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8 - La fuga Avevamo studiato meticolosamente tutte le cose; minimo e quasi nullo risultava l'equipaggiamento, ma tutti e tre avevamo una carabina e alla cintola bombe a mano, era comunque indispensabile avere il senso d'orientamento, essere decisi ed astuti. Prendemmo la direzione sud-ovest puntando dritto su Millerovo; era essenziale agire, muoversi, fare presto. Si decise di scartare la vallata dove correva la strada e si puntò verso la pianura. Avevamo camminato tutta la notte, non badando all'immane fatica e non tenendo conto del tempo, delle soffiate gelide del vento e delle spruzzate di nevischio che ci arrivavano addosso. Ogni tanto ci fermavamo coll'orecchio teso a percepire movimenti, rumori, gli occhi rimanevano puntati in un continuo scrutare per poterci muovere sul terreno sporco e ghiacciato, scansando quello bianco e innevato che poteva essere una trappola perché ci si poteva affondare. Eravamo guidati dall'istinto e da una forza invisibile, sovrumana. Il colore, la luce del giorno che giungeva non era tanto diversa da quella della notte. Era sì più sbiadita, ma sempre grigia e sempre la stessa; il cielo era coperto, anche il sole ci aveva abbandonato. Raggiungemmo un percorso segnato da scie di automezzi passati da poco; nascosti fra le poche isbe avevano trovato rifugio due automezzi della Croce Rossa. Erano stracolmi di feriti. I conducenti ci raccontarono che la sera precedente s'erano trovati fra l'inferno: la strada, subito dopo Cerkovo, era intasata di ogni sorta di veicoli ed i Russi, occupate le alture, avevano concentrato il fuoco con mortai e carri armati creando uno sbarramento e seminando morte e distruzione. Le previsioni non sembravano tanto rosee; si diceva che il giorno prima i Russi avevano sfondato il fronte e stavano prendendo alle spalle l'ottava Armata italiana. A nord avevano riconquistato Kantarnirowka e Cerkovo ed ora puntavano su Millerovo per tagliare ogni possibilità di fuga. Noi eravamo lì a consultarci: attraverso i documenti topografici sapevamo che Millerovo non era lontana e che potevamo continuare la marcia. Avevamo recuperato le energie e avevamo l'opportunità di proseguire a bordo di automezzi anche se frammischiati ai feriti. Mi infilai in un cantuccio facendo da appoggio alle braccia martoriate di un compagno e così pure gli altri due, il Piera ed il Vendrame, si erano sistemati alla meno peggio. La giornata era proprio pessima, il tratto impraticabile e pieno di buche ed allora si sentivano le urla, i lamenti dei feriti e ogni genere di imprecazioni. Intanto si avvicinava la sera ed era il momento più propizio e atteso per tentare la sortita. Aggirata una balza, il vento ci fece riudire il crepitio delle mitragliere, i colpi di mortaio, intervallati da quelli degli anticarro. Evidentemente eravamo nel vivo della battaglia. Era stata necessaria una pausa per capire che dovevamo superare l'ultima barriera, la collina, per rivedere la Millerovo dalle tante strade. Ci fermammo per un po' di tempo attendendo le ombre della notte che ci avrebbero portato un po' di calma. Non si trovava la forza di parlare: erano solo gli occhi a leggere in ognuno di noi lo sgomento di dover subire una guerra ed essere invischiati nelle sue spire di morte e atrocità. Provammo a muoverci, ma fatti appena 300 metri una scarica di mitraglia inchiodava i nostri due automezzi e fu allora che capimmo che era arrivato il momento di giocare la nostra vita, il nostro destino. Decidevamo così di lasciare quegli sventurati alla loro sorte; ci buttammo a terra carponi, strisciando nel buio e osservando che due erano le postazioni che controllavano lo sbocco della strada spazzando il fondovalle con tiri incrociati. Avevamo intuito che solamente 200 metri ci separavano dagli avamposti tedeschi, accorsi per fermare l'avanzata dei Russi. E così si ebbe modo di osservare l'inferno dei due schieramenti che non riuscivano a prevalere l'uno sull'altro. Noi intanto ci portavamo sempre più sotto sfruttando i punti più oscuri e vivendo minuti che sembravano eternità. Le traiettorie degli spari si vedevano partire ed arrivare in un contorno d'immensa confusione. Fiammate di fuoco, sventagliate di mitragliatrici, vampate di esplosioni davano l'idea dell'inferno. A notte inoltrata, quando pareva ci fosse un momento di calma, ci si accorse che eravamo in vista dei Tedeschi che, rintanati come noi, attendevano l'urto dei tanks: i carri armati. Mi venne spontaneo gridare "Italianisc camarad" per sentirci salvi, felici d'essere riusciti a eludere il cerchio di fuoco. Ma era un'illusione: venimmo, infatti, accompagnati alla presenza dell'ufficiale tedesco Comandante, una vera peste poiché riconosciutici Italiani, manifestò subito il suo disprezzo ed in modo frenetico ci affiancò ai suoi soldati con l'ordine di preparare una trincea di sbarramento. Il lavoro appariva febbrile, non era certo facile creare trincee all'istante, ma pistola in pugno, il tedesco minacciava chiunque si dimostrasse poco zelante. Vennero i blindati russi a portare scompiglio travolgendo tutto e scompaginando ogni cosa. In quel frangente capimmo quanto i Tedeschi ce l'avessero con noi Italiani. Mentre l'armata rumena al sud era travolta, anche la Sesta Armata di Von Paulus si trovava accerchiata e costretta a difendersi contro forze preponderanti e contro il freddo del generale inverno, uno dei più rigidi che segnarono la storia. Nel frattempo, a notte fonda, riapparivano alla testa della colonna russa i tanks cingolati da 35 tonnellate. Ogni difesa contro quei mostri era nulla. I Tedeschi se ne erano accorti e con mossa fulminea, lasciavano la periferia per rintanarsi al centro città. E così i pochi automezzi a disposizione erano presi d'assalto perché tutti tentavano di servirsene per accelerare la fuga e svincolarsi dal nemico. Nella ressa c'erano anche soldati italiani. Noi, evitando la confusione, ci eravamo allontanati seguendo l'anello stradale della periferia, ma avevamo notato in che modo i Tedeschi si rifiutavano di dare assistenza ed aiuto ai nostri compagni: a coloro che si aggrappavano agli automezzi erano riservate le pestate alle mani coi calci dei fucili e poco importava di far vedere la loro tracotanza e vigliaccheria. Cercammo di allontanarci il più possibile da quella zona che rimaneva teatro di continui scontri. I Tedeschi vi facevano affluire numerose truppe provenienti anche dal Caucaso ma i Russi erano ormai padroni della situazione. Noi cercavamo di guadagnare chilometri su chilometri per sfuggire alla loro avanzata ed avere così un buon margine di sicurezza. Non si pensava a niente, né alla fame, né alla stanchezza e tanto meno alle avverse condizioni del tempo. Si tirava avanti con l'unico scopo di allontanarci, di correre verso sud-ovest, verso il Donez, costeggiare il mare e risalire verso l'Ucraina. Sulla strada intanto il traffico aumentava frenetico e caotico. Non eravamo ben visti da coloro che incontravamo e che risalivano verso Millerovo, contesa, accerchiata. Ma a noi poco importava degli altri e si continuava nella marcia, badando a scansare eventuali incontri ed a non dar nell'occhio ai camerati tedeschi. In un attimo di sosta il Vendrame si accorse di alcuni automezzi abbandonati: una DKV 350 giaceva seminascosto e non era all'asciutto di benzina. Ci pareva di sognare e gridammo al miracolo. Il Piera in un balzo aveva preso posto rannicchiandosi sulla carrozzella con le carabine ed i nostri zaini mentre io salivo sulla sella posteriore avvinghiato al Vendrame per difendermi dal freddo cane. Ci mettemmo in corsa, una corsa dissennata, tanto veloce quanto consentiva il fondo stradale; era un continuo sobbalzo, una bestiale tesa di nervi, di forza, di resistenza. Avevamo percorso sì e no una ventina di chilometri quando un agglomerato di isbe si intravide ad una certa lontananza. Finiva lì il sogno, la corsa: si era esaurita la benzina e con essa la speranza di alleggerire ulteriormente il percorso. Ci avviammo verso il villaggio che sembrava vicino, ma che era maledettamente lontano: benché stanchi morti dovevamo raggiungerlo per trovare qualcosa da mangiare e passare la notte al riparo dalle intemperie. Ci si arrancava, ubriachi di sonno e di sfinimento, ma confortati dal pensiero di trovarci ancora vivi, solo perché aggrappati al nostro coraggio. Noi, infatti, eravamo i soli a camminare controsenso ed a vedere la strada delinearsi dritta, spazzata dal vento gelido e pungente che soffiava proveniente dal Volga, dalla steppa dei Calmucchi e poiché scendeva la sera, la temperatura toccava i meno quaranta gradi e più sottozero. I nostri visi erano mascherati dai ghiaccioli che si formavano respirando, ma era indispensabile non fermarsi per nessun motivo per non diventare statue od esseri ghiacciati. Era quasi buio quando si arrivò al villaggio: il silenzio dominava sovrano e pareva che non ci fosse segno di vita e che tutto fosse in abbandono. Si bussò alla porta di parecchie isbe, senza che alcuno si facesse vedere, sembrava fossero disabitate. Ci spostammo verso il centro e bussando alla porta con il calcio del fucile, finalmente una "babusca" ci venne ad aprire con aggrappati alla gonna, spauriti più che mai, alcuni bambini. Non ci vollero molte parole: erano le nostre misere condizioni a dirle che si veniva dal fronte esausti, stanchi, affamati, pieni di sonno. La donna aveva capito ed abbassando il capo, col cenno della mano, ci invitò ad entrare. Un'icona appesa alla parete, un pancone ed al centro un tavolo rustico con a fronte il camino, mettevano in evidenza la povertà. S'era subito discosta a rabbonire e sistemare i bambini in un cantuccio, al riparo di un tramezzo ed una stuoia che serviva a toglierli dalla nostra curiosità. Poi venne verso di noi indicando che potevamo accomodarci sulla lettiera dietro il camino che consisteva in un piano rialzato allungato a coprire il forno, il cuocivivande. Noi increduli, seguivamo i suoi movimenti; ci toglievamo finalmente le armi e gli zaini che per giorni e notti ci erano stati di peso mentre lei aveva tolto dal forno due teglie annerite di terracotta per metterle sul tavolo. "Kartoske", patate lessate ed una brodaglia calda di miglio: era tutto ciò che poteva offrirci dimostrando la sua generosità ed il buon cuore di quella gente. Senza tante parole, aveva intuito che eravamo italiani e forse anche per questo ci soccorreva. "Italiaski carasciò", italiani brava gente, diceva, mentre ben altro sentimento ed altre parole usava per definire gli altri, Tedeschi, Rumeni ed Ungheresi. Smorzata così la fame, il Piera ed il Vendrame furono lesti a buttarsi sulla lettiera, vinti, stracciati dal sonno ed a me non rimaneva altro che vegliare. Uno strano sgabello mi servì per poggiare la schiena contro il muro ed osservare quella donna infagottata che con il tremolio delle mani mostrava una vita tribolata. Era la nonna dei bambini, obbligata ad accudirli ed a pensare a loro, a salvaguardare la casa, in quanto la figlia era dovuta scappare al di là del Volga e il compagno sessantenne era stato deportato dai Tedeschi nei campi di lavoro a Rostov sul mar Nero. Era una realtà che già conoscevo, comune a tutta quella gente, che lei nel suo linguaggio mi borbottava come la recita di un rosario fin tanto che mi addormentai. Mi risvegliai al mattino quando ormai era giorno, sentivamo ancora la stanchezza per le fatiche ed i disagi patiti, ci sentivamo spenti; ciò nonostante, armi alla mano e i quattro stracci in spalla, salutammo riconoscenti quella santa donna e ripartimmo fra gli sguardi mortificati di quelle creature. Inconsci, avevamo ripreso a camminare fra le intemperie di un giorno sconvolto dal tempo. Freddo intenso, gelido nevischio, eravamo quasi sospinti dalle ventate il cui freddo ci penetrava nelle ossa e ci costringeva a muoverci per non diventare fantasmi di ghiaccio. Si doveva rifare parte del percorso del giorno prima, diretti verso Voroscilovgrad poiché la strada che portava a sud a Rostov era troppo lunga e trafficata. Si camminava uno dietro l'altro, con la sola forza del nostro coraggio, in un'abulia fisica che ogni tanto ci costringeva a far sosta e ad aver così modo di guardarci negli occhi e cercare di indovinare i pensieri dell'uno e dell'altro poiché non c'era tanta voglia di parlare. La nostra mente era confusa così come la nostra situazione. Si era persa completamente la cognizione del tempo: era solo la luce a guidarci nel rigore del terribile inverno. Si camminava nello squallore di una zona pianeggiante, segnata in parte dalla continuità del nevischio ed in parte dai miseri, bruciacchiati ciuffi d'erba; si camminava nella solitudine più completa, senza poter contare le ore e sempre con gli occhi rossi, tesi nel miraggio di scoprire le prime sparute isbe come avvisaglia di territorio abitato, le cui distanze fra i villaggi contavano dai 50 ai 100 chilometri ed anche più. Ci consolava solamente il fatto che eravamo diventati padroni del nostro tempo e della nostra volontà, sguinzagliati in libertà per aver saputo sfuggire agli orrori di una guerra che noi non sentivamo più. E vennero a calare le ombre della sera quando si arrivò al villaggio. Oramai per me era diventato come un gioco bussare, chiedere pane o qualcosa che ci potesse sfamare e pure un riparo per la notte onde sfuggire il rigore del freddo. |