Giovanni Commare è autore ben noto a chi conosce le cose di poesia, un intellettuale raffinato e colto e, perché no, un amico in tempi in cui trovarne uno è una scommessa...........LA LINGUA BATTE è un libro estremamente bello, costruito sulla lingua e sull’essere linguistico, perfino su lingue straniere, un “allegria di naufragi allora, dentro i vocabolari”, come osserva Marino Biondi. E’ un libro sereno, ottimistico, divertito, ma “c’è un fatto che condiziona l’allegria linguistica, e le imprime un viraggio tragico, ed è la guerra, l’endemica guerra mondiale”.
LETIZIA LANZA
Le prime impressioni: anzitutto, ma non è necessario dirlo, l'ammirazione per la tua grande sapienza linguistica, autentica, senza affettazioni né snobismi. Mi ha molto colpito anche la totale assenza di punti fermi: sempre e solo virgole, o al più qualche interrogativo ... chissà se hai sempre fatto questa scelta.
Ho letto anche la Prefazione, di pregio senz'altro: ma mi ha sorpreso alquanto dove dice: «È un libro ottimistico, sereno, divertito". Sarà il mio stato d'animo decisamente listato a lutto, ma non riesco a intenderlo così: io ci ho trovato, sì, ironia, sorriso, sprazzi di gioia: ma ci vedo anche
parecchio nero, e sopra tutto un diffuso disincanto assieme a una ferma, costante (autoimposta?) volontà di accettazione e a un grande, lucido coraggio: quello che tutti dovremmo avere, insomma ...
GIANLUCA CINELLI
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L’idea di una militanza della poesia richiama alla mente altre stagioni, in cui i poeti agivano nella società consapevoli di un ruolo che non è più loro riconosciuto oggi, quando la poesia è emarginata dal mercato editoriale, spesso ridotta al gusto per il frammento consolatorio e impressionista, e con difficoltà riesce a far udire la propria voce come intervento sulla realtà e sulla storia.
La lingua batte di Giovanni Commare incarna il paradosso di una poesia che tenta di afferrarsi alla materia del suo tempo, della storia e della realtà, dibattendosi nel dilemma di una lingua che è la forma della vita ma non più la radice dell’identità, e di un senso del fare poesia che deve trovare la propria organica essenza non più nell’io, ma nell’esperienza della molteplicità. La lingua batte s’intitola alla sopportazione del dolore per mezzo della lingua, appunto, che pervade tutte le cose saturando la realtà come un fiume ininterrotto, un rumore di fondo, un precipitare di parole che restano prese nella rete dei giorni (113-114). La poesia di Commare si confronta con un presente da cui la lettura, specialmente quella silenziosa e privata, è impedita dal flusso costante della vocalità dei media e della comunicazione, e che dunque insegue suggestioni musicali provenienti dal plurilinguismo e dall’uso libero del verso e della sonorità verbale. Ed è un’operazione rischiosa che obbliga il poeta a giocare con il linguaggio attuale, esausto e impoverito e ancor più sovente ingannevole, abolendo la sintassi e accostando parole della tradizione colta con quelle dell’esautorazione della lingua e del soggetto. Marca stilistica di La lingua batte è il plurilinguismo talvolta estremo e impervio, fatto di lingue ignote alla tradizione poetica occidentale, il cui senso è tradotto in nota, ma che nel corpo poetico vogliono essere suono puro e straniante quanto più possibile.
Di qui il paradosso della lingua di Commare, che se da un lato è la forma in cui persiste la vita (75), la radice viscerale (del dialetto siciliano), dall’altro è la soglia oltre cui s’abbandona l’io e si incontra l’altro, e allora diventa integralmente straniera, fascino esotico, sortilegio di una vita fatta di soli nomi comuni come un “oscuro disegno celeste” (85). Questa lingua appartiene a un io “incidentale” (24), stritolato dalla merce, dall’alienazione e dalla guerra, e la raccolta si articola su quattro stagioni, ideale passaggio dell’io da un parodiato intimismo lessicale blando ed esausto, alla storia e all’attualità della guerra in Iraq, degli attentati e delle torture, dello scontro fra civiltà che proprio nel pluringuismo manifestano le reciproche frizioni. Il dire di questa poesia vuole essere un fare (65), come recitano i versi sull’eroe, che non è “uno che cambia il corso naturale delle cose / Uno se mai che agisce” (87), e nella lingua si incide questo continuo agire incespicante per cui, “fare qualcosa di bello non sempre riesce, / rassegnarsi alla colpa è già una gioia” (101). La fine del libro coincide con la fine della guerra, con i carri armati che chiudono ogni via in un avanzare di fuoco e morte apocalittico, dopo il quale però “l’acqua è tornata alla fontana / acqua rigenerata alle sorgenti / vita rinnovata ad altra vita” (108). La lingua ha combusto e dissolto la storia insieme con l’io, e ha inciso il senso poetico nelle tracce di una realtà frammentata, esperita soltanto in suoni e parole.
Commare si lascia molto affascinare da un’idea mistica della lingua come essenza spirituale del mondo, e preferisce l’impressione fugace, il suono prezioso, l’epifania musicale all’organicità logica: non un disegno di poetica compenetra i testi fra loro, ma le suggestioni sonore e musicali liberamente distribuite, che tracciano anche un percorso ideale di trascendenza dalla realtà al suo senso nascosto che appunto si cela nella lingua, e questa natura frammentaria dell’opera rispecchia il presente erosivo senza opporgli una resistenza della forma altrettanto incisiva, come si legge nei versi “va’ col fiume verso il niente, che ti porti la corrente, / va’ fluisci nelle cose, tutte sante consunte erose, / tutto passa tutto va, un altro cielo e terra ancora” (49) in cui un’idea epicurea del divenire incontra una sorta di rassegnazione che l’espugnato “fortino dell’io” (104) non può arginare. Tale mistica della lingua apre all’ospitalità, ma rimane anche astratta e non minaccia il linguaggio del potere con quello poetico, cosicché l’invito a non trincerarsi nella deificazione dell’io, ma a trovare, invece, l’allegria nel dolore e nell’insensatezza è per la poesia una scommessa nobile, ma forse non risolutiva per trarla fuori dal suo isolamento.
MARIA BILENCHI
Il ritmo aspro e dolce che fluisce ininterrotto nei tuoi versi mi ha affascinato: sono un “canto” d’amore di un poeta innamorato. Vorrei che potessero leggerli tutti i lettori sensibili alla poesia.
FABRIZIO DALL'AGLIO
Il tuo nuovo libro è molto bello e ricco, ma non solo, si respira aria nuova, forse una nuova saggezza poetica. Si respira il piacere della poesia, e la commistione dei linguaggi sembra proprio costruire un nuovo alfabeto. Ci sono poesie che mi hanno lasciato davvero incantato.
Mi ha fatto un grande piacere poter constatare come la tua poesia continui ad arricchirsi e a rinnovarsi.
SANDRO MONTALTO
Questa raccolta di Giovanni Commare fa parte di quella ristretta cerchia di libri che valgono non solo come prodotto letterario ma anche e soprattutto come gesto. Vale a dire, ci sono libri brutti, libri belli, libri persino coinvolgenti e appassionati, ma sono pochi i libri che, sia ben inteso al di là di catalogazioni di genere o argomento, valgono come gesto di un poeta per la comunità letteraria e dei poeti (diamo per scontato che il libro sincero di un poeta sia sempre un gesto per la comunità
umana.).
Commare ripropone la vecchia questione della poesia concentrata sul linguaggio, o della lingua fatta di lingua, come dice Marino Biondi in prefazione «lingua mescidata di lingue, echi, rimandi,
detriti, relitti, assilli rotazioni tormentoni di senso che si fanno di nuovo parola». Ma lo fa, meritando approvazione, da un lato con divertimenti quasi alla Palazzeschi (vale a dire sanamente bombaroli), dall'altro senza filiazioni neoavanguardistiche, vale a dire con l'orecchio teso non alla poetica ma alla resa di poesia.
ROBERTO CLEMENTI
Ho letto e riletto LA LINGUA BATTE, di cui ho apprezzato numerosi elementi, primo fra i quali l'apertura - ma questo è un dono che da sempre ti ho riconosciuto - nei confronti dell'altro da sé, in questa costante immersione in un crogiuolo di lingue (e culture) che numerosi burattinai della nostra realtà ancora s'ostinano pervicacemente a rifiutare ed a negare nei loro intrinseci valori (anch'io insegno a chi mi offre molto da imparare). Ho ammirato quella serenità di fondo che, pur di fronte alla denuncia di fatti e situazioni sconvolgenti, ti consente di guardare oltre con un filo di malcelata ironia per approdare all'esaltazione piena d'un amore che è tuo, quello vissuto momento per momento, ma che è pure quello universale, cosmico. Ho inoltre considerato non trascurabile pregio sotto il profilo estetico la virtù e l'abilità nel giocare con rime e parole. Non ti nascondo una certa difficoltà a penetrare nessi ed immagini forse estranei alle mie esperienze.
MAURO FERRARI
Ho letto con attenzione il tuo bellissimo libro LA LINGUA BATTE. Ottimo, una via nuova per la poesia, qualcosa di modernissimo che supera sia la finta e fallace transitività di tanto pettegolezzo in versi sia la vecchia pratica avanguardistica. In effetti, è una poesia che parte dal frammento, da una unità mancante e non più ricostituibile. Meglio, una unità che non c'è mai stata, senza forse rimpianti. Non è la scelta di chi gioca con le combinazioni ludiche della sintassi, né di chi gioca (ancora) con i suoni creando una melassa di sintagmi e significanti. E' qualcosa di nuovo e serissimo, qualcosa che è un passo avanti a tutto, davvero.
LILIANA UGOLINI
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Non potevo aspettarmi da te che una scrittura interessante e la forma nuova ( o l’estensione del contenuto) del tuo dire rende bene il frantumato quotidiano percepito e vissuto sulla pelle, sui sentimenti, nella frustrazione, nella denuncia, nelle incomprensioni e a farne trasparire la bellezza, la molteplicità, il dubbio in un brillìo di parole vorticanti e vertiginose. Lo stile dà la sensazione del tradurre l’indicibile vissuto, il rebus nel quale restiamo in attesa d’un uscita che può essere proprio questa ironia, questo traslare l’evidenza in versi/non versi che divengono sulla pagina geroglifico antico e traducibile.
E’ senz’altro affascinante questo nuovo “ battere la lingua” che ha rimandi di suoni e d’infinito in un crepitìo vitale e percepito.
Il tocco è delicato, tutto si può dire se si sa dire. Mi stupisce (marginalmente) l’uso della punteggiatura che segue canoni inusuali in riga col testo e mi piacciono le citazioni in dialetto e in lingue diverse che abbracciano il globo e il tempo con i loro linguaggi umani e comportamenti ( disumani).
E poi ( forse stranamente) questo libro lo trovo filmico o per lo meno adatto ad un susseguirsi di immagini come è lo scorrere di questo mondo di tanti mondi intrecciati.
Mi trovo inoltre d’accordo fra l’altro sulla frase il problema del dire è il fare che raccoglie, mi sembra, in sintesi l’ironia del parlato.
Scrivere un libro per tutti non è da poco e penso proprio che tu ci sia riuscito nonostante che questo mare di vita non lo posso (possiamo) raccontare.
ENZO FILOSA
LE PAROLE DI TUTTI
Il grandevetro 76
La società multietnica, accomunata dal falso inglese dei provincialismi pubblicitari, pretende la sua espressione letteraria, la sua manifestazione poetica. La sua lingua, sempre più merce di scambio, dal significato elementare delle necessità esistenziale, è il compost delle lingue alla deriva approdate in uno spazio-tempo indifferenziato, in uno spazio-tempo senza storia o nel quale la stratificazione storica non incide su di essa. Ma può la lingua – qualsiasi compost linguistico – sottrarsi all’interrogazione della poesia? della poesia che continuamente sottopone il dire alla tortura della significazione?
Ed è nel tentativo di appropriarsi di questa “cosa” che ormai è la parola (o sempre è stata?) che si costruisce il nuovo poetico: non, cioè, nell’impossessamento definitivo di chi poi di quella parola si fa maestro e manipolatore, bensì nella tensione a questo possesso: fatto che –deliberatamente – a Giovanni Commare consente l’approssimazione a un senso. Ma dire “parola”, parlare di “parola” (e non sfugge l’irrisione del gioco verbale, del metadiscorso, per cui “si parla di parola”, c’è “parola sulla parola”, con la possibilità di un rinvio all’infinito) è improprio, perché suggerisce una tramontata poetica dell’illuminazione del “verbum”, mentre qui ci troviamo a confrontarci con il “sermo”, con lo sciorinamento del linguaggio che ci è dato. E, dunque, la novità è nel raccogliere, nell’accogliere questo sermo nel quale abitiamo e innovarlo in questo accoglimento. Non siamo, però, nell’elevazione a poetico della lingua quotidiana, operazione già cara a Goethe e discepoli, per la quale il magister dell’eloquio sceglie fior da fiore e connota di senso – del senso: quello alto, ultimo, misterico – la lingua di tutti, così rivelandone il sublime, il sacro, e cristallizzandola in una soglia tra dicibile e indicibile. Siamo, invece, in una sorta di materno abbraccio, nel conforto che lascia che il sermo-cosa sia come è, e che quindi esso liberamente aggreghi un significato. Di qui, da questa intenzione programmatica che si traduce in atto, il mescolamento dei linguaggi genera il continuo arbitrio del significato: si produce, cioè, il fenomeno fisico elementare di combinazioni di frasi che, senza causalità e senza finalità precostituite, si costituiscono in discorso. Il sermo pubblico e quello privato frugano l’uno nell’altro, si innestano a vicenda, ramificano in un dire che non conosce soluzione di continuità, tanto che l’opera non è un canzoniere, una successione di poesie, bensì poema, unità, grammaticalmente tangibile dall’uso della virgola a conclusione d’ogni sezione. La selva dell’eloquio risuona di echi di parole antiche, trascinate come detriti insolubili da storia a storia. E in questo martirio della cronaca v’è spossessamento dell’io da parte d’un sermo non suo e contemporaneo impossessamento dell’io, restituzione dell’io a se stesso nella trasformazione di questo sermo nel proprio dire di sé. L’io, in breve, rende testimonianza del flusso di eloquio nel quale ogni cosa è, e tale testimonianza è il poetico di Commare. Commare così addiviene alla forse unica novità oggi possibile del discorso, quella di chi dice con parole di tutti e di nessuno la sua identità irrisolvibile ad altro.
Questa novità del discorso è novità della poesia nella particolarità del verso, matrice d’una musica del soggetto che non ha per niente l’intento di nobilitare la materia data, bensì di fluidificarla, di dare ai frammenti dell’ascolto la continuità della vita. Vale la pena citare: “che povere parole hai trovato / per cantare la terra dove vivi, / ma la musica, la musica la scrivi?”. Siamo, però, ben distanti dalla pretesa di dare con il “suono”, con la cadenza ritmica – cadenza in questo caso frenata, da rap contratto in un jazz ascetico, – l’essenza del mondo. Citiamo ancora, da strofe a breve distanza dalla precedente: “tutta l’angoscia della notte stellare / sta in questo insolito vaso / di vana sonorità.” La consapevolezza poetica qui è al vertice. L’ “insolito vaso” – la parola raccolta dalla poesia e, insieme, l’io che la raccoglie e ne è il prodotto – richiama la vuotaggine che va dalla “notte” alla “vana”: cavità, insomma, del verso, del nulla in cui danzare, di quel nulla di cui poco oltre è detto “null’altro abbiamo fatto che parlare / il nulla che dà nome al silenzio”, poiché anche la poesia, come tutti, non fa che “parlare il nulla”, il luogo-non luogo della “vana sonorità” che consente la danza. Questa consapevolezza del verso nuovo, del poetare “insolito”, è “tutta l’angoscia della notte stellare”, è il passo di danza vano nella vanità di un tutto-nulla, è la pienezza dello smarrimento nella cavità notturna, la musica con cui Commare dice un sé che avanza e fugge, un io che prova a ricomporre il nulla del silenzio.
NINO CONTILIANO
Davide Sparti, marcando la sonorità insistita dei testi poetici di La lingua batte, richiama l’attenzione sul “significante”, la “phonè” e l’oscillante ambigua ricerca del significato e/o senso della vita, o come sembra dire, utilizzando Wittgenstein, un gioco linguistico stirato sul “doppio registro, fonetico e semantico […] della doppiezza e dell’ambiguità della vita” quando nell’agorà è conflitto e partita tra il significato d’uso o di scambio dei significati e dei messaggi circolanti della lingua quotidiana, ma anche poetica o di altri linguaggi.
Ma la sonorità presente nei testi di La lingua batte ci sembra risponda meglio a quello che oggi è la reale ibridazione della lingua d’uso come miscelato (maturale-artificiale e divenire storico); è il reale stesso che ne “rispecchia” la multiculturalità, e politica complessità di intreccio storico determinato, e di cui il mistilinguismo è il visibile dell’invisibile – “chiave di accesso remoto, / ai morti non morti, diversi / verso il cuore della creazione” (p. 50) o “[…] forma che persiste,/ nella sua essenza ogni vita è forma / e se integra la morte di consacra, // form is never more than an extension of content, / ora et labota il vecchio orto del racconto, / prima lavarsi gli occhi con l’oscurità, / per poter vedere di queste cose,” (p. 81) –, più che gioco di “significante”, e “phonè”. È la sonorità pratico-significante del nostro presente storico, il riccamente ideologico di una parola che il poeta “avverte non sua”, appunto perché parola di classe sociale multiculturale, e antagonista piuttosto che gioco linguistico individuale e percezione estetico-allusiva o seducente fenomenologia asettica.
Crediamo che la praxis della parola poetica del libro di Commare sia più rispondente all’intentio dell’opera e dell’autore, oltre che del lettore di estetica “ricezione”, se la paraxis della lingua d’uso wittgensteiniano si combini con il quella del “valore d’uso” (e non del “valore di scambio”), della comunicazione poetica e artistica, di cui la semiotica di Ferruccio Rossi-Landi (Il linguaggio come lavoro e come mercato”, in Semiotica e ideologia 1979) ha lasciato chiara testimonianza...... Giovanni Commare non rifiuta di pagare il pedaggio alla storia in termini di una scelta critico-prassica facendo esplodere l’ideologia della falsa coscienza dell’“innocenza” (nessuno è innocente) e della giustizia che non si è raggiunta anche quando sono stati uccisi i torturatori e preso il boia. Le condizioni ideologiche e di potere, saltando a piè pari nel circolo delle determinazioni storiche e con queste nella stessa lingua e negli stessi linguaggi, sono sempre lì, irrevocabili e in divenire; stanno a testimoniare che il presente non è lo stesso che il passato, che il futuro e ben lungi già dall’essere univocamente prefigurato. . . .
Così La lingua batte, e solo per restringere il campo, ha un universo del discorso che non è solo mondo-letteratura o autosufficienza poetica senza nessi logici. L’insieme è strutturato di richiami, chiari o allusi, a una poesia che, insieme con la scelta “etica”, mette in campo anche i suoi legami con il quotidiano, vissuto personale e sociale, e la storia materiale di questi anni e altro tra il verbale e innesti non verbali, sonori e risonati altro. .....
Dopo i campi di concentramento e sterminio di ieri e di oggi, Hiroshima e Nagasaki, Guantanamo e Abu Ghraib, le guerre umanitarie e infinite, i terrorismi e i genocidi (anche per fame e sete) c’è veramente bisogno, necessità, obbligo di un pensiero e di un’azione che pensino contro se stessi calcolanti e strumentali; c’è obbligo di una poesia sovversiva e anarchica come ha detto Hans Magnus Enzensberger (anche Sanguineti). Una poesia che ha il potere della ‘potenza’, la ‘potenza’ che non riconosce il potere delle idee dominanti che sono sempre quelle della classe dominante, quella cioè che detiene e amministra il sistema delle forze produttive, dei rapporti sociali e del ciclo di riproduzione in atto: “per il potere, che non può riconoscere altra arché oltre se stesso, la poesia è anarchica; intollerabile, perché non la può strumentalizzare; sovversiva per il solo fatto che esiste... La poesia tramanda il futuro. Di fronte alle realizzazioni del presente, essa ricorda l'evidenza: ciò che non è ancora stato realizzato”. L’“inutile” della poesia , il suo non essere merce di scambio o valore di mercato è il come se dell’angelo della storia di Klee e Benjamin, una rottura nel fluire della continuità delle cose e una sosta. È il dare voce a quelle del passato ancora non realizzate e guardare al futuro come a un a venire dialetticamente aperto tra disperazione e speranza o, se volete, dolori e amori con passione accompagnati da suoni e ritmi blues.
Suoni e i ritmi blues che si esplicitano nella sonorità semantica, variamente coltivata (rima, rima interna, allitterazioni, consonanze e assonanze, e varietà di accenti), o altro ancora nella sperimentata mescidanza mistilinguistica, e sonora o, a volte, della non discorsività aforismatica, perché sono un altro varco, specifico del linguaggio d’uso e ‘messaggio’poetico circolante e temporalizzato storicamente, per stare nel mondo della vita vissuta e della storia a venire.
DANILO MANDOLINI
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L’ultima opera in versi di Giovanni Commare, conduce il fruitore di questa poesia entro i confini di un territorio della mente in cui le riflessioni e le domande appaiono di colpo come nuove. Appaiono nuove, in particolar modo le domande che il lettore si pone, nel senso che queste riguardano ambiti che si possono intuire solo a condizione di essere disposti a smarrire una parte di se stessi; a perdere, tra le pieghe fitte dello spaesamento più spinto, la sensazione del tempo che passa attraverso gli eventi visibili del quotidiano.
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La ricerca di una maggiore profondità nei testi del più recente dei volumi di Commare ci rivela, infatti, che la parola è qui pronunciata e, al tempo stesso, osservata nell’atto di essere pronunciata [“il poeta è innanzitutto / uno che avverte come non sua / la parola che usa” dichiara la citazione da Vicissitudine e forma di Mario Luzi (Milano, Rizzoli, 1974) posta ad apertura del libro]. Essa è strumento di narrazione, certo; è strumento di narrazione ma anche oggetto da scrutare, suono da ascoltare (molti sono gli inserti in lingue vive, morte e dialetti ai quali è probabilmente affidato questo compito). Questo “gioco” tra positivo e negativo (si potrebbe dire anche tra passivo ed attivo) ci mostra l’azione del parlare e del comunicare (le parole, i linguaggi) sia come campo lunghissimo - per usare una metafora di tipo cinematografico - che come primo piano alla base dello svolgersi delle pagine. E’ proprio nel frequente palesarsi (e grazie al frequente palesarsi) di questi frangenti che si ha l’impressione di scorgere, pur senza toccare, la materia di cui sono fatte le parole (il parlare, i linguaggi). E’ una materia sospesa, quella di cui si sta disquisendo; una materia che forse ha una concretezza che risiede soprattutto nella sfera della percezione. Ciò che sembra chiaro, in ogni caso, è che nell’essenza che presumibilmente forgia le parole l’autore auspica di vedere e riconoscere il divenire ricorrente ed imperfetto di tanta, caotica umanità.
Quando la parola - la voce del poeta - narra, essa narra proprio di umanità.
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