7. Una guerra segreta
Come
si fa a raccontare una guerra segreta?
di
Giancarlo Bosetti
"il Nuovo"
del 30 settembre 2001
*
Il giornalismo si è sempre nutrito di guerre perché la guerra, sciagura
estrema, contiene il massimo concentrato di valore-notizia.
Si sa che le ordinate, operose, benefiche giornate di tranquilla prosperità
sono giornalisticamente una pizza, anche se tutti personalmente le preferiamo,
salvo qualche mente disturbata. Immaginate, prima dell'11 dicembre, un servizio
giornalistico su "una normale giornata" di un grattacielo di Manhattan:
un esercizio di scrittura, un bel documentario come quelli che faceva la Rai di
una volta. Intrattenimento per pochi. Valore notizia zero.
Poi confrontatelo con la giornata del World Trade Center di quel famoso martedì
e vedete un po' che differenza fa: picchi di vendita dei giornali di tutto il
mondo, picchi di audience per le tv, picchi di contatti per l'informazione on
line. Non c'è niente di peccaminoso, non occorre scomodare il sadismo.
Semplicemente quel giorno c'era qualcosa di più importante da sapere, in tutto
il pianeta, anche se era qualcosa di orribile.
Non che le cose buone non possano mai fare notizia, ma hanno bisogno di un po'
di contrasto (per esempio di questi tempi una giornata rosa per le Borse merita
di sicuro le aperture e fa vendere), o devono essere eccezionali (posato il
piede sulla Luna, inventata una medicina che elimina il raffreddore).
La guerra con i mass media ha celebrato e vissuto un matrimonio felice e
indissolubile, lungo tutto il secolo scorso. Quello che voglio dirvi è che
adesso questa situazione potrebbe cambiare.
La dichiarazione di George W. Bush secondo la quale la guerra che gli Stati
Uniti stanno conducendo conto il terrorismo fondamentalista islamico sarà
"invisibile" potrebbe portare a un divorzio che era impensabile fino a
dieci anni fa.
"Andremo a prendere i terroristi - ha aggiunto - ovunque si nascondono, o
fuggono, o fanno i loro piani. Alcune vittorie non saranno pubbliche e
consisteranno in tragedie evitate e minacce da evitare. Altre vittorie saranno
evidenti per tutti". Già, "vittorie non pubbliche". Queste
dichiarazioni hanno un significato preciso. A quel divorzio dobbiamo pensare: c'è
già in corso una separazione di fatto.
Sulla forza di questa unione - guerra e mass media - non c'erano dubbi nella
prima metà del Novecento, con due guerre mondiali. Gli aumenti di vendite
provocati da un conflitto erano tali, per esempio in America, da spingere
talvolta la fantasia a collocare gli editori di quotidiani tra i guerrafondai.
La Prima guerra mondiale inaugurò la fase romantica della coppia. Anzi quello
fu l'atto di nascita di una opinione pubblica, modellata, condizionata (vogliamo
dire: "manipolata"?) dai mezzi di comunicazione di massa. Walter
Lippman (un americano che fu, prima che un sociologo, un grande giornalista)
scrisse nel 1922, come per un bilancio della Grande Guerra, il suo famoso libro L'opinione
pubblica, dal quale si impara come i giudizi che noi masse umane ci formiamo
sugli eventi è condizionato, "mediato", dagli strumenti della
comunicazione. Dei quali Lippman metteva in luce due caratteristiche: la prima
è che sono controllati da una élite, dal potere, da pochi; la seconda che i
mezzi di comunicazione creano una specie di ambiente artificiale che riproduce la
realtà attraverso schemi fissi, semplificazioni, stereotipi.
In altri termini con la Prima guerra mondiale i governi compiono una prima
gigantesca operazione di propaganda sulle masse e si rende chiaro un rapporto:
gli specialisti interpretano i fatti internazionali (peraltro sempre assai
complicati), le masse vengono condizionate da questo lavoro di una minoranza
potente e, per lo più, governante e vicina a chi controlla l'esercito.
La Seconda guerra mondiale fu vissuta e memorizzata, più ancora che con i
giornali, attraverso le voci della radio, le fotografie in bianco e nero. Ed ha
avuto una lunga spettacolare coda nel cinema hollywoodiano (ed europeo) sulla
guerra.
Il Vietnam è arrivato poi in piena epoca televisiva. Molte cose cambiavano ma
il connubio tra mass-media e guerra manteneva la sua splendida solidità.
Le cose hanno cominciato a cambiare con gli anni Novanta e la guerra del Golfo,
quando son arrivati i primi disperati pensieri di distacco. Nel 1991, nonostante
gli exploit della Cnn e di Peter Arnett, quello che si riusciva a sapere
e a vedere del conflitto erano i volti concitati degli inviati delle tv, sugli
sfondi notturni di città mediorientali. E il cuore dell'"evento"
erano le tracce luminose di proiettili che riempivano il cielo a tratti. Poi
c'erano i video del Pentagono, dove si vedevano sagome cartografiche esplodere.
Non come le vedevano i piloti ma i sensori a infrarossi degli aerei e dei
missili.
Non c'erano presenze militari umane, non si vedevano morti e feriti, ma era
sempre molto rispetto a quello che i mass media ci hanno passato, sette anni
dopo, con la guerra del Kosovo. Qui avevamo ancora qualche lontana traccia
notturna di missili e qualche rombo di aerei intorno alle "basi", ma
soprattutto ci trovavamo il giorno dopo un signore che leggeva dei comunicati
davanti a un microfono elencando bersagli colpiti. Era il portavoce della Nato.
E poi sentivamo leggere dai corrispondenti a Belgrado un comunicato che diceva
cose completamente diverse. Si cercava di fare la media. Qualcuno, come Furio
Colombo, ci scrisse sopra un libretto intitolato Fine del villaggio globale
.
Ora stiamo inaugurando un'altra fase, quella che sembra una sentenza definitiva
di divorzio: ci saranno "vittorie non pubbliche", il che significa che
ci potranno essere anche "sconfitte non pubbliche", vale a dire
"battaglie invisibili". Dalla guerra che si vede poco siamo passati
alla guerra che non si vede per niente.
Ognuno dei gradini che abbiamo salito e disceso dalla comunicazione-propaganda
del '15-'18 alla guerra trasparente nel Vietnam, dalle notti stellate negli hotel
arabi al microfono di Mr Shea a Bruxelles, manteneva però un legame ancora
riconoscibile con la realtà; il sipario ogni tanto si apriva, almeno un po',
per confermare che quello di cui si stava parlando era imparentato con la realtà.
Adesso anche questo cordone è reciso. Fino a contrordine.
Si capisce da dove nasce la esigenza della invisibilità. Se io mostro in tv
quello che faccio, lo mostro anche al "nemico", dunque gli semplifico
la vita. Se il bersaglio viene a sapere troppe cose sul proiettile che gli sto
tirando, quello impara a evitarlo. Circola molto in questi giorni l'aggettivo
"asimmetrico", che sta lì per dire che il terrorista colpisce con
mezzi non convenzionali rimanendo invisibile e dunque impunibile.
Anche il potere militare, dunque, per rispondere efficacemente ha bisogno di
diventare asimmetrico. Ma in democrazia le "asimmetrie" non
funzionano. E infatti la gente ha bisogno di sapere: l'avete preso Bin Laden?
Avete colpito il suo quartier generale? Avete catturato qualcuno dei suoi? Le
asimmetrie sul nostro terreno, quello non terroristico della democrazia, non
funzionano perché poi qualcuno dei nostri soldati non torna più o torna
cadavere. E si vuole sapere perché.
E sorge, legittimo, il timore che restino "invisibili" solo le
sconfitte, mentre le vittorie, se uno le fa, poi deve ovviamente farlo sapere in
giro. Se no, che vittoria è? Gli americani, con l'11 settembre, e con la
reazione meditata e forte che hanno manifestato dopo la ferita, hanno guadagnato
un credito enorme.
Mi auguro che lo investano bene e che ci mandino notizie dal fronte, anche se è
un fronte "asimmetrico". Nel bene come nel male, non vogliamo sapere
le cose da un film, tra dieci anni. Meglio versioni succinte in tempi più
rapidi, quanto basta per non far scappare la preda, si capisce.