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6 - Natale di guerra I giorni trascorrevano veloci ed io già contavo il mio terzo Natale di guerra. Il freddo si faceva sempre più forte e la temperatura sempre più rigida. Dal fronte non trapelavano notizie, il silenzio faceva presagire che qualcosa stava per accadere. Anche l'attività aerea si era fatta più intensa, specialmente lungo la strada Bougusha-Millerovo. Al nord, sul settore delle Divisioni Cosseria e Sforzesca, già nel mese di settembre ed ottobre, i Russi erano riusciti a crearsi una testa di ponte di là dal fiume e strenui combattimenti non valsero a ricacciarli. Quella testa di ponte ed il fiume ghiacciato avevano loro giovato moltissimo per ammassare ingenti forze in uomini e mezzi corazzati. Con il giorno di Natale era iniziato un continuo, infernale martellamento d'artiglieria su tutto l'arco del fronte tenuto dalla nostra 8° Armata, su quello tenuto dai Rumeni e sul fronte della sesta Armata dei Tedeschi che tentavano di occupare Stalingrado. I nostri reparti rispondevano al fuoco come potevano, ma la breccia era già fatta, così come al sud, sul settore di Stalingrado. Il comando russo stava completando il movimento a tenaglia e per noi Italiani, la sorte era ormai segnata. L'alba del giorno 26 sorgeva con gli echi del frastuono delle cannonate e degli scoppi delle granate e col passare delle ore, il rumoreggiare si faceva sempre più distinto, sempre più vicino . Noi, preoccupati guardavamo le colline che cintavano l'avvallamento dietro le quali scorrevano le acque ghiacciate del Don, e dove di tanto in tanto apparivano bagliori di fuoco, seguiti da nuvole di fumo. La battaglia era in corso. Verso l'una, un portaordini ci veniva a comunicare l'ordine di evacuare la zona, distruggere tutto quello che non era possibile portarci addietro, e raggiungere il Quartier Generale. Eravamo accerchiati! Già dalla strada, in lontananza, si vedevano movimenti di soldati appiedati, a piccoli gruppi e colpi d'artiglieria li seguivano e li disperdevano. Noi intanto ci eravamo adunati: tutti i documenti e la contabilità della Sezione stavano scoppiettando nel fuoco perché l'ordine era di bruciare qualsiasi cosa potesse essere utile al nemico. Solo il libro protocollare mi ero infilato nello zaino assieme a quattro scatolette ed al quadrello di pane nero che mi doveva sfamare per i dieci giorni a seguire e che, poco prima, ero corso a prendermi a casa di Fiegna. Lei e sua madre erano già fuggite e a loro avevo lasciato parte del mio vestiario, anche per alleggerirmi del peso. Intanto cominciavano a cadere le bombe: l'isba che quaranta giorni prima avevo adibito a sede era in fiamme; non c'era tempo da perdere e dietro ordine del Tenete Rocchi, raggiungemmo la strada che già brulicava di soldati sbandati; ci fu molto faticoso fare quel tratto in salita perché pareva ci avessero tagliato le gambe. Eravamo un gruppo di quindici unità; ci tenevamo in contatto chiamandoci per nome, in quanto si doveva stare sparpagliati per non fare da bersaglio. Eravamo mischiati ad altri soldati e non c'era tempo di guardarci in faccia. Alcuni avevano iniziato a camminare già dalle prime ore della notte, qualcun altro s'era messo in cammino di mattino. Tutti avevamo addosso il silenzio della disperazione. Qualcuno imprecava, bestemmiava contro la sorte ed i Comandanti e per la mancanza degli automezzi. I nostri due in dotazione, che avevamo lasciato il giorno prima, erano adibiti, sembra, al trasporto dei feriti. Eravamo quindi tutti appiedati e grande era la confusione. C'era gente stanca, sfinita, che stentava a tenere il passo e noi a rincuorarli, dicendo loro: "Dai, ce la faremo". Eravamo in marcia già da un paio d'ore e la strada era in salita. Il Vendrame, Il Carletto, lo Zanni, il Rombaudi, dietro a me, ogni tanto mi chiamavano ed io, voltandomi a cercarli con lo sguardo, non potevo evitare di vedere lo spaventoso scenario di disgregazione, di disordine. La strada era diventata come un biscione d'esseri umani sospinti a fuggire agli orrori della guerra. E non mancavano i caccia a seminare maggior scompiglio ed ancora morte e disperazione. Era terribile dover sottostare indifesi ai mitragliamenti feroci, assassini, vedere quei caccia abbassarsi e passare sopra a volo radente. Non rimaneva altro che chiudere gli occhi, tappare gli orecchi e considerarsi già all'altro mondo. Io che ho vissuto quei momenti, non li posso certo dimenticare Eravamo sull'imbrunire di una sera grigia e la nostra marcia non poteva arrestarsi: mancavano una decina di km. per raggiungere il Quartier Generale. Intanto il buio era calato e ci proteggeva, ci salvava. Faceva freddo, ma non si sentiva, non si sentiva neppure la fame, solo il bisogno, il coraggio di andare avanti e di restare ammutoliti. Al nord c'erano quelli di Kantarmirowoka e più in giù, ma più vicino, quelli di Cerkovo. Tra i bagliori ed i fumi, si sentivano sinistramente gli scoppi dei barattoli e gli odori delle conserve; poi ancora si vedeva il lampeggiare delle pallottole traccianti dei carri blindati, strategicamente appostati. Erano visioni d'angoscia, di terrore e quel che è peggio, era il sapersi accerchiati e non avere scampo. Era quasi notte quando raggiungemmo la zona, il punto d'incontro. Era un'altura molto estesa, coperta dal brulicare di reparti vari, gruppetti d'uomini frammisti in un ammasso fra slitte stracariche di zaini e d'esseri umani, morti nello spirito, sfiduciati, con pochissimi mezzi di trasporto. Generali, Colonnelli, Maggiori ed altri ufficiali: eravamo diventati tutti uguali. Migliaia erano i soldati e non c'era più baldanza in alcuno: tutti erano costretti a tacere, a meditare una rassegnazione ingloriosa, immeritata; tanti, tantissimi erano quelli che avevano perso tutto e vagavano con i soli pastrani stracciati a ripararsi dal nevischio e dal vento gelido, pungente, tenendosi stretti, ammucchiati. Altri soldati invece si stavano cercando spauriti, disperati . . . |