il rimpatrio
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m.mucchietto@libero.it

 

 

13 - Il rimpatrio

Era il mattino del 15 marzo quando mi fu dato l'ordine di distribuire l'ultima dispensa. Fu singolarmente ricca e ciò era preavviso di partenza per il rientro in Italia e motivo di tanto entusiasmo in noi. Mi avevano ordinato inoltre il compito di catalogare la giacenza viveri e portarne copia al Comando di zona della 282^ Divisione tedesca a Gomel. In pratica dovevo fare il trapasso di consegna. La cosa mi aveva messo a disagio: mi puzzavano quei 30 Km. da fare. Avrei voluto starmene nel gruppo a scanso d'eventuali sorprese e quindi chiedevo ai compagni chi di loro volesse farmi compagnia in cambio della mia razione di sigarette. Un certo Zugliani e il Mori si offrirono di accompagnarmi; partimmo subito puntando verso la ferrovia. Eravamo tre uomini e con noi c'era anche Lilla: formavamo così una pattuglia speciale, autonoma, indipendente. Il modo migliore per arrivare a Gomel era la ferrovia e poiché un convoglio stava per sopraggiungere, approfittammo della sua lenta corsa, per salire e sistemarci.

Il treno era lungo: al seguito della locomotiva a vapore c'erano due vecchie carrozze ed alcuni carri che servivano da trasporto di autoveicoli e mezzi bellici. Questo significava che la linea era di particolare importanza dal punto di vista strategico e quindi era oggetto di attentati da parte dei partigiani. Il percorso non era lungo, ma attraversava una zona paludosa, con macchie boschive: siccome correva voce che fossero saltati i binari e il ponte, subivamo un continuo rallentamento e interminabili soste. Pur di non lasciar passare altro tempo, tenuto conto che Gomel non era poi tanto lontana, decisi di riprendere lo zaino in spalla e ci rimettemmo in marcia. Nonostante le notevoli difficoltà, badavamo a non mettere piede fuori della linea dei binari poiché i sentieri laterali potevano essere minati. Giungemmo alla sede del Comando di Tappa italiano. Là passammo la notte fra i rumori e il trambusto dei convogli in corsa e le spinte dei vagoni dei treni in formazione; poi, fattosi giorno, andammo ad espletare le pratiche conclusive.

Finalmente ero libero!

Con un gran respiro di sollievo potevo gridare contro quella maledetta guerra e i capoccioni che l'avevano voluta. La tradotta che stavano formando era certo uno degli ultimi treni in allestimento per il rimpatrio dei resti del materiale e delle truppe: ciò che rimaneva dell'ARMIR, l'armata italiana, erano le migliaia di caduti e di prigionieri.

Il 16 marzo non fu un giorno come gli altri, ma un giorno di spasmodica attesa: le ore passavano e la sera stava per sopraggiungere quando finalmente apparve uno sbuffante locomotore che trascinava una lunga fila di vagoni. Noi eravamo lì, trasognati, mentre rivedevamo i compagni che avevamo salutato e lasciato due giorni prima. Si susseguirono i controlli, le verifiche dei superstiti, degli automezzi e del materiale. In testa al treno c'era il locomotore, poi il postale ed una carrozza passeggeri che faceva da sede, ufficio, mensa e dormitorio esclusivamente per gli Ufficiali. Seguivano due vagoni chiusi, come quelli che nell'anteguerra erano adibiti al trasporto degli animali e che servivano ora al trasporto delle bestie-soldato. Il convoglio terminava con una lunga fila di carri piani, sovraccarichi di automezzi tra cui spiccavano i camion con i segni della Crocerossa e fra le cui cabine noi trovammo posto.

Fu il 18 marzo 1943 che iniziò finalmente il viaggio di ritorno e del rimpatrio, ma solo dopo ben 31 lunghissimi giorni e dopo 5.000 chilometri di tran tran e di stanca vita sedentaria volse al termine. Fra l'oscurità della notte in cui veloci ombre si susseguivano, noi stavamo rannicchiati e ci lasciavamo trastullare dai sussulti della corsa e vincere dalla sonnolenza, pensando ai ricordi dei giorni trascorsi. Di giorno, il paesaggio appariva sempre lo stesso: prati e radure, betulle e conifere fuggivano al nostro passaggio e tali visioni rivivono ancora nella mia mente. Si viaggiò nella zona centrale della Russia Bianca e si giunse verso sera a Minsk dove il treno fermò la sua corsa in una selva di binari. Zelanti guardie locali ci proibirono di scendere fino a quando il treno raggiunse finalmente il terminal, di fronte ad un ampio caseggiato che era il Campo contumaciale. In quel luogo, come derelitti che potevano essere portatori di infezioni coleriche o di tifo petecchiale, fummo costretti a scendere con tutti i nostri stracci e in fila, aspettando il nostro turno, a subire, tramite forbici e rasoi, la completa eliminazione di tutti i nostri "peli". Il trattamento si concludeva con una doccia e col rivestimento dei nostri indumenti che nel frattempo erano stati bolliti. ….

Lasciato quel terminal, iniziò la corsa alla volta di Brest, verso sud-ovest, il confine polacco: fu l'inizio di un lunghissimo rosario fatto di innumerevoli soste forzate per dare la precedenza ai treni che, in senso contrario, andavano e venivano ad alimentare il fronte del nord-est. Furono necessari 30 giorni e 30 notti per superare il percorso che va da Minsk toccando Brest, Varsavia, Kiev, Cracovia, e attraversando la Slovacchia e l'Austria, giunge a Tarvisio confine, il suolo della Madrepatria. Il susseguirsi delle visioni delle rovine di Brest e Gracovia prima e dell'immensa pianura della Slovacchia e dell'Austria poi, non furono sufficienti a distrarci e a far vincere la noia. Era una sofferenza continua l'incessante numero delle fermate di giorno e di notte durante le quali noi ci sentivamo abbandonati da tutti e colpevoli per essere sopravvissuti….

Avvicinandoci all'Italia il tempo si manteneva benigno. Le previsioni erano buone e il vento era quello di primavera; si presagiva aria di festa perché l'eco dei rintocchi delle campane si propagava fra le montagne annunciando che la Pasqua era vicina. Il nostro cruccio era quello di non poterla festeggiare in famiglia.

Finalmente il treno fermò la sua corsa a Tarvisio Dogana. Una certa euforia si manifestò: eravamo in Italia e si compiva l'odissea. I finanzieri ci accolsero calorosamente e alcuni di loro ci accompagnarono al piazzale della stazione dove una Compagnia di militari rendeva gli onori di rito al suono della banda e alcune ragazze, con cestini di fiori e sorrisi, festeggiavano il rimpatrio degli ultimi superstiti.

Finita la cerimonia, due pullman ci accompagnarono a Camporosso in un Campo di contumacia dove le autorità ed altri militari ci schedarono minuziosamente e ci tennero in "caotica" prigionia per 15 giorni, da trascorrere con giochi, divertimenti vari, spettacolo di riviste condotte da intraprendenti donnine con lo scopo, simile a un lavaggio del cervello, di farci dimenticare i patimenti della campagna di Russia. Era il 18 aprile, vigilia di Pasqua. L'uscita era preclusa in modo assoluto e i giorni erano diventati opprimenti: la voglia di tornare al paesello, di rivedere la famiglia, i fratelli, i compagni, si faceva sempre più pressante mentre del "can-can" non me ne importava nulla.

Venne finalmente l'ultimo giorno. Mi fu data una nuova divisa, nuovi indumenti, nuovo zaino e con una licenza straordinaria di 30 più 10 giorni, fui accompagnato alla stazione di Tarvisio. Mi furono consegnati i documenti di viaggio. Era il 3 maggio 1943.

Durante l'ultimo tragitto in treno, immaginavo la gran sorpresa che avrei fatto ai famigliari; infatti, del mio ritorno nessuno era stato informato.Scesi a Treviso e trovai la coincidenza per Vicenza dove arrivai verso le quattro del pomeriggio. Avevo due ore di attesa per il trenino della Riviera Berica detto "la vacca mora" e quindi per ingannare il tempo, m'incamminai verso il Santuario del Monte Berico, dedicato alla Madonna, per una visita di ringraziamento. Con me c'era Lilla al guinzaglio che avevo lasciato di guardia allo zaino nella piazza antistante la chiesa e che roteandogli intorno, teneva a bada i curiosi offrendo così lo spettacolo della sua intelligenza.

Dopo aver preso il trenino arrivai all'imbrunire alla fermata del paese "Ponte di Mossano" e i tre chilometri che mi dividevano da casa li superai con passo svelto, senza sentire alcuna stanchezza. L'incontro con i famigliari fu indescrivibile: i pianti di gioia, le manate sulle spalle, gli sguardi compiaciuti delle zie, dei vicini e più ancora quelli del nonno, esprimevano la fortuna ed il miracolo nel rivedermi vivo e sano, nuovamente fra loro.

                                                                                                                                                                       Sante Mucchietto