Riina e il covo
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Da " Il Tempo " di Mercoledi 4 maggio 2005

«Riina, perquisire il covo inguaiava pezzi grossi»


di ROSANNA LI MANDRI



PALERMO — Un terremoto, roba da far saltare le poltrone ai piani alti dello Stato. Parola di Giusy Vitale, ex boss in gonnella, che ha affermato: «Se si fosse fatta la perquisizione nella villa di Totò Riina dopo il suo arresto ci sarebbe stato il finimondo. C'erano documenti che avrebbero potuto rovinare uno Stato intero». La Vitale ha parlato della mancata ispezione al covo del padrino in due interrogatori condotti dai pm della Dda di Palermo il 25 febbraio e il 9 aprile scorso e depositati ieri nel corso della prima udienza del processo che vede alla sbarra, accusati di favoreggiamento aggravato nei confronti di Cosa nostra, il prefetto Mario Mori, direttore del Sisde, allora vice comandante dei carabinieri del Ros, e il tenente colonnello Sergio De Caprio, il "capitano Ultimo" che arrestò Riina.
Ad informare la boss della vicenda sarebbe stato il fratello Vito, allora latitante con Giovanni Brusca. Da lui la Vitale avrebbe appreso che i segreti custoditi nel covo del padrino sarebbero rimasti tali: un sollievo per la mafia e, pare, anche per alcuni esponenti delle nostrane istituzioni. Racconta la collaboratrice: «Mio fratello mi disse che nella villa di via Bernini c'erano abbastanza cose da compromettere persone importanti dello Stato. Gli chiesi come mai non erano intervenuti nel covo e mi disse: le vie del signore sono infinite».
Un "mistero" da chiarire. Ieri, nel corso della prima udienza del processo a Mori e De Caprio, il pm Antonio Ingroia, che rappresenta l'accusa con Michele Prestipino, ha detto di volere fare chiarezza su ciò che accadde dopo la cattura di Riina e sul perché venne sospesa l'attività di osservazione, «nonostante - dice - fossero state date assicurazioni che sarebbe proseguita».
Il pm ha poi letto l'elenco dei testimoni. Tra questi la Vitale, Giancarlo Caselli e Vittorio Aliquò, alcuni pentiti, cronisti e militari. Ieri Mori era in aula. De Caprio non si è presentato e il presidente del tribunale, Raimondo Lo Forti, lo ha dichiarato contumace. Il difensore di "Ultimo" aveva chiesto che il processo si svolgesse a porte chiuse o che fosse consentita la partecipazione del suo assistito in videoconferenza. Istanze respinte. In sintesi, visto il ruolo degli imputati ha vinto il diritto di cronaca.

Reuters

Palermo, al via processo Mori e "Ultimo".Fra testi anche Caselli

PALERMO (Reuters) - E' iniziato oggi davanti alla terza sezione penale del Tribunale di Palermo il processo per favoreggiamento aggravato di Cosa Nostra, a carico del prefetto Mario Mori, direttore del Sisde, e del "capitano Ultimo", con la presentazione da parte di pm di una lunga lista testi che comprende anche l'ex procuratore capo di Palermo, Giancarlo Caselli.

Il processo a carico di Mori e "Ultimo", noto investigatore antimafia, aveva provocato aspre polemiche politiche nei confronti del giudice che stabilì il rinvio a giudizio, anche perché la stessa procura aveva chiesto il loro proscioglimento.

Il direttore del Sisde e il tenente colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, che allora agiva col nome in codice di "Ultimo", furono rinviati a giudizio il 18 febbraio scorso dal gup palermitano Marco Mazzeo per non aver perquisito il covo del boss mafioso Totò Riina subito dopo il suo arresto, nel 1993.

I pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino, oggi in aula, avevano chiesto il proscioglimento attribuendo la mancata perquisizione a un'incomprensione fra procura e carabinieri.

I pm, nella loro lista testi, hanno chiesto che vengano ascoltati, oltre all'ex procuratore capo di Palermo, attuale procuratore generale di Torino, Giancarlo Caselli, l'ex procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Aliquò e il generale dei carabinieri Giorgio Delfino

Adnkronos

Palermo. ''Siamo di fronte a un processo senza causale''. Lo ha detto l'avvocato Vincenzo Musco, uno dei difensori del direttore del Sisde, Mario Mori, intervenendo alla prima udienza del processo per la mancata perquisizione del covo di Riina che vede imputati lo stesso generale Mori e il tenente colonnello Sergio De Caprio, accusati di favoreggiamento a Cosa nostra. ''La difesa - ha spiegato Musco che con Pietro Milio difende Mori - dimostrera' che non c'e' stata alcuna intenzione di nascondere o trarre in inganno i magistrati''. E ha aggiunto: ''Che non ci fosse alcun inganno da parte del Ros nei confronti della procura e' dimostrato dal fatto che gli stessi magistrati hanno poi continuato ad affidare deleghe su indagini antimafia molto delicate agli uomini del reparto operativo speciale''. L'avvocato Musco ha ribadito che si tratta di un ''processo singolare'' perche' ''abbiamo gli stessi testi, o quasi, dell'accusa. Non solo. Abbiamo chiesto anche la produzione degli stessi documenti, o quasi''. L'avvocato Milio ha, invece, ripercorso la vicenda del covo di Riina: ''Faremo una ricostruzione delle vicende che portarono alla cattura del boss Riina - ha detto - e della vicenda che malauguratamente ci vede oggi qui a doverci difendere per fatti che riusciremo a chiarire per arrivare alla verita'''. Milio ha sostenuto che ''la villa di via Bernini, in realta', non era il covo di Riina. Anche perche' il pentito Balduccio Di Maggio, quando viene portato a Palermo per indicare i posti dove il boss incontrava i suoi sodali, non cita neppure una volta la via Bernini''

GuidaSicilia , 4 maggio 2005

Aperto il processo a Mario Mori e al ''Capitano Ultimo''

Tra i testimoni dell'accusa il magistrato Giancarlo Caselli e la neopentita Giusy Vitale

Si è aperta ieri, poco prima delle 10.30, davanti alla terza sezione penale del Tribunale di Palermo presieduta da Raimondo Lo Forti, l'udienza del processo in cui il direttore del Sisde, generale Mario Mori, e il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, l'ex ''capitano Ultimo'', devono rispondere di favoreggiamento in relazione alla mancata perquisizione del covo di Totò Riina subito dopo la cattura del boss il 15 gennaio del 1993.
Un processo che si svolgerà a porte aperte, per decisione del collegio giudicante della terza sezione penale, formato oltre che dal presidente Lo Forti, dai giudici a latere Sergio Ziino e Claudia Rosini.

Il generale Mori era presente in aula con il suo difensore, l'avvocato Pietro Milio. Il tenente colonnello Sergio De Caprio, pur essendo all'interno del palazzo di giustizia di Palermo, in avvio di udienza non si era presentato in aula, sempre per ragioni di sicurezza. Il presidente del tribunale a quel punto, lo ha dichiarato contumace, mentre il difensore di De Caprio, Francesco Romito, chiedeva che il processo si svolgesse a porte chiuse, oppure che venisse consentita la partecipazione del suo assistito in videoconferenza.
''Il mio assistito - ha spiegato il difensore - ha un problema obiettivo nel prendere parte al processo: è sottoposto infatti a misure di protezione e per questo motivo bisogna trovare una soluzione che salvaguardi la sua sicurezza''. I difensori di Mori, Pietro Milio ed Enzo Musco, hanno così chiesto al tribunale di vietare l'ingresso in aula delle telecamere. ''Pur riconoscendo che questo è un processo di grande interesse - ha detto Musco - l'interesse per la sicurezza è da considerarsi prioritario''.
Per l'accusa, rappresentata in aula dai pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino, il processo cominciato ieri mattina riveste invece ''un interesse sociale particolarmente rilevante''. ''La cattura di Riina e i fatti ad essa connessi - ha detto Ingroia - sono stati al centro di un vasto dibattito. Non ci sembra che ci siamo i presupposti per accogliere la richiesta di un procedimento a porte chiuse''.
I giudici, dopo una camera di consiglio di una trentina di minuti, ha autorizzato le riprese audio, video e fotografiche, vietando esclusivamente la ripresa degli imputati.

Nella sua relazione introduttiva il pm Antonio Ingroia ha annunciato che l'accusa intende fare chiarezza ''su quel che accadde dopo la cattura di Toto' Riina, sui colloqui tra i magistrati della Procura e gli investigatori dell'Arma, e sulle ragioni che provocarono la sospensione della attività di osservazione sul complesso immobiliare di via Bernini nello stesso pomeriggio del 15 gennaio 1993, nonostante fossero state date assicurazioni ai magistrati di Palermo che invece l'osservazione sarebbe proseguita''.
Ingroia ha poi annunciato che intende provare ''come venne posto in essere da parte degli imputati un comportamento volto ad assicurare che il servizio di osservazione fosse ancora in corso''. Il pm ha sottolineato che nella ricostruzione dei fatti operata dal Gup e dal Pm vi è una unica ''divergenza'', rispetto alla ''valutazione sulle finalità e sulla rilevanza penale delle finalità perseguite dagli imputati''.
Antonio Ingroia ha ricordato che ''il gup ha imposto il procedimento ritenendo che nella condotta degli imputati fosse insito il dolo, e dunque il favoreggiamento a Cosa nostra; su questo punto la procura era giunta a diverse conclusioni''.

La relazione introduttiva è proseguita, quindi, con l'elenco dei testimoni, tra cui i magistrati Giancarlo Caselli, Vittorio Aliquò e Luigi Patronaggio, alcuni pentiti, alcuni giornalisti, e numerosi esponenti dell'arma dei carabinieri.
Il pm ha chiesto l'acquisizione degli appunti manoscritti nei quali l'avvocato generale di Palermo Vittorio Aliquò, (all'epoca dei fatti Procuratore aggiunto) ricostruì lo svolgersi degli eventi successivi alla cattura di Riina. Ingroia ha chiesto, infine, di acquisire al fascicolo il memoriale degli appunti dell'ex sindaco Vito Ciancimino, sequestrati lo scorso marzo a Palermo nella casa del figlio Massimo.

In aula era presente anche Giusy Vitale, la neopentita di Partinico, tra i testi citati dai pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino nel processo. La presenza della collaboratrice di giustizia, sorella dei capi clan del mandamento di Partinico, è stato annunciato in aula dal pm Ingroia facendo riferimento, in particolare, a due verbali resi dalla Vitale il 24 febbraio e il 9 aprile scorsi e già depositati alla difesa come ''attività integrativa di indagine''.
La pentita, sentita dai pm Ingroia e Prestipino il 9 aprile scorso ha riferito di avere appreso dal fratello Vito, allora latitante insieme a Giovanni Brusca, che la mancata perquisizione del covo di Totò Riina venne considerata un ''bene'' da Cosa nostra, in quanto all'interno dell'appartamento erano custoditi ''numerosi documenti ritenuti imbarazzanti per diversi uomini delle istituzioni''.
''Se si fosse fatta la perquisizione nella villa di Totò Riina dopo il suo arresto ci sarebbe stato il finimondo per quello che sarebbe stato trovato. Dentro c'erano documenti che avrebbero potuto rovinare uno Stato intero''. Così ha affermato la boss in gonnella.
Durante un periodo in cui Vito Vitale si era rifugiato nell'abitazione della sorella, a Partinico, la vicenda del covo sarebbe stata ''chiarita'' meglio.
''Mio fratello mi disse - ha dichiarato Giusi Vitale ai pm - che nella villa di via Bernini c'erano abbastanza cose da compromettere persone importanti, che facevano parte dello Stato. Guardando la tv che riportava una notizia su questa mancata perquisizione, chiesi se fosse vero e mio fratello mi disse: 'Eccome se è vera!'. E gli chiesi come mai non erano intervenuti nel covo e mi disse: 'Le vie del signore sono infinite' ''. Oltre alla presenza di documenti nella villa, secondo la pentita, ''c'erano anche oggetti di valore, quadri di pittori importanti e addirittura un pianoforte''.

 

Giorgio Bongiovanni direttore di ANTIMAFIA Duemila

La cattura del capo di Cosa Nostra Totò Riina e la mancata perquisizione del covo dove trascorreva la sua latitanza fanno certamente parte dei tanti misteri d'Italia.
Come si arrivò a catturarlo? Perché la villa di via Bernini non è stata sorvegliata in modo da impedire che venisse ripulita dai vari gregari del boss?
Tutti hanno dato la loro versione lasciando spazio ad ogni tipo di teorema: il complotto, la collusione, la copertura e il semplice malinteso.
Abbiamo indagato e condotto molte interviste che oltre ad aggiungere preziosi elementi, vanno a confermare quanto il Capitano Ultimo ha dichiarato nel libro di Maurizio Torrealta“Ultimo”.

Il capitano dei carabinieri Ultimo, allora parte dei ROS (Raggruppamento operativo speciale), oggi maggiore in servizio al NOE (Nucleo operativo ecologico) e suoi uomini si sono insediati per mesi all'interno del centralissimo mandamento della Noce e per ventiquattro ore su ventiquattro hanno spiato e ascoltato, con l'ausilio dei pochi mezzi tecnici a disposizione, i movimenti degli uomini d'onore legati al boss. E' stata però la giusta intuizione di seguire da vicino i Ganci a portarli dritti al covo di Riina in via Bernini, nel cuore di Palermo. Era proprio in una di quelle ville che si nascondeva "u' zu Totò", lo aveva confermato il tanto discusso collaboratore di giustizia Balduccio Di Maggio che aveva riconosciuto in un filmato di sorveglianza Ninetta Bagarella, fedele moglie del boss, il giardiniere di fiducia e uno dei figli. Sarà lui ad identificare il volto di Riina.

Pronti per entrare in azione, hanno atteso che il capo di Cosa Nostra uscisse di casa con il suo braccio destro e uomo d'onore tra i più fidati, Salvatore Biondino. I due hanno percorso qualche centinaia di metri quando, al primo stop, si sono ritrovati assediati dagli uomini di Ultimo. Li hanno immobilizzati e trascinati alla centrale dei carabinieri di Palermo mettendo così fine ad una latitanza di 25 anni e assestando un duro colpo a Cosa Nostra. Una ricostruzione lineare, un'operazione da manuale. Perfetta. E di routine, per i servizi speciali se non si fosse trattato del boss dei boss.

MISTERO NEL MISTERO
Innanzitutto la villa di via Bernini.
Ultimochiese espressamente ai suoi superiori di non procedere alla perquisizione della casa, voleva prendere anche gli altri: capi di Cosa Nostra e fiancheggiatori, come i Sansone, incensurati e insospettabili prestanome per gli affari miliardari degli appalti.

Ma Ultimo e i suoi uomini hanno smontato di guardia il pomeriggio stesso, lasciando ad alcuni colleghi l'onere di sorvegliare l'abitazione.
Per quel famoso quanto misterioso malinteso tra la procura e i carabinieri però, dopo solo un giorno, la casa viene lasciata incustodita e i soldati di Riina hanno avuto ben 18 giorni a disposizione per svuotare tutto e persino imbiancare i muri.
All'interno anche il vano predisposto per una cassaforte, poteva contenere alcuni dei segreti di Cosa Nostra?

Secondo quanto dichiarato da Ultimo nel libro, per sua esperienza un capo mafia non tiene documenti importanti nello stesso luogo dove risiede con la sua famiglia, piuttosto, al momento dell'arresto, portava nelle tasche alcuni bigliettini con indizi importanti che sono poi passati al vaglio della magistratura di Palermo.
Ma è veramente questo il mistero della cattura di Riina?
Sia durante i primi appostamenti che nei giorni precedenti l'operazione, venne suggerito a Ultimo e ai suoi uomini di spostarsi altrove, e se non fosse stato per una precisa e ferma presa di posizione del capitano, sicuro della pista che avevano seguito fino a quel momento, oggi probabilmente Riina sarebbe ancora latitante.

Chi non voleva che gli uomini del Crimor prendessero il capo di Cosa Nostra? Chi ha voluto depistarlo? Sono forse le stesse persone che garantiscono a Provenzano la sua incredibile latitanza? Sono coloro che hanno fatto sì che Ultimo lasciasse Palermo e si dedicasse ad altro?
A parte la mancata perquisizione sul cui caso sta indagando la magistratura, forse sarebbe il caso di occuparsi anche di rispondere a queste domande, soprattutto se si pensa che tra i vari riscontri e accertamenti effettuati sul campo Ultimo e i suoi avevano documentazioni filmate e registrate che non fanno altro che infittire il mistero nel mistero.
Macchine della polizia entrare nel cantiere di Ganci e fermarsi amichevolmente a parlare in presenza del boss Raffaele e persone scendere da macchine del Ministero di Giustizia di via Arenula e della presidenza della regione Sicilia ed entrare nella macelleria "di famiglia".
Una cosa è certa. Se non sono riusciti ad impedire a Ultimo di catturare Riina, hanno fatto sì che non prendesse Provenzano.

DESTABILIZZAZIONE INTERNA
Secondo le deposizioni dei collaboratori di giustizia Riina aveva uomini infiltrati ovunque ed era in grado di disporre di informazioni molto riservate con un margine di anticipo tale da consentirgli un ampio spazio di manovra.
E' per questo che la sua cattura si è rivelata così imprevista da suscitare dubbi e sospetti tanto nelle istituzioni quanto all'interno Cosa Nostra.
Era preciso intento di Ultimo creare all'interno dell'organizzazione una sorta di destabilizzazione interna per cui non perquisendo la casa di Riina, nei mafiosi si insinuasse il sospetto che qualcuno potesse aver venduto il capo per prenderne il posto.
Salvatore Cancemi, boss mafioso reggente del mandamento di Porta Nuova, oggi collaboratore di giustizia, non appena si fu consegnato ai carabinieri di Palermo, chiese di vedere Ultimo.
Lo voleva avvertire che Provenzano durante una riunione della Commissione aveva dichiarato di aver l'opportunità di prendere il capitano vivo per torturarlo e fargli rivelare come era riuscito a prendere Riina.

Secondo la ricostruzione di Brusca, come riportata nel libro “Ho ucciso Giovanni Falcone” (ediz. Mondadori) a cura di Saverio Lodato, effettivamente si creò all'indomani del blitz un clima di diffidenza tra le varie fazioni interne a Cosa Nostra.
Dice Brusca: "Bagarella pensò subito a Salvatore Cancemi, di cui non si è mai fidato fino in fondo; a me invece, venne in mente Balduccio di Maggio".
Una delle ipotesi più quotate è senza dubbio la possibilità che sia stato Bernardo Provenzano, il suo successore a fare in modo che Riina venisse arrestato. Brusca però non ci crede "Io non credo che Provenzano abbia venduto Riina. Che l'arresto gli abbia fatto comodo, questo sì. Ma che abbia avuto contatti diretti con i carabinieri è una tesi che non sta in piedi".
Per la maggiore Brusca crede alla versione di Ultimo "è una pista autentica. Ecco la ricostruzione a cui credo sino in fondo".

Ma se a indicare la macelleria giusta, secondo Brusca, sarebbe stato il maresciallo Lombardo, Maurizio Torrealta attribuisce al capitano l'intuizione. Quindi Brusca si domanda chi a sua volta potrebbe aver dato il suggerimento a Lombardo. "Una fonte potrebbe essere stata Francesco Lo Jacono di Partinico, amico personale di Provenzano [...] Non era uno a conoscenza di dove si nascondesse Riina, ma era uno che sapeva che, seguendo i Ganci, lo si poteva individuare."
Trame e teorie, collaborazioni e confidenze, tra le solite metodologie d'Italia il parere più autorevole ed affidabile rimane senza dubbio quello del capitano Ultimo e dei suoi uomini.
Oggi l'unica vera domanda da porsi realmente su Riina e Provenzano è, per dirla con Masino Buscetta: "qualcuno ha fatto un nuovo patto con la mafia?"

L'OPINIONE DEL PROCURATORE ROVELLO
Nelle ultime dichiarazioni prima di lasciare il suo incarico di Procuratore generale a Palermo per andare in pensione, Vincenzo Rovello commenta gli eventi più salienti della sua carriera. La cattura di Riina è sicuramente tra i più incisivi.
“Penso che ci sia un filo nero che lega la mancata perquisizione del covo di Riina, il maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo e le contrapposizioni giudiziarie del caso Lo Forte - De Donno sfociate poi in un procedimento a Caltanissetta. Il caso Riina si inscrive proprio nella tradizione italiana dei misteri, appare chiaro che qualcuno possiede il suo archivio e, quindi, le prove delle sue relazioni con soggetti esterni a Cosa Nostra. E' davvero singolare che nessuno abbia predisposto microspie e telecamere per documentare i contatti, anche fisici, che si svilupparono attorno alla villa di via Bernini nei giorni immediatamente precedenti quell'arresto. Un ruolo decisivo è stato giocato dal generale Francesco Delfino che riuscì a far parlare Balduccio di Maggio”.
E sul tema della trattativa tra pezzi dello Stato e corleonesi “quella trattativa dopo le stragi siciliane la volle Totò Riina in persona; poi abbiamo anche saputo che il generale Mori ebbe contatti con Vito Ciancimino. Ma attenzione: Ciancimino non si pentì né aveva intenzione di farlo. Ecco perché penso che certe trattative siano sempre deleterie... e alcune sono state al limite della rilevanza penale”.

In fede
Giorgio Bongiovanni

 

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