OBSCURE METAL UNDERGROUND & VULTURE CULTURE
I, VOIDHANGER MAGAZINE - ARGOMENTI

 

GOTICO ITALIANO
GUIDA AL DARK SOUND E ALLA CULTURA GOTICA IN ITALIA
a cura di Voidhanger

 

PREMESSA
Prima di cominciare, mettiamo subito in chiaro una cosa: il dark sound italiano non esiste! Non potrebbe essere altrimenti, se pensate che molti nutrono dubbi persino sull'esistenza del dark sound originale, quello degli anni '70, per lo più inglese e venuto alla ribalta parallelamente all'affermarsi del hard’n’heavy e del prog. Di un'etichetta simile difficilmente troverete traccia nelle enciclopedie rock, e solo qualcuno più in là con gli anni ricorderà di averne effettivamente letto sulla stampa specializzata. Il fatto è che il dark sound di 30 anni fa è più che altro un'idea, un comune sentire di un manipolo di band che si sono trovate a muoversi entro lo stesso solco creativo.
Invece che di una scena, dunque, si dovrebbe parlare di un movimento, o semplicemente di una corrente musicale e culturale nata e sviluppatasi in modo spontaneo e quasi del tutto inconsapevole, ma con caratteristiche tali da permettere di tracciare per grandi linee un identikit comune a tutti i gruppi che ad essa vengono ricondotti. Prima fra tutte, una spiccata fascinazione a livello lirico e visuale per il soprannaturale, l'orrido, il macabro e la magia, che a volte sottendevano una reale conoscenza degli argomenti, mentre altre volte erano solo un mezzo per rompere certi schemi del passato, per tagliare i ponti con una tradizione rock che nei '70 appariva anacronistica. L'innocenza del decennio precedente se n'era andata per sempre, i tempi cambiavano rapidamente facendosi più cupi e cattivi, e con essi cambiavano la musica e i suoi contenuti.

 

IL DARK SOUND DEI '70: UN FENOMENO SOCIALE E CULTURALE
L'immaginario oscuro e macabro, all'epoca avversato da molti, di cui si nutrivano band come Black Widow, High Tide, Dr.Z, Monument, Zior, Atomic Rooster, Necromandus, Arcadium, Still Life e ovviamente Black Sabbath, insieme all'utilizzo di suoni più duri e spigolosi (quelli del rock duro) o più complessi e sofisticati (quelli del prog) segna dunque un momento di rottura generazionale, di netto distacco dalla cultura pop(ular) del passato. Quasi che si trattasse della rivalsa dei dannati e dei disperati sulle utopie di felicità degli hippie intorpiditi dalle droghe di qualche anno prima.
Così, invocazioni demoniache, messaggi di violenza più o meno espliciti, sortilegi e persino una messa nera (nel disco degli americani Coven) fecero la loro prima apparizione in maniera sfacciata proprio negli album di quelle band, delineando sonorità cupe che giustamente meritavano l'appellativo di "dark". Ed è questo trait d'union umorale, insieme alle nuove esigenze espressive e culturali di cui si è detto, a consentire di raccogliere sotto la bandiera del dark sound gruppi molto diversi. Infatti, se i Black Sabbath non suonavano affatto come i loro presunti rivali Black Widow, ancora meno assomigliavano agli americani Coven, emuli dei Jefferson Airplane e dunque ancorati a modelli stilistici tipicamente Sixties (sebbene fossero affascinati dal satanismo piuttosto che da ideali di pace e fratellanza).

Proprio questa differenza, all'apparenza priva di importanti significati, permette di capire non solo perché il dark sound sia stato soprattutto una faccenda inglese, ma addirittura di far luce su certe caratteristiche di parte del metal estremo contemporaneo.
Infatti, mentre l'America non era ancora ben conscia della grandezza di scrittori come Edgar Allan Poe e soprattutto del maestro dell'orrore H.P. Lovecraft, gli Inglesi e gli Europei in generale erano imbevuti di una culturale secolare fatta di letteratura e arte sommamente oscure e drammatiche. Dall'Edipo Re al teatro elisabettiano fino alla letteratura gotica, certi temi macabri e oscuri ne sono sempre stati una costante, segni fascinatori di materializzazione dell'inconscio. Shakespeare, Marlowe, Blake, Dorè, Byron, Milton, Shelley, Stoker, Fussli, Goya, Durer, Dante, Bosch, Goethe, Hoffman, Meyrink: scrittori ed artisti che hanno messo su carta o tela le proprie visioni decadenti, gotiche o gotico-romantiche, propiziando e ispirando quelle che i gruppi del dark sound avrebbero poi trasposto su spartito. E preparando tra l'altro il terreno per la nascita e lo sviluppo del doom.
Dimostrazione ne è che, rispetto a quello americano, da sempre più grezzo e genuinamente rock, il doom europeo è sempre stato caratterizzato da un'eleganza e da un romanticismo maggiori, conseguenza delle forti connotazioni letterarie e in parte anche della discendenza dalle oscure sonorità hard e prog dei '70. Se tale discendenza è fatto fin troppo noto con riferimento ai Cathedral, il discorso è legittimamente estendibile anche agli epici Candlemass e ai gotici My Dying Bride, Anathema e Paradise Lost.
Ed è proprio con le forme del doom di ispirazione sabbathiana - oltre che del progressive rock - che il dark sound ha attecchito nel nostro Paese.

 

IL GOTICO ITALIANO NEI FUMETTI, ALLA TV E AL CINEMA
Come nel caso del dark sound inglese, però, anche per raccontare l'Italia "gotica" del rock occorre allargare il discorso ad accadimenti culturali e sociali che hanno interessato il Belpaese negli anni '60 e '70 e che hanno contribuito a creare ed alimentare un clima dark tutto proprio.
Detto delle origini nobili (ossia letterarie) di quel gusto per il macabro e l'oscuro che di certo non ci mancano (a maggior ragione per via di profonde radici culturali che ci legano alle antiche civiltà del mediterraneo, da cui abbiamo ereditato non solo l'arte, ma anche le superstizioni e il culto dei morti), importanti sono anche quelle meno nobili, a volte inquadrabili in veri e propri fenomeni di costume.
Allo shock per il massacro di Beverly Hills di cui fu protagonista Charles Manson, segue la presa di coscienza dell'esistenza di un mondo sotterraneo di violenza e orrore che sembra dovere esplodere in tutta la sua virulenza. Anche in Italia i fatti di cronaca nera si fanno sempre più efferati, attirando la curiosità morbosa delle masse, soddisfatta da riviste che ne raccontano i minimi dettagli. Basti pensare alla grossa eco avuta dalla strage del Circeo e dai misfatti della banda di Vallanzasca e della Magliana, tra gli altri. Tutto ciò si riflette in un cambiamento importante, persino in ambiti legati all'intrattenimento.

Già a metà degli anni '60 si assiste all'affermazione del fumetto nero e violento coi vari Diabolik, Kriminal, Satanik e Sadik (spesso oggetto di censura), al successo editoriale dei primi fumetti del terrore (con "Le spiacevoli notti di Zio Tibia" pubblicato nella collana Oscar Mondadori, contenente i famosi EC Comics dei '50, e col mensile Horror, il cui sottotitolo recitava "terrore, magia, incubo, mistero"), oltre che all'introduzione di storie e personaggi tenebrosi anche nelle collane solitamente sobrie di Tex e Zagor.
Pur nella sua pochezza artistica, Diabolik è una figura cardine del cambiamento di cui sopra: il protagonista non è infatti un eroe immacolato, ma un ladro dai modi freddi e con al seguito una compagna altrettanto letale. E' la nascita del fumetto “per adulti”, condito da situazioni limite che sconvolgono i moralisti. La spallata finale viene però dalla coppia Magnus & Bunker (al secolo Roberto Raviola e Luciano Secchi), che amplificano la portata rivoluzionaria introdotta dal personaggio delle sorelle Giussani creandone un paio che di più negativi non si può. Il primo è Kriminal, un assassino fasciato da una tuta che è già un presagio di morte. Kriminal uccide deliberatamente (soprattutto donne discinte) anche quando potrebbe evitarlo, e uccide nei modi più cruenti possibili, strangolando le sue vittime o accoltellandole. D'altronde è figlio della società in cui agisce, un mondo sordido in cui si muovono figure altrettanto malvagie, tese a soddisfare i propri bisogni di potere e ricchezza o torbide voglie sessuali.
Proprio gli ammiccamenti al sesso, piuttosto che la sua esplicita rappresentazione, abbattono gli ultimi tabù sulle pagine di Satanik, sempre a firma Magnus & Bunker: si tratta di una strega orripilante che grazie ad una pozione magica riacquista bellezza e giovinezza, armi che usa per sedurre le sue vittime e condurle alla morte. Anticipatrice della stagione del fumetto horror italiano dei '70 e propiziatrice di pellicole come "Il plenilunio delle vergini" o "Nuda per Satana" (con nudi abbondanti e bagni nel sangue!), Satanik è non solo una dark lady di prim'ordine e parente non troppo lontana della contessa Bathory, ma anche il simbolo della liberazione sessuale dalle catene morali del passato. La violenza che affiora da queste pagine secondo i più classici canovacci pulp è ovviamente una violenza catartica; nonché la diretta conseguenza della fine della crisi del dopoguerra e l’inizio di un crescente boom economico: insieme ad un benessere generalizzato vengono sempre fuori cattive pulsioni fino a prima sopite…
Inutile sottolineare come il fumetto nero sia legato a doppio filo col cinema di genere in un rapporto osmotico destinato a durare nel tempo. L'exploit del cosiddetto "poliziottesco" con le pellicole crude di Umberto Lenzi, Sergio Martino e tanti altri ottimi artigiani, contribuisce a rimarcare il concetto. Proprio Lenzi porta Kriminal sullo schermo (con risultati deludenti, a dire il vero), ma prima ancora era toccato a Sadik, e dopo sarebbe stata la volta di Diabolik (diretto dalla mano esperta di Mario Bava) e della stessa Satanik. Anche il "poliziottesco" non fa altro che esasperare situazioni violente di cronaca nera (rapine a mano armata, stupri, sevizie, torture, omicidi a sangue freddo di donne e bambini) che la stessa critica del tempo definisce inverosimili e che oggi non lo sono più di tanto. Roba da far impallidire i Natural Born Killers americani di Oliver Stone di 20 anni dopo, e che indubbiamente rivela come in Italia si stesse affermando un certo qual gusto per situazioni e personaggi truculenti.
Con l'interesse sviluppatosi all'inizio dei Settanta per i fenomeni magici e parapsicologici, il fumetto dark diventa assoluto protagonista di un boom editoriale senza precedenti, soprattutto nel momento in cui l'horror viene mischiato all'erotismo, così come accade anche al cinema. A stabilire un certo standard grafico e contenutistico è innanzitutto Jacula, una rivisitazione al femminile del mito di Dracula. Poi è il turno di Oltretomba, Zora La Vampira, Lucifera, Sukia, Cimiteria, Yra, Belzeba e mille altri personaggi di strisce di successo (anche all'estero) stampate su carta povera e su cui hanno mosso i primi passi artisti come Leone Frollo e Milo Manara.
Rispetto alla Vampirella americana, le cugine italiane sono molto più disinibite, anche se a turbare ancora oggi non sono i seni e le natiche generosamente al vento, quanto le numerose metafore sessuali rappresentate nei loro albi attraverso scene a dir poco sanguinarie, come quelle degli impalamenti di belle donzelle che abbondano nelle pagine di Lucifera.

Teorizzare che questo tipo di atmosfera e di estetica abbia colpito parecchi e abbia contribuito a delineare un immaginario dark e gotico tutto italiano poi riflessosi nel rock non è affatto azzardato. Nonostante che le maschere indossate all’inizio omaggiassero i classici mostri della letteratura ottocentesca, i Death SS si sono sicuramente cibati di quelle influenze e - ancora prima - persino un outsider come Antonio Bartoccetti non ne è rimasto immune, tanto da chiamare il proprio gruppo Jacula e omaggiare Zora nel titolo dato al secondo lavoro di Antonius Rex. In entrambi i casi le copertine degli album sembrano rubate a due numeri di Oltretomba.
Anche la TV ha fatto la sua parte, proponendo telefilm violenti, oppure sceneggiati dalle ambientazioni sinistre e storie di sette sanguinarie dedite a misteriosi riti. Nel primo caso ricordiamo i gialli del Tenente Sheridan o de “Il Triangolo Rosso”, molto più cruenti di quelli di oggi; nel secondo caso c’è solo l’imbarazzo della scelta. Se i capostipiti sono le produzioni francesi "Belfagor, il fantasma di Louvre" (di Claude Barma, 1963) e "I Compagni di Baal" (di Pierre Prevért, 1968; sarà anche il titolo del prossimo album de L'Impero delle Ombre), entrambi tratti dagli omonimi romanzi di Arthur Bernède e trasmessi con successo dalla RAI, il più importante contributo in terra italica giunge da svariate serie e film per la TV firmati da Daniele D'Anza. Da "Ho incontrato un'ombra" del 1974 (storia di un giovane grafico alle prese con un misterioso individuo che in sua assenza gli entra in casa e gli lascia un cadavere) a "L'amaro caso della baronessa di Carini" del 1976 (un intreccio di gelosia e vendetta durante il dominio borbonico), con particolare menzione per il capolavoro "Il Segno del Comando" (1971, con Carla Gravina, Ugo Pagliai e Rossella Falk, da un romanzo di Giuseppe D'Agata), che narra della ricerca di un potente talismano "in una Roma magica e arcana", come è scritto nelle note di copertina del primo lavoro dell’omonima band italiana. È il primo, fortunato tentativo di introdurre il tema del paranormale presso il grande pubblico televisivo, e “Ritratto di donna velata” (diretto da Flaminio Bollini nel 1975) ne riprenderà qualche anno più tardi il tema principale.

Il cinema, d'altro canto, ha fatto anche di più, raggiungendo invidiabili vette artistiche. Affrontando temi molto forti come necrofilia e sadismo (fino al cannibalismo del filone ben rappresentato dal tremendo “Cannibal Holocaust” di Ruggero Deodato), l’horror italiano non solo si distanzia da quello straniero caratterizzandosi dunque autonomamente, ma soprattutto crea disagio e scompiglio tra le certezze borghesi dello spettatore. Sono da ritenersi fondamentali, a questo proposito, le pellicole del terrore e dell'orrore firmate già nei '60 da Giorgio Ferroni (“Il mulino delle donne di pietra”), Riccardo Freda (“L’orribile segreto del Dottor Hichcock”), Mario Bava (tra gli altri, “La frusta e il corpo”, “La maschera del demonio” e “I tre volti della paura”). E poi quelle di Lucio Fulci (da “Sette note in nero” alla trilogia "Zombie 2/Paura nella città dei morti viventi/L'aldilà... E tu vivrai nel terrore") e Dario Argento, che in “Profondo Rosso” peraltro evidenzia magistralmente l’esistenza di correnti magico-esoteriche che attraversano Torino. Ma andrebbe citato anche il Pupi Avati de "La casa dalle finestre che ridono", per la capacità di immaginare una provincia italiana, apparentemente bonaria e sonnolenta, che cova però orrori e segreti indicibili.
Pellicole fondamentali, si diceva, e non soltanto per il talento visionario degli autori. Una parte rilevante del loro successo viene infatti  determinato - e qui ci ricolleghiamo alla musica - dalle colonne sonore realizzate da maestri come Ennio Morricone, Fabio Frizzi, Roberto Nicolosi, Riz Ortolani, Bruno Nicolai, Giorgio Gaslini. A questo proposito, fa davvero piacere notare come tuttora quella lezione impareggiabile di estro compositivo, atmosfere oscure e pura sperimentazione sia ancora considerata avanguardia da gente come Mike Patton, che per la sua Ipecac Records ha pubblicato di recente una raccolta intitolata “Crime And Dissonance”, con brani firmati Morricone e tratti da film come "Una lucertola con la pelle di donna", "Gli occhi freddi della paura", "L'uccello dalle piume di cristallo", “L’Anticristo”, "Il gatto a nove code" e "Il serpente".
Altrettanto grande è il merito dei formidabili Goblin, che però è più corretto inquadrare nel contesto hard rock e prog italiano di quegli anni.

 

LA GRANDE STAGIONE DEL PROG ITALIANO
Curioso come spesso dei Goblin non vi sia traccia nelle guide dedicate al progressive, che pure si soffermano con dovizia di particolari sulla grande stagione del prog italiano dei Settanta. E dire che la band muove i primi passi in quel contesto, ispirata dai modelli di allora: King Crimson, Genesis, Yes, Gentle Giant, EL&P. Le prime composizioni risalgono al 1973 e ottengono il plauso di Eddie Odford (allora producer degli Yes), cosa che spinge il nucleo del gruppo – composto da Claudio Simonetti, Massimo Morante e Fabio Pignatelli – a trasferirsi a Londra in cerca di fortuna. Una volta assoldato il cantante Clive Haynes e scelto il nome di Oliver,  però, è già tempo di tornare a casa: la solita storia dei pochi fondi disponibili. In Italia cambiano nome in Cherry Red e mentre attendono che la Cinevox pubblichi il loro debutto vengono spesso chiamati a suonare e arrangiare importanti colonne sonore sotto la sigla di Goblin (in modo da differenziarne la produzione da quella dei Cherry Red). È così che per loro si aprono nuovi orizzonti. Il fatto di doversi cimentare con musiche da associare alle immagini rispondendo all’esigenza di essere il più possibile descrittivi e immaginifici, infatti, ne modifica l’approccio alla materia prog, adesso incanalata lungo binari decisamente sperimentali, a tratti persino avantgarde.
Nel 1975, per la colonna sonora di “Profondo Rosso”, agiscono sotto la supervisione di Giorgio Gaslini e compongono 29 minuti di musica: si tratta solo di un banco di prova voluto dal regista Dario Argento (tutto viene composto e registrato nel giro di pochi giorni), ma finisce per vendere milioni di copie in tutto il mondo.
Il capolavoro “Suspiria” (1977, preceduto un anno prima dall’ottimo “Roller”, che non è una soundtrack ma verrà ugualmente saccheggiato di lì a poco) li consacra definitivamente e contribuisce enormemente a definire i contorni di un gusto “dark” musicale tutto italiano, aiutato dalla potenza visionaria dei film di Argento.
Se la storia prog dei Goblin è decisamente atipica, non lo è quella di svariate altre formazioni del Belpaese che (più o meno consapevolmente) hanno convogliato uno spirito oscuro nella propria musica. D’altronde, era prevedibile che – in un contesto prog ampio e importante come quello nostrano – vi fossero anche musicisti appassionati dei Sabbath e di altri maestri inglesi del rock più duro e gotico.
Tra gli altri meritano di essere menzionati i Biglietto Per L’Inferno del flautista-cantante Claudio Canali (che oggi vive da eremita in un monastero), autori di un unico album omonimo pubblicato dalla Trident nel 1974 e passati alla storia anche per via di concerti incendiari, immortalati su numerosi bootleg.
Diversa sorte tocca ai Rovescio Della Medaglia, che danno alle stampe tre album. Il più interessante risulta essere il primo, “La Bibbia”, un concept del ‘71 registrato in presa diretta e che ripercorre la storia della creazione, partendo dal “Nulla” e concludendosi con il “Diluvio”. Si tratta di grandi brani di hard progressivo incentrati sulle prodezze tecniche del chitarrista Enzo Vita, in grado di sopperire egregiamente alla mancanza di keyboards (strumento simbolo della musica prog). Quasi in chiusura del disco esplodono i lugubri riff della lunga “Giudizio Avrai”, di cui vent’anni dopo i The Black proporranno una mirabile cover doom in seno al loro album più sacrale, “Golgotha”. Inevitabile dunque il parallelismo tra quel prog settantiano e quanto proposto da formazioni dei nostri giorni, che dimostrano di essersi abbeverate a quella fonte non solo in termini musicali, ma anche d’ispirazione lirica.
Avanguardiste erano invece le visioni di Pholas Dactylus, Jacula e Antonius Rex. I primi ne offrirono un saggio nell'unica opera data alle stampe: "Concerto Delle Menti" (1973). Un album che si inserisce in un solco ben preciso, quello prog del periodo, ma presentando elementi di grande originalità. A partire dai testi recitati, a metà tra la riflessione interiore e il volo metafisico, che si innestano perfettamente nella scansione musicale, determinando la creazione di un amalgama narrativo trascinante e d'impatto.
Meritano invece una trattazione più approfondita Jacula e Antonius Rex, senza dubbio i gruppi italiani a cui più d'ogni altro si deve l'esistenza di un dark sound nostrano. Ad essi dedichiamo ampio spazio in altra parte della rivista. Aggiungiamo solo che - se giustamente qualcuno potrà faticare a considerarli parte del movimento dark prog di oltre 30 anni fa - va comunque ammesso che esso ha creato il clima adatto alle loro creazioni, che ancora oggi suonano attuali, se non addirittura aliene ed assolutamente originali.

 

 

 

GLI ANNI '80: DEATH SS E PAUL CHAIN
Se le band di Antonio Bartoccetti, Jacula e Antonius Rex, costituiscono l’esempio più alto e rappresentativo di un dark sound autoctono totalmente fuori dai canoni stilistici dei gruppi inglesi dei ’70, quelli italiani che negli anni ’80 ne continuano l’opera sono allo stesso modo difficilmente inquadrabili nell’ambito di correnti musicali tipiche dell’epoca.
Mentre la nascente NWOBHM detta nuovi standard musicali, al suo interno c’è anche chi torna alle più pure e genuine forme di rock duro del decennio precedente, riscritto alla luce della rivoluzione punk, ma invariato nella sostanza. Nei dischi di Angel Witch, Witchfinder General, Witchfynde, Mercyful Fate e Demon torna quindi a galla il fascino oscuro dei Black Sabbath e dei loro contemporanei. Ne vengono riproposte le atmosfere occulte e decadenti che, tradotte attraverso il nuovo linguaggio metal, porteranno poi alla definizione del doom, a cui nella seconda metà degli ’80 Saint Vitus, Trouble e Candlemass daranno dignità di stile a se stante.
Anche in Italia il punk prima e la NWOBHM poi fanno piazza pulita del vecchio rock. Già nel ’77, dalle frequenze di una radio indipendente di Pesaro, il giovane Steve Sylvester trasmette i suoni più radicali del momento. Incontrato il chitarrista Paul Chain, Sylvester realizza un sogno: formare una band nella quale far confluire le sue passioni, in parte condivise con l’amico: quelle per il cinema e i fumetti del terrore, per l’occultismo, per la magia nera e per una musica che fosse quanto più possibile iconoclasta, scioccante e violenta.
Prendono quindi forma i Death SS, impregnati di simbolismo esoterico sin dal moniker (per esteso, “In Death Of Steve Sylvester” simboleggia la morte del vecchio Steve e la sua rinascita con una nuova consapevolezza). I travestimenti del glam rock che il musicista ascolta assiduamente vengono così rivisti in ottica dark-horror (unico precedente in Italia, quello de I Corvi, gruppo beat dei ’60 con abiti vampireschi), e le maschere scelte non potevano non essere quelle dei mostri della letteratura ottocentesca immortalati nelle pellicole della Hammer: il vampiro (lo stesso Sylvester), che si nutre della linfa vitale dell’umanità intera, con tutto il corollario simbolico legato al fluido rosso; l’uomo lupo (Thomas Chaste, batteria), che incarna lo “human beast”, la parte animale dell’animo umano; la mummia (Danny Hughes, basso), evocatrice di un passato morto e sepolto; lo zombie (Claud Galley, chitarra), ossia l’uomo medio – come nella poetica del regista George Romero – tornato dalla morte per vendicarsi di una vita miserabile. E infine la morte, impersonata da Paul Chain, che della band è insieme a Sylvester l’anima musicalmente più colta.
I primi concerti risalgono al 1980, occasioni in cui il concept dei Death SS si manifesta in tutto il suo estremismo: il gruppo suona immerso in un macabro scenario fatto di pietre tombali, teschi e sudari, e durante lo show lancia verso il pubblico carne marcia, ossa umane e sangue vero. Sylvester e soci anticipano di parecchio e superano in crudezza persino i blackster Mayhem (ed anche i Mercyful Fate, che debutteranno un paio d’anni dopo), ma il loro vuole essere qualcosa di diverso da una trovata scenica (per quanto sentita) a beneficio dei più impressionabili. Piuttosto, si tratta dell’allestimento di un macabro spettacolo circense, un teatro grand-guignolesco in cui ogni gesto è arte e allegoria.
Musicalmente, poi, l’accoppiata Sylvester/Chain segna pesantemente un’epoca grazie a brani di incandescente hard rock “metallizzato” arricchito da samples tratti da film horror; brani dalla forte impronta doomy, solcati da atmosfere sinistre e sepolcrali in capolavori riconosciuti come “Horrible Eyes”, “Terror”, “Zombie”, “Cursed Mama” o “Buried Alive” (contenuti nella splendida raccolta “The Horned God Of The Witches”, che mette in fila tutte le registrazione effettuate dalla line-up originale tra il 1979 e il 1982).
Non mancano ovviamente le atmosfere care al dark sound inglese di marca Seventies (a farsene carico sono soprattutto le keyboards e i riff di Paul Chain), ma filtrate attraverso una sensibilità tutta propria, e persino dopo lo scioglimento prematuro e  il conseguente ritorno sulle scene con line-up rinnovata (senza Chain), la band di Steve Sylvester continua ad omaggiare quelle vecchie formazioni. Sebbene gli album successivi suonino heavy metal in modo più convenzionale, in brani come “Welcome To My Hell” e “Black Mass” (con recitativi, aperture acustiche e inserti di sax) i Death SS praticano chiaramente la stessa magia dei primi e più affascinanti Black Widow, quelli di “Sacrifice”. Un album che Sylvester stesso considera il più bello di tutti i tempi e del quale ha finito per interpretare in modo superbo le canzoni-simbolo, “In Ancient Days” e “Come To The Sabbat”: “Fu amore al primo ascolto,” scrive l’artista nelle note del disco-tributo 'King Of The Witches'. “In seguito cercai di documentarmi tra gli amici più ‘anziani’ su questa fantastica band, e scoprii con piacere altri punti in comune tra il sestetto di Leicester ed i miei Death SS: l’abbinamento di musica e teatro e la sincerità e autenticità con cui venivano trattati gli argomenti esoterici, cosa che non avevo mai riscontrato prima in altre e più blasonate band del cosiddetto ‘dark sound’.”

Sylvester non era comunque il solo appassionato di suoni dark prog e horror. Risale infatti al 1985 il seminale "Land Of Mistery", debutto sulla lunga distanza dei veronesi Black Hole, band devota al culto di Black Sabbath e High Tide sin dalla fine del 1981, anno della fondazione ad opera del cantante/bassista/tastierista Roberto "Measles" Morbioli. L'album, che contiene lo stesso materiale di un demo del '84 intitolato "Beyond The Gravestone", è frutto di un periodo travagliato in cui la line-up della band viene più volte modificata dal leader, insoddisfatto del contributo dei compagni. La stabilità è raggiunta solo con l'ingresso del chitarrista David McAllister, che affianca Steve "Fox" Bianchini (chitarra) e Luther Gordon (batteria). Ma è troppo tardi: lo scioglimento è dietro l'angolo, e il materiale composto nel 1988 per il secondo studio-album "Living Mask" resterà inedito fino al 2000, quando l'Andromeda Relics lo riporta alla luce insieme al culto dei Black Hole, che hanno infine vinto la loro battaglia contro il destino.

 

Se nell’evoluzione di un rock gotico italiano i Death SS rappresentano l’anello di congiunzione tra dark sound anni ’70 e heavy metal, Paul Chain è quello che ne ha intrecciato la trama col doom. Maestro riconosciuto del genere, osannato anche all’estero al pari di icone come Wino, Dave Chandler e Bobby Liebling, il prodigioso chitarrista debutta in proprio sotto le insegne del Violet Theatre con l’EP “Detaching From Satan”. L’album segna appunto un distacco dalle tematiche diaboliche care ai Death SS e rielabora buona parte della poetica di Chain in chiave occulto-esoterica, con meno enfasi sulla spettacolarità e maggiore profondità spirituale.
Scrive Chain nelle note di copertina: “Questo disco è il primo di una serie e segna l’evoluzione di Death SS in Violet Theatre o meglio l’abbandono del satanismo ritenuto da noi ora una inferiore e futile ideologia. Il concetto principale su cui è impostato il Violet Theatre è l’antica filosofia della morte o magia viola, di cui io sono da sempre più o meno inconsciamente un cultore fedele. Paul Chain Violet Theatre è una continua ed evolutiva ricerca nel dark”.
Importante corollario ad una tale dichiarazione d’intenti è la scelta di cantare utilizzando un linguaggio puramente fonetico, piuttosto che l’Inglese o l’Italiano, in modo da aumentare l’impatto visionario della musica e allo stesso tempo creare uno stile senza precedenti, che una volta di più evidenzia il carattere unico e individualista del dark sound italiano.
Sebbene ogni sua opera porti le stimmate dell’originalità e della sperimentazione, Paul Chain tocca il vertice massimo della sua arte doom alla fine degli ’80 con “Life And Death”, meraviglioso affresco di musica heavy che ne mette in mostra l’inarrivabile maestria nell’uso della sei-corde, sapientemente incastonata in suggestive cornici di Hammond B3 e interludi acustici memori dei primi Black Sabbath. Nel 1995, invece, tocca allo splendido “Alkahest” intrecciare per sempre i destini del moderno dark sound italiano alla musica doom, sposando la tradizione gotica nostrana con quella inglese rappresentata dalla voce-ospite di Lee “Cathedral” Dorrian.
Un matrimonio lungamente atteso, finalmente consumato e che – in un momento in cui il rock anni ‘70 si appresta ad essere celebrato dalle band stoner – contribuisce a creare nuovo entusiasmo verso quella materia e a fare del doom il veicolo privilegiato del dark sound verde, bianco e rosso.

 

 

 

GLI ANNI ’90: IL MORSO DELLA VEDOVA NERA
Oltre agli artisti sin qui citati, a cui per dovere di completezza andrebbero aggiunti almeno i Mortuary Drape, saldamente ancorati a stilemi black-thrash, ma con espliciti richiami horror rock e doom (come nei macabri mini-LP degli inizi, "Into The Drape" e "Mourn Path"), a traghettare il rock gotico italiano dagli anni ’80 ai ’90 è stata anche e soprattutto una label di Genova, la Black Widow Records, etichetta anti-trend per eccellenza, che negli anni ha funzionato da antenna in grado di captare e diffondere nel mondo i segnali lanciati dall’underground italiano dark’n’heavy. A loro si devono ad esempio tre opere assolutamente fondamentali per delineare la geografia culturale e non del dark sound italiano: il tributo ai Black Widow “King Of The Witches” (con Death SS, The Black, Abiogenesi, Malombra, Presence e Standarte) e soprattutto le splendide raccolte “Not Of This Earth” e “…E Tu Vivrai Nel Terrore” (corredati da importanti saggi e libretti riccamente illustrati), che intrecciano i percorsi del cinema di fantascienza e dell’orrore con quelli del rock.

 

Scorrere la discografia della Black Widow significa imbattersi nelle più importanti realtà rock italiane; a cominciare dalle ristampe di Jacula/Antonius Rex e dagli Zess dell’album-fantasma “Et In Arcadia Ego”, gioiello dark doom registrato negli ’80, ricercato ed elogiato dall’esperto Lee Dorrian, ma pubblicato solo di recente. Il disco ha peraltro permesso di fare chiarezza sulla genesi di un altro dei fiori all’occhiello della Black Widow, i Malombra, che rubano il nome ad un romanzo di Fogazzaro in cui una donna crede di essere la reincarnazione di un'antenata, che impazzita aveva ucciso un giovane scrittore innamorato di lei. Guidata come nel caso dei Zess dalla voce gotica e intrisa d’eco di Mercy, la band debutta con un album omonimo che porta le stimmate di opera dark a tutto tondo. Non solo doom e scampoli di prog rock settantiano (“Still Life With Pendulum” nelle liriche cita Camel e Robert Fripp e nel titolo ricorda noti protagonisti della stagione progressive), ma anche testi poetico-esoterici e importanti tracce di new wave e gothic propriamente detto. Come d’altronde anche nel successivo e più maturo “Our Lady Of The Bones” e nel metallico “The Dissolution Age”, in cui la cifra stilistica dei Nostri si evolve ulteriormente.


Mercy è al timone anche di un’altra formazione cardine del dark sound italiano, Il Segno Del Comando, che ancora più palesemente abbraccia la tradizione gotica nazional-popolare rubando il nome al famoso sceneggiato TV di Daniele D’Anza. Il primo lavoro de Il Segno Del Comando è un rock album dall’architettura dark-prog che racconta in musica la storia di D’Anza (ma lo strumentale “Ritratto di Donna Velata”, si riferisce ad un altro serial televisivo altrettanto influente), mentre il secondo “Der Golem” si arricchisce di nuove sfumature, complice un concept letterario che – come per l’omonima opera di Meyrink – prende le mosse dalla figura del gigante d’argilla della tradizione ebraica per tuffare l’ascoltatore nei misteri di Praga, simbolo di una cultura mittle-europea oscura come la sua storia nel secolo scorso.
Se in seno al roster della Black Widow gli Standarte costituiscono l’ala più puramente progressive, negli Abiogenesi di Tony D’Urso è da sempre fortissimo i legame con un immaginario cinematografico gotico e dell’orrore tipicamente italiano. Il gruppo vi aggiunge una sottile quanto penetrante vena malinconica che emerge anche nel recente “Io Sono Il Vampiro” (parzialmente utilizzato da Max Ferro come colonna sonora del suo film “I Am A Vampire”), in cui peraltro è sottolineata la passione viscerale per maestri come Black Widow e Uriah Heep attraverso ispirate cover.


Porta il marchio dell’etichetta genovese anche la maggior parte della produzione di The Black, la band dello straordinario chitarrista Mario Di Donato. Già negli anni '80 l'artista aveva consegnato alla scena metal italiana importanti testimonianze discografiche, prima con gli Unreal Terror e poi coi favolosi Requiem, che prima di lasciare spazio ai The Black ebbero il tempo di pubblicare il full "Via Crucis", grande esempio di sulfureo doom metal alla maniera di Paul Chain, Angel Witch e della NWOBHM più sabbathiana. Di Donato merita di rappresentare il legame da sempre esistente tra rock e pittura. Sue infatti le copertine di tutti i dischi dei The Black, tratte da tele che l’artista espone regolarmente in Italia e all’estero. La sua è una poetica naif che si traduce in dipinti ispirati tanto alla tradizione religiosa cristiana (vedi i temi dell’apocalisse e dei sette peccati capitali affrontati rispettivamente in “Apocalypsis” e “Peccatis Nostris”), quanto alle credenze popolari e alle superstizioni della terra natia, l’Abruzzo (l’album “Capistrani Pugnator”, ad esempio, si ispira al mistero di una statuetta del secolo dalle forme indecifrabili rinvenuta da quelle parti).
Musicalmente affini alla proposta di Paul Chain, The Black si esprimono con un linguaggio doom/heavy rock dalle chiare tendenze prog, come dimostrato in “Golgotha”, disco che ai fini della nostra indagine merita una menzione particolare. Avvolto in dipinti che illustrano la crocifissione e la deposizione di Cristo, affronta il tema della fede, del dolore e della redenzione attraverso brani originali e cover che in un contesto del genere si arricchiscono di nuovi significati mistici. È il caso de “Il Giudizio”, scritta e proposta nei ’70 dai Rovescio Della Medaglia, e soprattutto di “Sospesa A Un Filo”, hit dei già citati Corvi nei ’60 e a sua volta rifacimento della mitica “I Had Too Much To Dream (Last Night)” a firma The Electric Prunes.

 

Tra i nuovi arrivi alla corte della Black Widow vanno infine segnalate due band che a modo proprio hanno affrontato il tema della morte e dell'oltretomba: gli Areknames, autori di due album che omaggiano l’occult rock inglese di High Tide e Black Widow e il prog oscuro dei Van Der Graaf Generator; i seminali Abysmal Grief, menestrelli di morte in un album omonimo in cui stringono in un abbraccio letale doom, horror rock e fascinazioni per l'occulto e l'aldilà, ma senza scivolare nei cliché del gothic; e infine L’Impero Delle Ombre dei fratelli Giovanni e Andrea Cardellino, capaci di sintetizzare con sapienza le varie anime del dark sound nostrano, da quella prog a quella doom, con testi in Italiano ricercati e passionali quanto le fughe di chitarra e di organo che si possono ascoltare nel bellissimo disco d’esordio. In questi solchi sta l’eredità di un cultura rock italiana, il seme di un suono dark assolutamente autoctono lontano dai trend e dai modelli importati dall’estero.

 

 

 

INTERVISTE

ANTONIUS REX - Intervista ad Antonio Bartoccetti e Doris Norton
ZESS - Intervista a Mercy
THE BLACK - Intervista a Mario Di Donato
L'IMPERO DELLE OMBRE - Intervista a Giovanni Cardellino
ABIOGENESI - Intervista a Tony D'Urso
ABYSMAL GRIEF - Intervista a Regen Graves
BLACK WIDOW RECORDS - Intervista a Massimo Gasperini e Alberto Santamaria

 

70'S DARK SOUNDS:

 

LA STORIA DI JACULA E ANTONIUS REX

 

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