82, e quindi del conflitto di termini ricordato, si poneva la necessità di affrontare il problema degli scarichi indiretti e cioè se regolamentare e in che maniera il trasporto delle acque reflue e il loro modo di recapito finale.

Dietro all'esigenza di chiarire le terminologie e i relativi campi di applicazione stava cioè l'evidenziarsi di una modalità alternativa all'installazione di impianti di depurazione di scarichi di origine domestica o industriale nella sede stessa ove questi si originavano, quella cioè consistente nella loro raccolta in contenitori a tenuta e nel successivo trasporto, spesso ad opera di soggetti terzi, verso altre destinazioni.

Perchè tale modalità alternativa sia stata nel tempo oggetto di tante attenzioni era evidentemente spiegato dalle notizie di reato raccolte dagli organi di polizia giudiziaria laddove la destinazioni finale consisteva in uno sversamento incontrollato dei reflui in corpi idrici, caditoie fognarie o terreni senza autorizzazione, con conseguente danno o pregiudizio per l'ambiente.

La destinazione finale poteva peraltro anche avvenire verso impianti di depurazione, pubblici o privati, dove tali reflui potevano considerarsi compatibili con il trattamento finale (biologico o chimico-fisico) a seconda del ciclo di vita o della provenienza. Si iniziava così, nel linguaggio tecnico, a parlare di scarichi extra-fognari.

Proprio perchè tuttavia la fase di trasporto rimaneva un passaggio non soggetto a controllo veniva riletta dalla giurisprudenza, in assenza di modifiche legislative che introducessero una regolamentazione del fenomeno, in un primo momento come "scarico indiretto".

In un successivo, con l'entrata in vigore della normativa rifiuti, il concetto di scarico veniva a sovrapporsi con quello di rifiuto liquido, in particolare durante la fase della movimentazione su strada che la Merli aveva appunto "dimenticato" di analizzare.

La necessità di mettere tutta la casistica sullo stesso piano giurisprudenziale, finiva per costringere gli organi amministrativi sul territorio a veri e propri slalom interpretativi, purtroppo incoerenti, con sconcerto degli operatori e degli enti di controllo. Da una parte si sosteneva che il trasporto di reflui doveva essere autorizzato ai sensi del decreto n.915, dall'altro si ritrattava quando gli stessi potevano essere oggetto di riutilizzo, per es. a fini agronomici. Da una parte si riteneva che l'impianto di depurazione, per poter ricevere afflussi extrafognari, dovesse essere autorizzato sempre ai sensi dello stesso decreto, dall'altra si sosteneva il contrario, e così via.

Alla luce dell'esperienza la soluzione probabilmente più pratica e pragmatica era (e forse rimane ancora) regolamentare il servizio di raccolta di scarichi di origine domestica o industriale dai contenitori destinati ad essere utilizzati come ricovero temporaneo e il relativo trasporto verso altre destinazioni.

Una prima e finora incontrastata ricostruzione concettuale veniva inaugurata con la sentenza di Cassazione a Sezioni Unite 27 settembre 1995 (Forina) dove si decreta che nelle fasi di raccolta, trasporto e stoccaggio si applica la normativa sui rifiuti mentre, al momento dello scarico, si ritorna sotto la sfera di applicazione della legge sulle acque, la quale, in questo senso, diventa "satellitare" rispetto alla prima.

Che la L.319/76 rappresentasse un "satellite" nell'orbita della legge quadro sui rifiuti veniva confermato dal successivo Decreto Ronchi (D.Lgs 22/97). Con l'art.8, comma1, lettera e, si rappresentava cioè il campo di applicazione degli scarichi come un sottoinsieme di quello più vasto dei rifiuti (liquidi) per cui le fattispecie che non rientravano nel primo rimanevano comunque nell'ambito di influenza del secondo.

Anche questa indicazione tuttavia non serviva altro che ad identificare meglio il reato ascrivibile al comportamento descritto, mentre non affrontava ancora la vera radice del problema e cioè la mancanza di una strategia amministrativa in grado di governare la materia degli scarichi indiretti. Quello che cioè necessitava era (ed è ancora a parere dello scrivente), alla luce delle sentenze emesse, stabilire le regole per assicurare che tutti gli scarichi indiretti fossero autorizzati.

La lettura delle sentenze metteva infatti in luce che nessun organo amministrativo aveva ritenuto di dover sottoporre ad autorizzazione gli scarichi indiretti, o meglio, che non risultava essere sottoposto a controllo preventivo il soggetto terzo al quale veniva demandato l'incarico di effettuare, a destinazione, lo scarico finale.

E' naturale infatti osservare come l'attività di carico-scarico costituisca parte integrante di ogni trasporto, rappresentandone le fasi iniziali e finali, e come questo compito sia sempre e in ogni caso demandato al soggetto incaricato di effettuare il trasporto, dal momento in cui l'impresa decide di optare per una soluzione alternativa al trattamento in luogo.

Già prima delle sentenza sopraricordata, in sede di regolamentazione dell'iscrizione all'Albo Nazionale delle Imprese esercenti di smaltimento rifiuti avvenuta con DM 21 giugno 1991 n. 324 e successive modifiche e integrazioni, il Ministero dell'Ambiente si era soffermato sull'argomento, ritenendo di inserire all'art. 2, comma 3, punto 16, del decreto anche "il trasporto non canalizzato" di acque di scarico contenenti sostanze pericolose (ved. art.11, comma 5 del D.leg. 133/92). Si riteneva cioè di ricondurre il fenomeno dello "scarico indiretto" al controllo preventivo sui soggetti esercenti il trasporto rifiuti, mantenendone tuttavia distinta la classificazione con la nuova fattispecie di "trasporto non canalizzato".

L'unica forma di controllo preventivo e quindi conoscitivo del fenomeno era e rimane quella derivante dall'applicazione dell'art.30 del Decreto Ronchi, quando prevede l'obbligo di iscrizione all'Albo. Ma se si considera che, sotto il profilo tecnico, l'istruttoria si concentra in particolare sulla "tenuta" dei contenitori veicolati, certificata da liberi professionisti, si può comprendere come non si conoscano appieno le vere o proprie modalità di esercizio di tale categoria di impresa.

La nuova definizione di scarico presentatasi all'indomani dell'emanazione del Decreto Legislativo 11 maggio 199 n.152 sposa integralmente la linea giurisprudenziale, forse troppo precipitosamente. La definizione è stata cioè costruita sulla falsariga delle pronunce della magistratura in modo tale da escludere a priori che possa esservi scarico di tipo indiretto.

Quando cioè si identifica lo scarico come "qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria..." è evidente che, nell'idea dell'estensore, trova strada l'esigenza di descrivere quel discrimine tra scarichi e rifiuti liquidi che la sentenza Forina ha introdotto, per la prima volta, nell'abecedario della normativa.

Porre inoltre in risalto il fatto che l'immissione debba essere diretta e tramite condotta significa sgombrare il campo da ogni dotta disquisizione sul sesso degli angeli. Ma è proprio così? E' lecito qualche dubbio. A parte la manifesta limitazione del termine "condotta" che comunque dobbiamo intendere in modo estensivo come "qualsiasi sistema con il quale si consente il passaggio o il deflusso di acque reflue" l'interrogativo che ci si dovrebbe porre è questo: qualora la gestione dei reflui domestici o industriali si attui attraverso un loro ricovero temporaneo all'interno di contenitori a tenuta chi è il titolare dello scarico? Colui che materialmente li origina o il soggetto terzo che li raccoglie, trasporta e scarica in uno dei recapiti ammessi dalla normativa?

Così come è stato fino ad oggi, e minaccia di esser ancora, nel caso descritto sopravvive il paradosso: vi sono due soggetti che, in misura diversa, sono responsabili della gestione di acque di scarico, nessuno dei quali è in possesso di una autorizzazione allo scarico. Il primo, perchè materialmente non effettua nessuno scarico, il secondo perchè, per definizione, non effettuerà uno scarico ma solo un trasporto di rifiuti liquidi.

Allora come si inquadrerà lo sversamento incontrollato di reflui propri o altrui in corpi idrici o su terreno effettuato da mezzi mobili? Alla lettera di quanto scritto, nelle intenzioni dell'estensore, non certo come scarico senza autorizzazione, ma più probabilmente, qualcuno suggerisce, come violazione dell'art.14, comma 2, del Decreto Ronchi, laddove si vieta qualsiasi immissione, e quindi anche indiretta, di rifiuti allo stato solido o liquido in acque superficiali o sotterranee (il suolo rimane sempre la cenerentola della tutela ambientale).

Così si può in certo modo porre un sostegno alle ansie della polizia amministrativa o giudiziaria, nella critica condizione di dover effettuare i primi rilievi (si deve raccogliere il campione e se sì, secondo la metodica degli scarichi o secondo quella dei rifiuti?, l'accertamento è irrepetibile ? , bisogna dare avviso per le analisi? ecc.). Certo è più difficile rispondere a qualche legittima obiezione: ma lo sversamento effettuato da mezzo mobile non avviene forse "tramite condotta" o comunque attraverso " un sistema con il quale si consente il passaggio o il deflusso di acque reflue"? E, a ben vedere, non si tratta, forse, anche di una "immissione diretta"? E questo infine non si lega al fatto che il reato di scarico senza autorizzazione si ascrive a chiunque lo effettui, indipendentemente dalla proprietà o origine del refluo?

A queste domande non si può che dare risposta affermativa.

Ne consegue che se queste domande si pongono in relazione al trasferimento di acque reflue verso impianti di depurazione, i cosiddetti scarichi extra-fognari, le risposte non potranno che essere le medesime. Avremo cioè una azione, quella dello scaricare tramite mezzo mobile, rispondente in tutto e per tutto alla definizione di "immissione diretta tramite condotta … in rete fognaria".

Ne discende ancora che, per effettuare tale scarico, del tipo occasionale ma prevedibile, il gestore del servizio idrico integrato dovrà rilasciare apposita autorizzazione all'impresa esercente il trasporto. Ecco che prima del rilascio dell'atto dovrà esaminare le caratteristiche dello scarico veicolato, l'origine, la composizione, la periodicità dei conferimenti, ecc. ecc., cioè in perfetta analogia e aderenza al controllo preventivo che si effettua per il rilascio di autorizzazioni allo scarico "intra-fognario".

Il risultato finale è quindi diverso perché diversa è l'angolazione. In questo senso l'attività di impresa trova legittimazione in un atto, l'autorizzazione allo scarico, che può essere fatto applicare in ogni momento, quando, per es., si avvisti il mezzo mobile lungo una "rotta" diversa da quella che andrebbe invece seguita, in relazione al recapito finale indicato nel testo.

In conclusione allo scrivente pare che l'obiettivo non sia stato raggiunto e che il problema si torni a ripresentare con la stessa intensità di prima. Anzi, a ben vedere, la volontà di applicare a tutti i costi l'orientamento prevalente costringe l'estensore dell'articolato a contorsioni terminologiche (il noto ossimoro "autorizzazione al trattamento di rifiuti costituiti da acque reflue") tali da rendere poi arduo collimarne i riflessi con tutte le variazioni sul tema, tenuto conto dell'impianto normativo di cui si dispone.

Forse migliori risultati si sarebbero ottenuti lasciando inalterata la definizione di "scarico" per tutte le fasi relative alla sua gestione, compresa quindi quella del trasporto, stabilendo forme di controllo analoghe a quelle previste per la materia dei rifiuti, per es. introducendo l'obbligo del "registro delle acque reflue non canalizzate", del "formulario di trasporto di acque reflue" ecc. ecc., insomma, in conclusione, continuando a "chiamare le cose con il loro nome".

Sotto il profilo tecnico rimarrebbe infine da descrivere una terminologia escludente per distinguere la depurazione biologica a fanghi attivi, la sola equivalente a quanto avviene nell'ambiente naturale, da tutto il resto delle possibili alternative, riconducibili alla definizione più estensiva di "trattamento". Ciò porrebbe un discrimine molto meno astratto tra quanto si considera "scarico" (da depurare) e quanto si considera "rifiuto" (da trattare).

 

 

 

 

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