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Marino Biondi



ALLEGRIA DEL CAOS

LA LINGUA BATTE

mi sento proprio a casa in questo caos,




Lingua fatta di lingua, la poesia di Giovanni Commare, di lingua mescidata di lingue, echi, rimandi, detriti, relitti, assilli rotazioni tormentoni di senso che si fanno di nuovo parola, magari anche parola d’amore. È un libro ottimistico, sereno, divertito. Ma c’è un fatto che condiziona l’allegria linguistica, e le imprime un viraggio tragico, ed è la guerra, l’endemica guerra mondiale. Una allegria di naufragi allora, dentro i vocabolari. Ma non è un gioco linguistico. Né potrebbe esserlo. È solo un’altra strada per tornare alla casa della lingua, del senso, del sentimento, fors’anche della passione. La sillabata parola è stata sfrattata, non ha più stilizzata dimora. E di linguaggi sontuosi di tradizione non è più il caso di dire. «Stare dentro i fatti è la necessità» e «molti raccontano in modo diretto». Due sintagmi per enunciare la nuova situazione della parola scossa e rinnovata dei nostri giorni. Di una parola straniata ma rinverdita, esangue ma rinsanguata da potenti dazioni di altro sangue. Un panismo linguistico lo sostiene nel caos vitale dei linguaggi contemporanei. Ottimistico perché volge al positivo, a un arricchimento condiviso di fitte interlocuzioni e neologismi conquistati sul campo della vita e delle vite, lo stato fluido e instabile della lingua-cronaca e storia di giorni vissuti e sconosciuti, materia di segni che altri potrebbe subire come un’aggressione da alterità barbariche senza nome: «il centro cede alla gravità, allah ak-bar» (dio è grande). Qui le parole hanno alito fuso e confuso di storie e cammini che vengono al delta della pagina da ogni dove. Pezzi d’opera buffa o tragica, zufolati da ogni luogo in un’Italia divenuta da decenni una terra mista e plurilingue. L’alternativa nomade alla poesia sedentaria di sedicenti martiri autistici di un verso che non esiste più. L’autore, grande orecchio spalancato al reale, gola profonda a ingurgitarlo, curioso e disposto a ogni incontro fortuito, a ricevere caramelle da conosciuti e sconosciuti, a ogni ironico incrocio con i sensi non identificati di un mondo mai così rumorosamente parlante e babelico, disperato e gaio, come un San Francesco, con gli animali ci parla e li riporta all’ovile di un libro singolare nel panorama odierno delle astruse sperimentazioni o di una poesia fuori tempo e autoreferenziale. Che il poeta sia uno che avverte come non sua la parola che usa è avvertenza decisiva per entrare nel congegno neopoetico che qui si offre al lettore. E un’altra immediatamente seguente che si ricordi la lingua a frammenti e spezzoni, inspiegabile e fascinosa, turbolenta e stranita, come il suono residuo di un sogno. Dove batte la lingua di queste composizioni che della poesia portano un sogno-segno residuo, e come il lutto già ampiamente elaborato di una metamorfosi avvenuta? Batte sui ricordi, sugli impulsi, sulle continue aggressioni del presente, sulle giunture di senso, su slanci e tenerezze interrotti, su una memoria che ancora viva e profonda dètta quello che potrebbe forse essere ancora un libro di versi. Ma che non lo è, né può più esserlo. È piuttosto un dizionario danzante di parole in divisa e parole discinte, parole ricche e poverissime, parole neonate e consunte, che stridono eppur significano, messe accanto, attriti di senso fra neve sui rilievi e ampie schiarite di un bollettino meteorologico, e la pomeridiana serale raccolta dei morti, nei resoconti dai fronti di guerra. «Grande è la confusione sotto il cielo». Batte su una identità che non è più solo tale ma è diventata una comunità di lingua e di voci. L’autore ha gusto e fantasia nel frantumare il vaso di cristallo della poeticità e collezionarne amorosamente le schegge. Ce ne sono da notiziario della crescita zero: «l’economia che non cresce la crisi del capitale»; «la figura si deforma nei frattali / la forza nei rapporti interinali». Ce ne sono di ludiche: «proprio un poeta perverso / perso nel verso». Ce ne sono di antica elementare razza eraclitea: «Siamo vento, e desiderio / fuoco, varsamonero». Ce ne sono di limpide e bellissime. Comincia «e diceva, il mare, / questo mare non lo posso raccontare», e chiude così: «ma l’acqua è tornata alle fontane /acqua rigenerata alle sorgenti / vita rinnovata ad altra vita».

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