TERZO MILLENNIO Verso l'Antropocrazia

DOSSIER KENNEDY

di M. Centofante

Tratto dal libro "Il Presidente" per gentile concessione di Gianni Bisiach

 

 

JFK: LA LUNGA STORIA DI UNA BREVE VITA

Perché Cosa Nostra ha ucciso il Presidente della Nuova Frontiera

La terribile carestia che a metà del secolo scorso investì il territorio irlandese, condannò buona parte della popolazione all’espatrio e, tra il 1848 e il 1849 il numero degli irlandesi emigrati in America raggiungeva il milione. E’ in quegli anni che Patrick Kennedy, futuro bisnonno del presidente John, lascia New Ross, nella contea di Kilkenny, per raggiungere Boston, la città in cui solo qualche anno più tardi, nacque la “mafia irlandese”. Alla morte di Patrick Kennedy l’ultimogenito tra i suoi figli, Patrick Joseph, aiuta la madre a gestire un piccolo emporio e grazie al suo spiccato senso degli affari e alla sua brillante carriera politica (a 28 anni viene eletto deputato e a 32 senatore dello stato del Massachusetts) diviene in breve tempo il “boss del partito democratico per tutto lo stato del Massachusetts”, come lo definisce una scheda dell’Fbi. Lascia poi l’incarico di deputato per assumere quello di “grande elettore” per il partito. Dall’unione con Mary Hickey nascono quattro figli, uno dei quali è Joseph Patrick detto “Joe”, il quale ereditando l’astuzia e l’ambizione del padre accumula un patrimonio di 250 milioni di dollari. Nel 1913, un anno dopo aver conseguito la laurea presso l’Università di Harvard, sposa Rose Fitzgerald, figlia del più volte eletto sindaco di Boston John F. Fitzgerald, detto “Honey” Fitz. Rose darà alla luce nove figli, tra i quali il futuro presidente degli Stati Uniti John detto Jack, che nacque a Brookline (Boston), il 29 maggio 1917. Joe è uno dei pochi che riesce a trarre beneficio dalla crisi di Wall Street del 1929 e sostiene economicamente la corsa alla Casa Bianca di Franklin Delano Roosevelt. A spingerlo in tale impresa è soprattutto l’idea di poter trarre profitto dall’abolizione del proibizionismo, uno dei propositi di Roosevelt. Siamo nel 1932, l’anno successivo all’arresto di Alfonso “Al” Capone, uno dei grandi boss della mafia italiana. Negli anni del proibizionismo Capone è il re delle distillerie clandestine e con il suo patrimonio valutato in milioni di dollari la mafia siciliana finanzia i partiti politici e domina su tutti gli Stati Uniti. Il crimine organizzato riesce a corrompere elementi della polizia, grandi nomi della politica e perfino Edgar Hoover, direttore del Federal Bureau of Investigation, tanto che per “incastrare” Al Capone il governo degli Stati Uniti deve ricorrere all’Ufficio delle tasse. Evasione fiscale fu il movente dell’arresto del padrino di Chicago.
Grazie alla cessazione definitiva, imposta dal neo presidente Roosevelt, del divieto legale alla produzione a allo spaccio di liquori, Joe Kennedy guadagna una fortuna con il commercio di alcolici. Ottiene poi da Roosevelt la nomina di capo della Security and Exchange Commission, il comitato governativo che svolge un’azione di controllo delle illegalità del mercato azionario e della borsa. A valergli la nomina è la sua perfetta conoscenza del mondo della finanza. Non mancano le proteste alle quali il presidente risponde che “nessuno meglio di un aguzzino può smascherare altri aguzzini”. D’ora in poi, su richiesta di Hoover, l’Fbi terrà sempre sotto controllo i Kennedy.
Nel 1936 Joe finanzia anche la seconda vittoriosa campagna elettorale di Roosevelt fino a diventare una pedina insostituibile nella politica finanziaria del presidente. Nel 1937 viene designato alla carica di ambasciatore a Londra e qui stringe una forte amicizia con il primo ministro conservatore Neville Chamberlain. I due sono d’accordo nell’affermare che la cessione a Hitler della Cecoslovacchia sarà il passo decisivo verso la pace. Ma la guerra non tarda ad arrivare e l’ambasciatore Kennedy, convinto della superiorità militare dei tedeschi sostiene che “la Gran Bretagna non combatte per la democrazia ma per la propria sopravvivenza” e che sarebbe bene che gli Stati Uniti non interferissero nel conflitto. Queste ed altre dichiarazioni creano dei dissapori tra l’ambasciatore e il presidente tanto che, una volta richiamato in patria, Joe Kennedy rassegna le dimissioni.
Si ritirerà poi dalla vita politica per dedicarsi alle speculazioni immobiliari e all’industria del petrolio. Acquisterà interi isolati a New York e nella zona di Wall Street, dove la mafia di Frank Costello possiede la maggior parte delle proprietà.
Nel frattempo due dei figli di Joe, John e Joe Kennedy Junior, partono per prendere parte alle azioni di guerra. Anche il fratello Robert, detto Bob, si arruolerà come volontario in marina, prima di raggiungere la maggiore età. Durante una missione segreta il primogenito Joe Junior, per il quale il padre aveva pensato ad un futuro da presidente degli Stati Uniti, perde la vita a causa dello scoppio del suo aereo da combattimento. John, invece, ritorna a casa nel dicembre del 1943 a causa delle sue precarie condizioni di salute, conseguenti ad una grave lesione alla colonna vertebrale riportata nel corso di una partita di rugby e aggravatasi in seguito ad un violento colpo alla schiena subito durante un attacco alla motosilurante della quale gli venne affidato il comando. In quell’occasione, il giovane Kennedy salvò la vita a due membri dell’equipaggio e ricevette in seguito due medaglie al valore: la “Purple Heart” e la “Navy and Marine Corps”. Nel febbraio del 1945 John scrive un breve saggio dal titolo “Let’s try an Experiment in Peace” (Tentiamo un esperimento per la pace) nel quale invita Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica a limitare gli armamenti e intraprende la strada del giornalismo che lascerà presto per mancanza di interesse: “Invece di agire mi tocca riferire quello che fanno gli altri…” è la sua dichiarazione. E’ in questo momento di crisi che Papà Joe spinge il figlio ad intraprendere la carriera politica e a prendere quindi il posto del fratello morto in guerra. Nel 1947 Jack viene eletto rappresentante al Congresso degli Stati Uniti e così il 27 novembre del 1959, la rivista “Look” ricorda l’ingresso di Kennedy nel mondo politico: “Non fu facile per John seguire le orme del fratello Joe ed entrare in politica. Allora era un giovane timido e riservato… Spiccò il volo verso il Congresso dall’XI distretto del Massachusetts, comprendente East Boston dove era nato suo padre, North End dov’era nato il nonno Fitzgerald, e Cambridge dove i Kennedy avevano frequentato l’università di Harvard. Malgrado queste radici, John si sente praticamente un estraneo, essendo cresciuto a New York”. I suoi nemici diranno presto che alla base dell’elezione del ventinovenne John c’erano i soldi del padre. Ma ad attirare i 22.183 voti che gli valsero la vittoria sul suo rivale Lester W. Bowen ha giocato, paradossalmente, la sua inesperienza nel tenere comizi, la sua oratoria semplice e diretta, il suo desiderio di trovare una risposta ai problemi dell’XI distretto piuttosto che alle battute provocatorie del suo avversario. Nello stesso periodo viene eletto alla Camera anche Richard M. Nixon ed entrambi entrano a far parte della Commissione lavoro. Il deputato Kennedy denuncia più volte la Casa Bianca, presieduta da Truman, per errori nell’amministrazione democratica in Cina o per la condotta della guerra in Corea. Conosce intanto Jacqueline Lee Bouvier, ragazza della buona società, che sposerà nel 1953. John prepara, in questo periodo, la sua ascesa al Senato e nell’aprile del 1952 sfida il repubblicano Henry Cabot Lodge, considerato da tutti imbattibile. La candidatura del giovane Kennedy suscita l’ilarità della crema dell’aristocrazia bostoniana ma grazie al suo carisma e all’eccellente rapporto di collaborazione che riesce ad instaurare con il fratello Bob, al quale affida la direzione della campagna elettorale, John risulta vincitore. Secondo quanto dichiarato da Arthur M. Schlesinger Jr., l’uomo che affiancherà Jack nel suo impiego alla Casa Bianca, “John pareva invulnerabile; Robert era disperatamente vulnerabile. Gli amici tendevano a proteggere il fratello più giovane; nessuno di noi pensò mai che il fratello maggiore avesse bisogno di protezione. John dava l’impressione di amare le persone, e Robert di avere bisogno di loro”. Anche in questo caso, però, i soldi di Papà Joe giocano un ruolo fondamentale. Pare, per esempio, che la rinomata rivista “Boston Post”, in seguito ad un prestito di 500.000 dollari concesso da Joe Kennedy al proprio direttore, abbia deciso di appoggiare ideologicamente la campagna di John, che fino a quel momento aveva contrastato. Il senatore democratico entra a far parte della Commissione del lavoro e della previdenza sociale e della Commissione per le operazioni di governo presieduta da Joseph R. McCarthy, senatore del Wisconsin che ottenne la nomina grazie ai finanziamenti di Papà Joe. Il senatore, che dirige il comitato per le attività antiamericane, assume Robert Kennedy e da quel momento in poi i due fratelli acquisteranno fama su tutto il territorio nazionale. McCarthy, intanto, per assicurarsi la rielezione al senato intraprende una violenta campagna anticomunista che arriva a rasentare la follia e a suscitare la ribellione del Pentagono. Bob, che si era già dimesso dalla Commissione a causa del rapporto conflittuale instaurato con Roy Cohn, capo consigliere, è tra gli iniziatori della censura contro McCarthy e Cohn. Anche Papà Joe si troverà costretto ad abbandonare Joseph mentre a causa di un forte dolore alla schiena il senatore John Fitzgerald Kennedy non parteciperà alla votazione contro l’amico Joe, compagno di armi, che cacciato dal senato morirà alcolizzato tre anni dopo.
La salute di John si fa sempre più precaria, tanto che nel 1954 rischia la vita in seguito ad un intervento di doppia fusione di dischi spinali al quale farà seguito, il 15 febbraio del 1955 una seconda operazione che darà migliori risultati. La lunga convalescenza lo spingerà a scrivere un libro, “Profiles in courage” (I profili del coraggio), per il quale vincerà il Premio Pulitzer e attirerà parecchie invidie e sospetti.
Alla Convenzione democratica del 1956 John ha il compito di presentare il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti: l’amico Adlai E. Stevenson. Quando proporrà la sua nomina a vice presidente la disapprovazione dei delegati riporterà alla memoria i suoi rapporti di collaborazione con McCarthy.
Ma il senatore Kennedy non si perderà d’animo. Membro della Commissione McClellan, la quale si occupa di scoprire la verità sulle “infiltrazioni comuniste” e sulle relazioni tra mafia e sindacati, aiuta suo fratello Bob a diventarne responsabile investigativo. Al centro dell’indagine vi sono i rapporti tra la malavita organizzata e il sindacato degli autotrasportatori il cui presidente è Jimmy Hoffa, a cui Bob attribuisce numerosi delitti. Il Senato intanto accusa il pugile Joe Louis di lavorare per Hoffa e John Kennedy propone una legge contro l’influenza dei gangster nei sindacati. Il giovane senatore riuscirà a dimostrare che Hoffa protegge gli interessi della mafia e grazie ad un’inchiesta di Pierre Salinger, un giornalista del “Los Angeles Times” che diventerà l’addetto stampa di Jack alla Casa Bianca, viene a conoscenza di alcune dichiarazioni rilasciate dai camionisti e relative ai ricatti della malavita organizzata. Tra i mafiosi implicati nello scandalo Bob scopre Salvatore Momo Giancana, detto Sam e Filippo Sacco, detto John Roselli. Hoffa dichiara guerra ai Kennedy e minaccia Bob di “rompergli la schiena”. Dovrà rispondere di quella frase di fronte al Senato. Gli autotrasportatori minacciano poi un gigantesco sciopero ma i due fratelli non si lasciano intimorire e attaccano altri personaggi, appartenenti alla mafia e infiltrati nei sindacati; tra questi Giovanni Ignazio Dioguardi, detto Johnny Dio (che fece accecare Victor Riesel, un giornalista che aveva fatto delle ricerche su di lui), Frank Costello (che influenzò le elezioni del partito democratico), Lucky Luciano, Mickey Cohen, Calogero Minacori, detto Carlos Marcello. In quel periodo O’Dwyer, ex sindaco di New York, dichiara che la legge, in qualche modo, protegge i mafiosi dal pericolo dell’incriminazione. Alcuni gangster, tra i quali Lucky Luciano, che durante la guerra aveva collaborato con i servizi di informazione americani vengono premiati con la deportazione in Italia. Nel corso del secondo conflitto mondiale, infatti, il governo statunitense teme le infiltrazioni di tedeschi o giapponesi nei porti della costa occidentale americana. In quegli anni le aree portuali sono controllate dalla malavita organizzata la quale garantisce ai lavoratori miglior “protezione” rispetto alla polizia. E’ per questo che la Cia chiede aiuto a Lucky Luciano il quale, dal carcere nel quale è detenuto, organizza una rete di controllo dei porti statunitensi. Lo stesso Luciano, che è considerato uno dei più potenti boss mafiosi dell’epoca, aiuta la Cia anche in occasione dello sbarco degli americani in Sicilia. In qualità di boss di Cosa Nostra negli Stati Uniti, Luciano chiede alla mafia siciliana di aprire la strada ai soldati americani: lo sbarco dei militari statunitensi in Sicilia si rivelerà un’autentica “passeggiata”. Dopo la liberazione e la deportazione in Italia, il gangster continuerà ad incontrarsi, a Cuba, con Carlos Marcello e altri malavitosi implicati nello spaccio di sostanze stupefacenti. Cuba era, negli anni cinquanta, la capitale delle attività illecite e, soprattutto, dello smercio della droga. Anche Frank Sinatra ammette di aver stretto rapporti di amicizia con alcuni boss della malavita ma nega di aver partecipato ad azioni illegali. L’arrivo di Fidel Castro a Cuba costringe il crimine organizzato ad uno spostamento. Albert Anastasia viene ucciso, Frank Costello ferito alla testa da colpi di arma da fuoco; secondo quanto dichiarerà Joe Valachi, un mafioso che nel 1962 chiederà la protezione del governo, il mandante degli attentati sarebbe Vito Genovese, considerato il capo supremo della malavita organizzata.
Nel 1954, quando Patricia Kennedy sposa l’attore Peter Lawford, il clan dei Kennedy entra in stretto contatto con quello di Sinatra.
Nel 1959 inizia la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 1960, l’occasione definitiva dei Kennedy di riscattare le umiliazioni subite a causa delle loro modeste origini. Sinatra, grazie alle sue “amicizie” farà ottenere al giovane senatore i voti delle comunità italiane in America. Una scheda dell’Fbi, redatta dall’agente Rosen e diretta a Hoover riferisce che “Durante l’investigazione sul capo mafia Joseph Bonanno, gli agenti dell’ufficio di Phoenix hanno interrogato il reverendo della chiesa dei Ss. Pietro e Paolo di Tucson, in Arizona. E’ venuto fuori che Bonanno, insieme a uno dei suoi migliori amici, Peter Licavoli, che possiede un ranch per la raccolta del cotone in Arizona, si è recato in chiesa sabato 23 febbraio 1958, per sentir messa al fianco del senatore John Kennedy del Massachusetts. Va sottolineato che Kennedy si trovava a Tucson per parlare all’università dell’Arizona la sera stessa”. Pare inoltre che durante la campagna elettorale qualcuno abbia offerto a Robert Kennedy un’ingente somma di denaro in cambio della cancellazione di alcuni nomi dai rapporti delle indagini della commissione McClellan. Bob rifiutò l’offerta ma non rivelò mai i nomi di chi tentò di corromperlo.
Nelle elezioni primarie John salta senza problemi l’ostacolo costituito da Hubert Humphrey, della sinistra democratica. Intanto, un aereo della Cia, in missione segreta sulla Russia, viene abbattuto da un missile sovietico mentre Krusciov sta trattando a Parigi con Eisenhower. Questi dichiara la sua assoluta estraneità ai fatti scatenando l’ira del presidente sovietico. John Kennedy sostiene pubblicamente che al posto di Eisenhower avrebbe semplicemente presentato le sue scuse ai russi e la promessa che fatti del genere non si sarebbero presentati in futuro. Krusciov si rifiuterà di trattare ancora con il leader della Casa Bianca fino all’elezione del prossimo presidente che, come lui stesso afferma, “non dovrà essere Nixon”. Kennedy ha quindi un amico in Russia ma dovrà battersi contro Lyndon Johnson per ottenere la nomination a candidato democratico alle elezioni presidenziali. La lotta sarà dura ma Jack avrà la meglio, grazie anche alla propaganda del fratello Bob e ai soldi di Papà Joe; il Wyoming darà il voto decisivo. Vista l’influenza di Johnson sugli stati del sud John, su consiglio del padre, sceglie l’ex avversario come candidato alla vice presidenza deludendo molti suoi amici e sostenitori. Durante i comizi elettorali Kennedy promette, tra le altre cose, una politica più energica nei confronti di Berlino e di Cuba, parla dell’arretratezza del governo americano nella conquista dello spazio, della disoccupazione giovanile e di altri temi di pubblico interesse, evitando di portare il discorso su argomentazioni di carattere personale (come invece fa Nixon). Viene poi accusato da Nixon di essere un “sovvertitore della pace sociale” e di appoggiare Martin Luther King. E sarà proprio la sua amicizia con King a valergli i voti della popolazione di colore. Al voto dei neri si aggiunge quello degli emigrati, i diseredati, i grandi sindacati e anche i magnati del petrolio e dell’acciaio, memori del fatto che Joe Kennedy è uno dei loro. Il 9 novembre del 1960, alle 5.45 del mattino, con 303 voti elettorali a fronte dei 210 di Nixon, John Fitzgerald Kennedy diventa presidente degli Stati Uniti d’America.

LA PRESIDENZA

Passarono i due mesi e mezzo, previsti dalla legge americana, che separano l’elezione del presidente dal suo definitivo insediamento e in una fredda mattina di gennaio la folla raccolta nella piazza del Campidoglio attendeva con impazienza il sospirato discorso d’inaugurazione. La neve bianca incorniciava il suggestivo paesaggio invernale mentre un vento di rinnovamento soffiava su tutti gli Stati Uniti. Erano finalmente terminati i lunghi anni del dopoguerra, quelli della “caccia alle streghe” e nel cuore degli americani il viso giovane e bello di John Kennedy incarnava la speranza di un futuro migliore. Apparve alle dodici e venti e in uno scrosciare di applausi prese il suo posto sul podio. Alle 12.51 il presidente della Corte Suprema, il giudice Earl Warren, diede inizio alla cerimonia di giuramento alla quale fece seguito il discorso d’insediamento: “Da questo tempo e da questo luogo, giunga agli amici e ai nemici l’annuncio che la fiaccola è stata trasmessa a una nuova generazione di americani, nati in questo secolo, temprati dalla guerra, plasmati da una pace aspra e amara, fieri del loro antico retaggio”. Il discorso assunse poi toni di speranza: “Cominciamo daccapo, e ricordiamoci tutti che il contegno civile non è segno di debolezza e che la sincerità è sempre soggetta a riprova. Non negoziamo mai per timore, ma neppure temiamo mai di negoziare… Tutto ciò non sarà compiuto in cento giorni, né in mille giorni né durante questo nostro mandato né forse nel corso della nostra vita su questo pianeta. Ma cominciamo… Perciò, concittadini americani, non chiedete che cosa potrà fare per voi il vostro paese, chiedetevi che cosa potrete fare voi per il vostro paese… Concittadini del mondo, non chiedete che cosa farà per voi l’America, ma che cosa potremo fare insieme per la libertà dell’uomo”. Il calore degli applausi lo avvolse in abbraccio di speranza e di emozione che lasciò poi il posto ai festeggiamenti. La sera, alla Casa Bianca, fu la volta del “galà” e Danielle, la moglie di Richard N. Gardner, sottosegretario agli affari esteri con Kennedy e futuro ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, così ricorderà l’arrivo di John e Jacqueline al ballo d’inaugurazione: “Quando Jacqueline vestita di bianco entrò, con accanto a lei John Kennedy in frac, nella sala ci fu un grande ‘Oh!’ di ammirazione. Era forse la giovane coppia reale che l’America desiderava e che non aveva mai avuto prima”.
Il giovane John Kennedy diventò così il capo della nazione più potente del mondo. Lo aspettavano lunghi giorni di intenso lavoro, durante i quali avrebbe dovuto dirigere i rapporti diplomatici con più di cento governi stranieri. Riconfermò alla direzione di Fbi e Cia rispettivamente J. Edgar Hoover e Allen W. Dulles, mentre, in un coro di proteste, nominò ministro della giustizia il fratello Bob. In “Kennedy, un’epoca nella memoria” il fotografo Jacques Lowe, amico del presidente, così commenta il fatto: “quando John F. Kennedy nomina suo fratello Bob, ministro della Giustizia, si leva una protesta generale sia fra i repubblicani che fra i democratici. Negli Stati del Sud, in particolare, sono seccati che un ministro della Giustizia si occupi del problema dei diritti civili, e il New York Times esce con l’editoriale: ‘Se Robert Kennedy fosse stato uno degli avvocati più famosi del Paese, una figura di spicco fra gli esperti di problemi giuridici, un Pubblico Ministero conosciuto… la situazione sarebbe diversa…’. Il New Republic lo definisce ‘non adatto alla carica’. Lo stesso presidente Kennedy, quando gli viene chiesto come avrebbe annunciato la nomina, disse scherzosamente: ‘Mah, penso che aprirò la porta principale della casa di Georgetown un mattino, più o meno alle due, guarderò prima a destra e poi a sinistra e, se non ci sarà nessuno in giro, sussurrerò: è Bobby’.
Ma la decisione di proporre la nomina e di accettarla non è stata facile per i due fratelli. Robert Kennedy è incerto su ciò che avrebbe desiderato fare, combattuto se iniziare una carriera politica propria, oppure entrare a far parte del governo in una posizione meno esposta. Per la verità aveva rifiutato l’offerta. Ma il presidente insistette. Voleva che Bobby facesse parte del governo. Aveva bisogno di qualcuno che gli dicesse assolutamente la verità, anche se dolorosa, e sapeva bene quanto fosse difficile per un presidente avere vicino una tale persona”.
Robert Kennedy, infine, accettò l’incarico, decise di fare del suo ministero un potente organo di lotta contro l’ingiustizia e si impegnò in modo particolare nella battaglia alla criminalità organizzata, un problema che, come lui stesso affermò, “è diventato sempre più serio negli ultimi dieci anni”. Bob sosteneva che la mafia avesse una sorta di comitato direttivo e che i suoi traffici fossero diramati ovunque, ma la sua dichiarazione trovava la disapprovazione dei criminologi. Tra i suoi collaboratori ricordiamo Byron White, Nicholas Katzenbach, ministro della Giustizia aggiunto, i premi Pulitzer John Seingethaler e Edwin O. Guthman e Walter Sheridan, al quale Bob affidò il compito di dirigere lo speciale gruppo investigativo. Alle dipendenze del ministro Kennedy c’era anche l’Fbi ma Hoover si dimostrò subito contrario all’ascesa al potere di colui che riteneva essere un giovane inesperto. D’altra parte non era il primo ministro della Giustizia ad avere problemi con lui, l’uomo che “saltava” il ministero per riferire direttamente al presidente. In breve tempo Bob e John fecero in modo di ristabilire l’ordine e obbligarono l’Fbi a tornare alle dipendenze del ministero della Giustizia. Come dirà l’esperto Cyril Connolly, “…Robert Kennedy ordina al Federal Bureau of Intestigation di unirsi al ministero prendendo parte non soltanto alla lotta contro la criminalità organizzata, ma anche alla battaglia per l’applicazione dei diritti civili. Ciò che è notevolmente estraneo ai principi di Hoover che, notoriamente, non ha simpatia per i negri”.
L’ufficio del presidente si riempiva intanto dei rapporti provenienti da ogni parte del mondo i quali richiamavano la sua attenzione su problemi di ordinaria amministrazione che non potevano essere trascurati: i suoi grandi progetti per migliorare il mondo dovevano, momentaneamente, essere messi da parte. Già nelle prime settimane di mandato John Kennedy si trovò ad affrontare un’importante e difficile decisione: lo sbarco a Cuba. Un gruppo di esuli cubani, addestrati dalla Cia, era pronto ad invadere il feudo di Castro e a scatenare una rivolta contro il dittatore. Kennedy si assicurò presso Dussell e Bissel, il direttore aggiunto del settore operativo della Cia, che la popolazione cubana fosse veramente intenzionata a liberarsi di Castro e che l’operazione non avrebbe coinvolto gli Stati Uniti incrinando pericolosamente i rapporti con l’Unione Sovietica. Dussell e Bissel si dichiararono decisamente convinti della buona riuscita dell’operazione e il direttore della Cia consegnò al presidente un dossier relativo alla storia di Cuba. E’ interessante notare che proprio mentre John esaminava con estrema attenzione il dossier, ricevette una lettera da Lee Harvey Oswald, un emigrato nell’Unione Sovietica, che chiedeva di tornare negli Stati Uniti mentre un certo Jack Ruby si stava sempre più facendo strada nel giro della mafia statunitense e cubana e stava allacciando stretti rapporti di collaborazione con Santo Trafficante, il boss di Cosa Nostra della Florida. Oswald e Ruby saranno strettamente legati all’omicidio di Dallas.
Tornando a Cuba, la Cia tentò di infangare l’immagine di Castro agli occhi dell’opinione pubblica cubana e decise infine di assoldare un killer allo scopo di assassinare il dittatore. A Robert Maheu, ex agente della Cia e dell’Fbi alle dipendenze di Howard Hughes e che era proprietario di un’agenzia investigativa, fu affidato il compito di cercare il mandatario dell’omicidio. Si fece intermediario tra il governo e i boss mafiosi i quali avevano tutto l’interesse a sbarazzarsi di un uomo che intralciava i traffici illeciti a Cuba e a guadagnarsi la clemenza del dicastero di Bob Kennedy. La squadra che si sarebbe dovuta occupare della cosa era infine composta da Johnny Roselli, un boss infiltrato nel sindacato dello spettacolo, Santo Trafficante, Sam Giancana, Charles Nicoletti, un gangster di Chicago. Ma Bob e John sono tenuti all’oscuro circa le manovre della Cia, delle quali è al corrente anche l’Fbi e, poco tempo dopo, il piano per eliminare Castro è pronto ma non avrà successo. Si deciderà quindi di prendere nuovamente in considerazione il piano dello sbarco.
Il 15 aprile del 1961, 1400 uomini sbarcano alla Baia dei Porci ma la popolazione non si ribella al dittatore, anzi lo appoggia nella battaglia contro i ribelli che chiedono, via radio, alla Cia, l’intervento dell’aviazione americana. Fidel Castro protesta all’Onu contro gli Stati Uniti ai quali attribuisce la responsabilità dell’accaduto prendendo alla sprovvista l’ambasciatore americano Adlai Stevenson, che non è stato informato dal presidente circa il piano d’attacco. Bissell, intanto, tenta di convincere Kennedy dell’importanza della partecipazione dell’esercito statunitense in difesa dei ribelli. Ma il presidente, infuriato, si rifiuta categoricamente di partecipare alla guerriglia che potrebbe accentuare la tensione già esistente tra mondo comunista e anticomunista e sfociare in una terza guerra mondiale. 72 ore dopo l’attacco 1214 volontari anticastristi vengono fatti prigionieri e interrogati in un pubblico teatro. Alcuni di loro ricevono la condanna a morte. Dagli Stati Uniti si levano cori di proteste contro Kennedy mentre Krusciov esprime con forza la propria disapprovazione. L’acuirsi della tensione con gli Usa spinge Castro ad avvicinarsi ancora di più all’URSS. Risale al 2 dicembre dello stesso anno la sua dichiarazione: “Sono marxista -leninista e lo sarò finché avrò vita”. In seguito all’incidente di Cuba e alle indagini svolte da Bob sull’operato della Cia, Allen Dulles, costretto a dimettersi, viene sostituito da John McCone, un miliardario repubblicano, magnate del petrolio. La scelta di McCone è legata al fatto che i servizi segreti, nel mondo diviso in comunisti e anticomunisti, lavoravano soprattutto nei paesi più ricchi di risorse minerarie e di giacimenti petroliferi. Possedere il petrolio significava avere il predominio sul mondo e maggiori probabilità di vincere una guerra.
Nell’ottobre del 1962 un aereo spia americano fotografa, in territorio cubano, rampe di missili pronti a colpire gli Stati Uniti. Kennedy, memore dell’esperienza della Baia dei Porci, si accerta che non ci siano errori nelle fotografie prima di denunciare pubblicamente quanto sta accadendo. Lancia poi un ultimatum a Krusciov dicendo che se i sovietici non avessero provveduto immediatamente alla demolizione delle basi ci avrebbero pensato gli americani. Al consiglio di sicurezza dell’Onu, Adlai Stevenson chiede lo “smantellamento delle basi e il ritiro delle armi offensive da Cuba” mentre il delegato sovietico Zorin sollecita le Nazioni Unite ad opporsi “all’azione americana di aggressione contro Cuba”. La situazione è critica e il mondo trema di fronte alla minaccia di un’imminente conflitto termonucleare. Robert Kennedy ricorda in seguito che “Nessuna delle due parti voleva una guerra per Cuba ma era possibile che una di esse compisse un passo, che avrebbe potuto causare, per ragioni di “Sicurezza”, di “Prestigio”, di “Orgoglio”, una risposta dall’altra parte, il che avrebbe automaticamente provocato una reazione e alla fine una spirale, che avrebbe potuto portare al conflitto armato… Che era ciò che desideravamo evitare… Credo che quei pochi minuti furono il momento di maggior preoccupazione per il presidente. Il mondo si trovava sull’orlo di un olocausto? Era colpa nostra? Un errore? C’era qualcos’altro che avremmo potuto fare? Egli portò la mano al viso e si coprì la bocca. Aprì e serrò il pugno. Il suo viso sembrava tirato, lo sguardo era addolorato, quasi cupo”. Il 22 ottobre Kennedy parlò alla televisione: “Chiedo al premier Krusciov di fermare e eliminare questa clandestina, sconsiderata e provocatoria minaccia alla pace e alle relazioni stabili fra i nostri due Paesi. Gli chiedo inoltre di abbandonare la ricerca del dominio sul mondo e di aderire allo sforzo storico di porre fine alla corsa agli armamenti per trasformare la storia del genere umano… Il prezzo della libertà è sempre molto alto - ma gli americani l’hanno sempre pagato. E se esiste un cammino che non sceglieremo è quello della resa e della sottomissione. Il nostro obiettivo non è la vittoria della forza, ma la rivendicazione dei diritti - non è la pace ai danni della libertà, ma la pace e la libertà, indissolubili…”. Prima di prendere la decisione definitiva il presidente americano decide, con eccellente abilità, di attendere ancora per dare a Krusciov il tempo di meditare. Il 26 ottobre, travolto dalle accuse provenienti da ogni parte del mondo, il premier russo decide di ritirare i missili a patto che gli Stati Uniti garantissero di non consentire più alcun attacco militare contro Cuba. Kennedy accetta e registra il primo vero successo presidenziale. Anche Fidel Castro esprime la sua riconoscenza al presidente americano restituendo gli uomini catturati durante lo sbarco alla Baia dei Porci. Chiederà e otterrà poi dagli Stati Uniti viveri e medicinali. Kennedy, insieme alla moglie Jacqueline, saluterà poi i volontari in un grande stadio e questi gli faranno dono della loro bandiera da combattimento. Il presidente farà poi una promessa che non riuscirà a mantenere: “Il mio apprezzamento va alla vostra Brigata per aver scelto gli Stati Uniti come custodi di questa bandiera. Io posso assicurarvi che questa bandiera sarà restituita a questa Brigata in una Avana libera!”. L’intenzione di Kennedy è infatti quella di intraprendere relazioni pacifiche sia con Krusciov che con Fidel Castro. Ne “Il malaffare”, Roberto Faenza scrive che “Il ‘Gruppo speciale aumentato’ torna ad essere il Gruppo speciale di un tempo e il comando delle nuove iniziative contro il governo di Castro viene assunto da McGeorge Bundy, l’assistente speciale del presidente. Robert Kennedy, constatato il mutamento politico in corso verso Cuba, passa ad occuparsi di operazioni meno clandestine e più consone alla sua figura di ministro della Giustizia. Stranamente, però, nonostante lo smantellamento dell’operazione (si riferisce all’operazione Mongoose, un piano che prevedeva anche l’assassinio di Fidel Castro), nessuno dei collaboratori di Kennedy si preoccupa di ordinare alla Cia di cessare le ostilità contro Castro e i rapporti con la mafia. Dall’esame dei documenti interni, si direbbe anzi che, per quanto Kennedy stia ormai maturando l’opinione di arrivare a patti con Castro, la speranza di eliminare il leader cubano dalla scena continui ad albergare negli animi dei responsabili del governo e dello stesso presidente, con questa ‘politica del doppio binario’. Tant’è che alla Casa Bianca McGeorge Bundy continua ad autorizzare lo studio dei progetti contro Cuba e alla Cia William Harvey persevera nei collegamenti con i gangster”.
Sempre nel 1962, i magnati dell’industria siderurgica annunciano l’aumento dell’acciaio di sei dollari la tonnellata infrangendo l’accordo raggiunto solo poco tempo prima tra governo, sindacati operai e imprenditori. L’11 aprile Kennedy afferma con forza durante un discorso ufficiale che “Il popolo americano troverà difficile, come lo trovo io, sopportare una situazione in cui un pugno di industriali dell’acciaio, la cui ricerca del potere privato e del guadagno supera il senso di pubblica responsabilità, dimostra un assoluto disprezzo per gli interessi di 185 milioni di americani”. Settantadue ore dopo gli industriali si vedono costretti ad abolire l’aumento e cominciano a temere una rielezione del presidente, cosa che fa già paura ai sudisti, alla mafia e ai petrolieri: il 16 ottobre del 1962, la legge “Kennedy Act” determina un crollo dei profitti dei petrolieri sui capitali investiti all’estero dal 30 al 15%. Il presidente intende inoltre abolire il vantaggio dell’esenzione dalle tasse sul reddito dei petrolieri per il 27.5% dei loro guadagni come “compensazione dell’esaurimento delle riserve petrolifere”. Il colpo è duro da “incassare”, soprattutto perché l’unico motivo per cui i magnati dell’oro nero avevano appoggiato la presidenza di Kennedy era l’investimento di Papa Joe nel mercato del petrolio. Da sottolineare che lo stesso vice -presidente Johnson era stato eletto grazie al voto dei petrolieri, i quali hanno il loro punto di concentrazione nel Texas. I grandi industriali accusano John di voler annientare lo spirito di libera iniziativa di chi è in possesso di denaro “onestamente guadagnato con l’aiuto e la volontà di Dio”. Haroldson Lafayette Hunt, l’uomo più ricco del mondo nonostante il suo nome non appaia nella lista delle 500 maggiori società internazionali, dichiara a Dallas che eliminare i privilegi fiscali dei petrolieri costituisce “un delitto contro il sistema americano”. Agli inizi del 1963 Bob e John preparano un progetto di legge sulle “Libertà Civili” e appoggiano la marcia a Washington di 250.000 neri guidati dal pastore Martin Luther King. E’ il 28 agosto del 1963 e King pronuncia il suo più celebre discorso: “Io sogno un giorno in cui i figli degli ex schiavi e degli ex proprietari di schiavi potranno sedersi assieme al tavolo della fratellanza. Io sogno il giorno in cui anche lo Stato del Mississipi sarà trasformato in un’oasi di libertà e giustizia. Questo è il momento per risorgere dall’oscura desolata valle della segregazione, verso la strada luminosa della giustizia razziale. Io ho un sogno per i miei poveri figli: che un giorno in questa nazione essi non saranno giudicati dal colore della loro pelle, ma dal vero valore della loro personalità. Questo è un sogno oggi. Ma con questo sogno noi potremo lavorare insieme, insorgere per la libertà insieme, sapendo che anche noi saremo liberi un giorno”. I conservatori sudisti cominciano ad esprimere la loro rabbia verso i fratelli Kennedy, soprattutto quando questi incaricano i Marshal federali e unità dell’esercito a scortare a scuola James Meredith, un ragazzo nero che dopo essere stato espulso dall’Università dell’Alabama a causa del colore della sua pelle, si appella al tribunale. John e Bob vengono paragonati a Fidel Castro e a suo fratello Raul.
Dal 2 al 6 luglio del 1963 Kennedy si trova in Europa dove visita la Germania, Berlino Ovest, l’Irlanda, la Gran Bretagna e l’Italia. A Berlino catturerà il cuore della popolazione parlando della differenza tra mondo libero e mondo comunista. “La libertà è indivisibile - dice - e nessuno di noi è libero se anche un solo uomo è in schiavitù”.
Nell’autunno dello stesso anno si occupa con particolare dedizione alla lotta per l’eguaglianza razziale e la sospensione degli esperimenti nucleari, consapevole che ciò gli avrebbe causato impopolarità. Un sondaggio Gallup effettuato a novembre confermerà le sue previsioni: il favore del Paese nei confronti del presidente è sceso al 59% mentre il 38% delle proposte di legge avanzate dal suo governo non è stato approvato da nessun ramo del Congresso.
Come è riportato nel libro “Il presidente”, di Gianni Bisiach, “Il giorno in cui il Senato ratifica il trattato, Kennedy lascia Washington per un giro nell’Ovest. Degli undici Stati compresi nell’itinerario, otto lo avevano visto sconfitto nel 1960; con il sud che gli si rivolta contro, egli ha bisogno di procurarsi nuovi sostenitori; in dieci Stati nel 1964 si sarebbero tenute le elezioni per il Senato; in molti, la John Birch Society è molto attiva. Alla fine del secondo giorno, parlando a Billings, nel Montana, e notando che è presente anche il presidente del Senato Mike Mansfield, Kennedy lo loda per la parte che ha svolto nella battaglia per la ratifica del trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari. Con sorpresa, l’uditorio scoppia in lunghi applausi. Incoraggiato, Kennedy parla allora della sua speranza di ridurre ‘la possibilità di un conflitto militare fra le due grandi potenze nucleari che insieme posseggono i mezzi per uccidere 300 milioni di individui nel breve spazio di un giorno’. L’accoglienza ricevuta a Billings lo induce a fare, con sempre maggior insistenza, della battaglia per la pace il tema del suo viaggio”. A migliaia accorrono per ascoltare e applaudire i suoi discorsi e nei volti radiosi di quanti allungano le mani per stringere la sua, Kennedy vede la sicurezza della rielezione alla Casa Bianca. In uno dei suoi numerosi discorsi disse: “La mia speranza va a un grande futuro per l’America, un futuro in cui la forza militare del Paese sia pari alla nostra coscienza morale, la sua ricchezza alla nostra saggezza, la sua potenza alla nostra fermezza… La mia speranza va a un’America che susciti rispetto in tutto il mondo non solo per la sua forza, ma anche per la sua civiltà, e a un mondo che garantisca non soltanto la democrazia e la libertà, ma anche il riconoscimento dei meriti dell’individuo”.
Nell’ottobre del 1963 Robert Kennedy, nel ruolo di accusatore e grande testimone, interroga davanti alla Commissione del Senato presieduta dal senatore McClellan, Joe Valachi il quale è pronto a fornire importanti informazioni sulla criminalità organizzata che lui chiama “Cosa Nostra”. Bob, grazie anche all’aiuto di Valachi, rivela all’opinione pubblica i nomi dei dodici capi mafia che comandano l’America e riconosce in Vito Genovese il capo dei capi. Questi comanda dal carcere il traffico dell’eroina nel mondo. Con i miliardi di dollari guadagnati dalla malavita - sostiene Robert Kennedy - è più che possibile corrompere autorità politiche e pubblici rappresentanti. In California Bob accusa Mickie Cohen mentre l’11 settembre del 1963 inizia le indagini contro l’amico Frank Sinatra che aveva ospitato il boss Sam Giancana nel suo albergo -casinò di Lake Tahoe. Robert scoprì che Sinatra era, all’inizio della sua carriera, un protetto di Willie Moretti, amico di Frank Costello, Lucky Luciano, Mickie Cohen e dei fratelli Fischietti, cugini di Al Capone. Per la malavita organizzata si prospettava un periodo difficile. Come riporta lo storico Arthur Schlesinger Jr: “A New York, Robert Morgenthal, l’avvocato federale, processò con successo un capo sindacale dopo l’altro. La banda Patriarca nel Rhode Island e la banda De Cavalcante nello Stato del New Jersey vennero sgominate. L’incarcerazione di gangster da parte della sezione per il crimine organizzato e per le tasse, aumentò: 96 incarcerati nel 1961, 101 nel 1962, 373 nel 1963”. Bob Kennedy continua intanto ad indagare sulle relazioni tra gangster e capi dei sindacati e, in particolare, su Jimmy R. Hoffa e i suoi rapporti con Anthony Giacalone, un boss di Detroit. I loro incontri avvengono nel Rancho La Costa Country Club, in California, costruito grazie ai soldi provenienti dal fondo pensioni degli autotrasportatori.
Kennedy riesce nel frattempo a distendere i rapporti con il blocco comunista e chiude i campi di addestramento (compresi quelli clandestini) degli esuli cubani che vedono nell’eliminazione di Kennedy la possibilità di fare rientro in patria. Questi si trovano momentaneamente in Florida, la zona controllata dal boss Santo Trafficante, e a New Orleans, controllata da Carlos Marcello.
Nel novembre del 1963 Jack Ruby si reca a Las Vegas per incontrarsi con l’amico Lewis McWillie che lavora per Giancana, Trafficante e Jimmy Hoffa. Come precedentemente accennato, a Dallas vive anche Hunt, l’industriale che si era opposto alla legge di Kennedy sull’abolizione del vantaggio dell’esenzione dalle tasse sul reddito dei petrolieri. Ventiquattro ore prima della morte di Kennedy, Jack Ruby, l’assassino di Lee Harvey Oswald, si era recato nell’ufficio di Hunt a Dallas.
Nel frattempo il presidente si dimostra ben disposto a trovare una mediazione con Cuba e a tal proposito il fratello Bob decide di incontrarsi con Che Guevara. I conservatori non comprendono l’atteggiamento dei Kennedy tanto che Edgar Hoover confida ad alcuni amici che “i più stretti collaboratori del presidente sono diventati tutti comunisti o simpatizzanti comunisti”. La Cia non intende appoggiare il presidente il quale si rivolge all’Fbi mentre la giornalista Lisa Howard informa la Casa Bianca che i leader cubani sono pronti a venire ad un accordo e che è possibile organizzare un incontro con Ernesto Che Guevara (con la morte di Kennedy tali trattative verranno immediatamente sospese e il suo successore incaricherà la Cia di riprendere in mano i progetti dell’assassinio di Fidel Castro e Che Guevara). La cosa non piace ai boss della mafia che erano stati assoldati dalla Cia per uccidere Castro e che dovevano costantemente ripararsi dagli attacchi del ministro della giustizia Kennedy. In un’intervista concessa a Gianni Bisiach, Ralph Salerno, inquisitore del Congresso a Washington raccontò di aver letto 360 volumi di trascrizioni dell’Fbi e che “leggendo quei documenti mi resi conto che la malavita organizzata negli Stati Uniti era molto infastidita dai Kennedy, ma principalmente da Robert Kennedy. Talvolta, parlando degli ‘sporchi Kennedy’, qualcuno diceva: ‘John non è male, è Robert il figlio di puttana’ erano molto risentiti nei confronti di Robert. John compariva spesso nelle loro conversazioni, ma non quanto Robert. Ma se mi si chiedesse se la malavita organizzata avesse avuto un movente per uccidere il presidente, risponderei senz’altro di si”. Le dichiarazioni di Carlos Marcello e di Santo Trafficante contro Kennedy erano note a tutti. Trafficante aveva detto a José Aleman, un leader delle organizzazioni anticastriste: “Kennedy deve essere colpito. Ricordati quello che ti dico: Kennedy è finito e qui si prenderà quello che si è meritato!” Aleman comunica a Edgar Hoover le intenzioni del gangster ma questi non si preoccupa affatto di parlarne con il presidente il quale, qualche giorno più tardi, verrà assassinato a Dallas. La decisione di John Kennedy di recarsi a Dallas è mossa dal desiderio di raccogliere consensi tra coloro che si dimostravano ostili nei suoi confronti. Tra i suoi più stretti collaboratori vi era il timore di un attentato ma il presidente non era il tipo che si sottraeva ad un impegno per non mettere a rischio la propria incolumità fisica.
Il 22 novembre del 1963, alle 7.30, il presidente consuma la sua ultima colazione, si veste e scende in piazza per raggiungere, tra una stretta di mano e l’altra, la macchina che lo avrebbe condotto all’aeroporto dove lo attendeva l’aereo per Dallas. Proprio quel giorno Jacqueline manifestò la sua preoccupazione, condivisa tra l’altro dall’assistente speciale del presidente, Kenneth O’Donnell, per gli attentati che potrebbero manifestarsi mentre lui cammina tranquillamente tra la folla. John risponde: “Se qualcuno vuole veramente uccidere il presidente degli Stati Uniti, la cosa non è affatto difficile: basta appostarsi dall’alto di una finestra di un palazzo a più piani con un fucile munito di cannocchiale. Non c’è niente da fare per sventare un attentato del genere”.
Quel giorno viene pubblicata, sul “Dallas Morning News”, una pagina piena di insulti e di attacchi all’amministrazione Kennedy. La firma a fondo pagina e di Bernard Weissman, presidente del “Comitato Americano per la Ricerca dei Fatti” tra i cui principali membri figurano un coordinatore locale della John Birch Society e Nelson Bunker Hunt, figlio del petroliere Hunt.
Alle 11.40, ora del Texas, l’aereo del presidente atterra a Love Field di Dallas. John e Jacqueline salutano la folla radunatasi per dare il benvenuto al presidente e poi salgono sulla limousine Lincoln Continental insieme al governatore del Texas John Connally e la moglie per dare il via alla parata. La giornata è calda e il servizio segreto fa togliere la volta di plastica che serve a proteggere i passeggeri dalla pioggia e dagli attentati. Il corteo presidenziale sorpassa il grattacielo nel quale abita Haroldson Lafayette Hunt che, il giorno prima, si era incontrato con Jack Ruby e con altri uomini appartenenti alla malavita organizzata. La Lincoln Continental raggiunge la Elm Street, nella quale si trova il Book Depository, il deposito di libri scolastici del Texas. Tra il deposito e il cavalcavia che il corteo è costretto a sorpassare un certo Abraham Zapruder, fabbricante di indumenti femminili, ha piazzato una telecamera amatoriale per riprendere il passaggio del presidente. Un ragazzo, Arthur Rowland, che si trova di fronte al deposito di libri indica una finestra e rivolgendosi alla moglie dice: “Vuoi vedere due agenti del servizio segreto?”. Nella cornice della finestra si vedono due uomini, uno dei quali munito di fucile telescopico. Improvvisamente si odono degli spari e poi le grida di Jacqueline: “Oh, no, no… Dio mio, hanno colpito mio marito”. Alle 13.00 non c’è più nessuna speranza: John Fitzgerald Kennedy è morto. La salma, in attesa di essere sottoposta all’autopsia, viene posta in una bara e portata all’aeroporto di Love Field. Jacqueline segue il carro funebre e alle ore 14.00 la bara viene caricata sull’aereo presidenziale. Nella cabina anteriore dell’aereo Lyndon Johnson giura solennemente di esercitare con fedeltà la carica di presidente degli Stati Uniti e di proteggere e difendere la costituzione. Jacqueline scoppia in lacrime.
Nel frattempo la polizia cattura Lee Harvey Oswald accusandolo di essere l’assassino di Kennedy e di J.D. Tippit, un agente della polizia che viene ucciso lo stesso giorno alle ore 13.16. Due giorni più tardi Oswald viene ucciso da Jack Ruby, proprietario di night club e legato alla mafia.
Sette giorni dopo l’assassinio di Dallas, Johnson costituisce una commissione diretta dal presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti, Earl Warren incaricata di eseguire le indagini sull’omicidio del presidente Kennedy. Il 28 settembre 1964 il rapporto della Commissione Warren è pronto ma presenta numerose contraddizioni e alcune conclusioni in esso riportate appaiono addirittura ridicole. Secondo le indagini della commissione, per citare un esempio, una delle pallottole avrebbe colpito e attraversato da parte a parte il presidente e provocato le ferite alle spalle, al torace, ai polsi e al ginocchio del governatore Connally. La pubblicazione del rapporto spinge quindi giornalisti e avvocati a moltiplicare le inchieste per cercare la verità sull’omicidio del presidente Kennedy e molti di loro perdono la vita in strani incidenti. La stessa sorte tocca ai vari testimoni le cui dichiarazioni smentiscono categoricamente il rapporto Warren.
Un altro importante tassello che testimonia il complotto mafia -petrolieri nell’omicidio del presidente è quello costituito dal gangster Eugene Brading, amico di James Fratianno e Mickey Cohen. Questi avrebbe ottenuto, il 20 novembre del 1963, dall’ufficiale giudiziario che controllava la sua libertà vigilata, il permesso di recarsi a Dallas per discutere un accordo petrolifero con Lamar Hunt, il figlio di Haroldson Lafayette Hunt. Il permesso era di un giorno soltanto ma Brading si trattene anche il giorno successivo e il 22 novembre venne arrestato dalla polizia in un palazzo posto di fronte al famoso deposito di libri. Giustificò la sua presenza lì dicendo che era alla ricerca di un telefono per chiamare la moglie e, una volta portato alla stazione di polizia, dice di chiamarsi Jim Braden. Ritornato a Los Angeles viene interrogato dall’Fbi che non si accorge dell’inghippo e stila un rapporto su Jim Braden, “produttore di petrolio, arrestato a Dallas, nei pressi del luogo dove avevano sparato al presidente, mentre tentava di telefonare da un palazzo vicino (il DAL - TEX Building). Dopo tre ore, è stato interrogato e rilasciato. Non sa nulla di Lee Harvey Oswald e di Jack Ruby”. In seguito ad indagini condotte da privati si venne però a sapere che un testimone oculare, un certo Gary Campbell, dopo aver udito gli spari vide un uomo armato di carabina nel parcheggio sulla sommità della collina. Gli vennero mostrate alcune fotografie e Campbell identificò in Eugene Brading l’uomo della collina. Secondo il giornalista canadese Bud Thomas, Brading fece visita a Hunt insieme ad altri tre gangster, anch’essi in libertà vigilata.
Dopo la morte di John, Robert Kennedy si dedicò con forza al suo lavoro ed appoggiò con tutto se stesso la battaglia di Martin Luther King per l’emancipazione dei neri d’America. Nel 1968, quando Bobby annuncia la sua prossima candidatura alle elezioni presidenziali, King gli assicura i voti della popolazione di colore e tiene un discorso a Memphis, lo stato del Tennessee dove Carlos Marcello è molti influente: “Io ho guardato lontano e ho visto la terra promessa. Forse io non sarò con voi, quel giorno, ma voglio che voi tutti sappiate che il nostro popolo arriverà alla terra promessa. Oggi sono felice. Non ho paura. Non ho paura di niente, non ho paura di nessuno. I miei occhi hanno visto la gloria del Signore che arriva”. King viene ucciso con un colpo di fucile alla fronte mentre si trova in un motel di Memphis. Nonostante le testimonianze raccolte e in base alle quali almeno due erano i responsabili dell’omicidio, il ministro della Giustizia, Ramsey Clark sostiene che non si tratterebbe di un complotto ma “del gesto di un individuo isolato”. L’Fbi giudicherà Earl Ray, un criminale del clan di Carlos Marcello, come unico responsabile della morte di Martin Luther King. Interessante notare che Earl Ray era stato arrestato anche a Dallas, in quel triste 22 novembre, sulla collina dalla quale partì il colpo che raggiunse la fronte del presidente. Come documentato da Bisiach, “secondo gli amici di Martin Luther King, Earl Ray non ha sparato a King, ma è stato solo un complice obbligato. Un’organizzazione segreta lo aiuta a fuggire nel Canada, nel Portogallo e in Inghilterra, spendendo migliaia di dollari. Gli indizi sono contro ‘Cosa Nostra’ e il Ku Klux Klan”.
I neri, infuriati, si riversano sulle strade di Washington e devastano, saccheggiano, incendiano. Robert Kennedy raggiunge gli amici neri e parla con loro: “Ho brutte notizie per voi, per tutti i nostri amici di questa città e per la gente nel mondo che ama la pace: Martin Luther King è stato colpito e ucciso stanotte. A coloro di voi che sono negri e sono fortemente tentati dall’odio e dalla sfiducia nei confronti di tutti bianchi, posso solo dire che nutro nel mio cuore lo stesso sentimento…”.
Il senatore comincia poi ad attaccare l’amministrazione Johnson chiedendosi perché il presidente abbia appoggiato la dittatura in Brasile e interrotto gli aiuti al Perù. Egli denuncia: “Fatemi capire bene, mi state dicendo che l’Alleanza per il Progresso si è ridotta a questo: se nel Perù c’è una presa di potere da parte dei militari, i partiti politici fuorilegge, la chiusura del parlamento, gli oppositori politici messi in prigione e le libertà civili soppresse, gli autori di tutto questo ottengono ogni aiuto dal governo americano. Ma se mettono le mani su una compagnia petrolifera americana noi tagliamo tutti gli aiuti”. “E’ così”, è la risposta del vicesegretario di Stato per gli affari latino americani.
Bob decide quindi, definitivamente, di candidarsi alla presidenza e promette che la sua elezione significherebbe la fine della guerra in Vietnam, per la quale si batteva anche il fratello John, e la pace in tutta l’America.
Nel maggio del 1968, Michael Dorman pubblica per mezzo della rivista “Ramparts” un articolo che rivela che la carriera di Lyndon Johnson e di Tom Clark, giudice della corte suprema degli Stati Uniti e padre di Ramsey Clark, erano state favorite dai soldi e dai voti procurati dal boss Carlos Marcello e da Jack Halfen, uno dei suoi soci. Johnson non contestò mai l’articolo il quale lo accusava di aver usato la propria forza politica “sulle sporche strade delle città del Texas da lui controllate: Houston e Austin, San Antonio e Dallas, in un’orgia di connivenze fra politicanti, petrolieri, costruttori e mafiosi… l’uomo che pagava l’allora senatore Johnson e gli altri politici era il gangster Jack Halfen, del giro di Carlos Marcello”. Pare che Johnson avesse addirittura tentato di far scarcerare Halfen quando questo fu arrestato e che anche il deputato Albert Thomas fosse in contatto con il gangster. L’articolo parla inoltre di un’implicazione di Sam Rayburn, il potente leader del Congresso di Washington che presentò Johnson a Roosevelt. In cambio dei favori della mafia, Johnson contribuì all’eliminazione delle leggi anti -gangster che avrebbero potuto nuocere all’amico Halfen. L’amicizia tra il politicante e il gangster è ampiamente documentata grazie anche alle indagini svolte dal procuratore federale di Houston, il repubblicano Malcom R. Wilkey. Sempre all’interno dell’articolo Dorman, il quale sostiene che Robert Kennedy si era in passato rifiutato di indagare sui rapporti tra Halfen e i politici poiché vi erano troppi democratici coinvolti, si dichiara convinto che l’elezione di Bob avrebbe, oggi, riportato l’ordine.
Durante la campagna elettorale Bob deve scontrarsi con molti nemici tra i quali Frank Sinatra e Mickey Cohen, il gangster che Robert aveva fatto incarcerare e alle dipendenze del quale lavora un certo Sirhan Sirhan, ex fantino di origine palestinese. E sarà proprio Sirhan, al termine di un comizio tenutosi a Los Angeles, a sparare contro Robert Kennedy otto colpi di pistola, uno dei quali, quello mortale, alla testa. E’ il 5 giugno del 1968. Il 6 giugno Bob muore e, come era accaduto per Martin Luther King, il ministro Ramsey Clark esclude l’ipotesi del complotto.
In riferimento alla morte di entrambi i fratelli Kennedy, Gianni Bisiach scrive che “secondo le prove e le testimonianze che riuscii a raccogliere, i mandanti della congiura erano stati i boss di Cosa Nostra, Calogero Minacori (alias Carlos Marcello) capo della ‘famiglia’ di New Orleans; Salvatore Giancana, capo della ‘famiglia’ di Chicago; Santo Trafficante, ‘padrino’ del traffico mondiale dell’eroina e capo della ‘famiglia’ della Florida; Jimmy Hoffa, boss del sindacato degli autotrasportati, con sede a Chicago e Detroit; Filippo Sacco (alias John Roselli) boss del sindacato di Hollywood; il petroliere di Dallas, Haroldson Lafayette Hunt e i suoi figli. Alcuni agenti dell’Fbi e della Cia erano al corrente dell’esistenza di Oswald a Dallas, lo controllarono strettamente nelle settimane precedenti l’attentato e inviarono numerose comunicazioni di servizio che lo riguardavano e che non furono segnalate a Kennedy. Non è del tutto chiaro, da questo punto di vista, il livello di responsabilità e di eventuale connivenza dell’allora direttore dell’Fbi, Edgar Hoover… Sei anni dopo, la commissione senatoriale Church chiamò a testimoniare i boss Giancana, Hoffa e Roselli. Tutti e tre furono uccisi prima di arrivare a Washington. I due superboss Marcello e Trafficante non ebbero bisogno di farsi uccidere: si fidarono del proprio silenzio”.
Nel luglio del 1979 il Final Report della Commissione Stokes della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, o meglio Select Committee on Assassination of the U.S. House of Representatives (Investigation of the Assassination of President John F. Kennedy), confermò autorevolmente l’ipotesi presentata da Gianni Bisiach nel film “I due Kennedy” (1969) del complotto mafia -petrolieri -esuli cubani -servizi segreti. Nell’appendice del libro “Il Presidente”, dal quale abbiamo tratto le indagini presentate in questa sede, tra le altre cose leggiamo: “William E. Colby, direttore della Cia dal 1973 al 1976, ha lavorato all’ambasciata americana di Roma dal 1954 al 1958 ed è stato nel Vietnam negli anni ‘60. E’ venuto a Roma per presentare il libro “Il Presidente” di Gianni Bisiach. Nella trasmissione “Pegaso” del TG 2 del 18 marzo 1991, ha così risposto alle domande di Bisiach: … … Io ho analizzato con grande attenzione questa questione, cioè degli eventuali legami della Cia con la morte del nostro presidente. La risposta che posso darle è no, non abbiamo avuto nessun collegamento diretto… Però Bisiach ha ragione nel dire che noi avevamo dei rapporti con la mafia. Questo è stato un nostro terribile errore. Effettivamente è vero, Bisiach ha ragione ad affermarlo”.

 Messaggio di Eugenio Siragusa

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