verso il fronte
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m.mucchietto@libero.it

 

 

3 - Verso il fronte

La notte l'avevamo passata alla zona periferica di Brest; all'alba eravamo già in movimento. Il paesaggio era in parte offuscato dalla foschia e la visione dell'immensa pianura, del terreno paludoso in ebollizione era grigia, misera, bruciacchiata. Il treno correva lentamente, parallelamente al grande fiume, il corso del Dniepr e ci vollero ben quattro giorni per superare la distanza dei 1200 km. tra Brest e Kiev. Le soste erano diminuite ed avvenivano solo per il rifornimento di acqua e carbone alle locomotive. Infuriavano intanto le battaglie per la conquista del bacino del Donetz e all'inseguimento delle truppe russe che si erano sganciate e correvano ad assestarsi al Don. L'euforia dei Tedeschi per la strepitosa vittoria di Kharkov non si era ancora spenta, era fortemente sentita per l'annientamento delle armate sovietiche in quella sacca. Avevano fatto 240.000 prigionieri. Il loro morale era alle stelle e facevano sfoggio del loro credo e delle loro doti di superuomini invincibili.

Lungo tutto l'arco del nostro trasferimento, i segni della guerra divennero sempre più evidenti e più marcati all'avvicinarsi a Kiev, la capitale dell'Ucraina. Lungo la ferrovia il terreno era divelto, cosparso di buche profonde; in vicinanza alla città si vedevano i caseggiati bruciacchiati, distrutti. Era venuta la sera a cancellare col sopraggiungere dell'oscurità quello scenario di desolazione, fatto di sagome astratte e di penombre ed era arrivata anche la pioggia a farci sentire gli acri odori del fumo. Il passaggio della guerra in quella zona era stato violento, quasi fulmineo. Lo si sentiva non troppo lontano perché durante le poche ore di sosta, erano le pattuglie a sorvegliare, a trafficare nel dare ordini di partenza o a convogliare treni, dirottarne altri, lanciare imperiosi comandi e rompere così il lugubre silenzio. Ricordo che non potevamo scendere dal nostro vagone e nulla potevamo vedere. Ogni cosa ci era preclusa e così avevamo perso la cognizione del tempo.

Il nostro interminabile viaggio ci portò finalmente a Dnepropetrovsk, una grande città che non appariva tanto sconvolta, ma spenta, svuotata in parte dalla sua gente che se ne era andata per non sottostare agli ordini dei Tedeschi. Dnepropetrovsk era un centro terminale, sede di comando tappa, con parecchi quartieri adibiti a sedi dei vari comandi, e lì brulicavano come formiche i soldati dalle uniformi multicolori, di vari paesi: Tedeschi, Ungheresi, Rumeni. I Tedeschi erano i padroni, a loro spettava la precedenza. Gli Ungheresi con i loro cavalli trascinavano carrette, i loro carriaggi per il trasporto di vettovaglie, e così pure i Rumeni: dovevano seguire le guarnigioni che si erano impegnate e battute per la conquista del bacino carbonifero, il Donetz. Degli Italiani nessuna comparsa; solo un maggiore, alcuni sottufficiali e alcuni soldati acquartierati in uno stanzone, un vecchio magazzino, davano istruzioni per l'avvicendamento ed le modalità per raggiungere il proprio reparto.

Mi ci vollero ancora due giorni per raggiungere la sede, sempre provvisoria dell'11 Compagnia di Sussistenza, facente parte della Divisione Pasubio.

Mi sembrava di essermi disperso in un mondo di sogni . . .   Ebbi comunque modo di rendermi conto della reale situazione e di assistere allo smistamento di truppe,  al passaggio di colonne motorizzate, camion colmi, stipati di soldati, seguiti da autoblindo e da carri blindati, armati d'ogni genere, e tutti alla rincorsa delle avanguardie che inseguivano i Russi in ritirata. A segnare le piste erano i canali di fanghiglia e pozzanghere che si creavano con la persistenza delle piogge e della forte umidità. Le ruote dei mezzi sprofondavano con facilità in quella rossa polenta e più di uno rimaneva intrappolato, inchiodato fino a quando qualcun altro non fosse stato pronto a dare una mano  . . .

Finalmente mi venne comunicato  che dovevo aggregarmi ad una colonna di una decina di automezzi, giusto appunto quella della undicesima Compagnia Sussistenza che era venuta a fare in Dnepropetrovsk il carico di viveri. Era il 12 luglio del 1942.

La partenza avvenne con l'oscurità onde evitare possibili attacchi aerei nemici; la visione all'intorno era quasi nulla e solo la flebile penombra delle mezze luci ci permetteva di individuare la pista fangosa che ci portava a Stalino, capoluogo del bacino carbonifero del Donetz, la regione che alcune settimane prima era stata felicemente conquistata in un solo balzo in concomitanza con la battaglia per Kharkov. Dovevamo attraversare piccoli e tortuosi saliscendi, eravamo sempre in tensione e avevamo grande paura. Con continui sobbalzi e strattoni, ci lasciavamo alle spalle chilometri e chilometri senza incontrare anima viva. Così era passata la notte fino al sorgere dell'alba, quando vinti dalla stanchezza e per la necessità di raffreddare i motori, si dovette fare sosta a ridosso di alcune isbe di un villaggio. Spiccava fra queste il kolkos, una costruzione tipica, fatta di mattoni il cui impasto alla luce risultava fatto con terra, paglia e sterco bovino, il tutto ricoperto di bianca calce. La sosta non fu lunga e si riprese a viaggiare con i favori del vento che in quella zona la faceva da padrone e man mano che si andava avanti cambiava la morfologia del terreno: se prima erano le pozzanghere a segnalare la pista, ora era la terra battuta da cui si sollevava la scia di neri polveroni.

Avevamo fatto una cinquantina di km e non ci pareva vero di essere giunti nelle vicinanze di Stalino. A segnalarcelo furono le dune, i dossi, i cumuli di carbone, i comignoli delle miniere disseminate lungo l'arco della periferia. Il paesaggio era nero, tetro, senza vita, perché nulla si muoveva; tutto era lasciato all'abbandono. Provvisori cartelli segnalavano la direzione delle varie località ed altri cartelli con segni convenzionali indicavano i vari corpi di appartenenza. Non fu difficile per noi trovare e prendere la via per Rikovo. Così  eccoci  percorrere una strada battuta, ghiaiosa, a cavallo di nude e sterili colline che costituivano la regione del Dombass. Di tanto in tanto venivamo superati da mezzi motorizzati: portaordini, ambulanze portaferiti. Si incontravano pure gruppi di soldati intenti ad operare, controllare, stendere o sostituire linee telefoniche; di gente, di civili, nessuna traccia, nessun segno.

Apparve Rikovo in fondo all'orizzonte, all'est, un agglomerato sempre più grande, in evidenza. La si raggiunse in pieno giorno, quando il sole picchiava forte e la sonnolenza ci investiva, ma si doveva stare sempre all'erta a guardare all'insù che il cielo fosse libero, pulito, sgombro da quei puntini neri, o meglio da quelle virgole che erano gli "apparecchi" sempre pronti e fulminei a piombarci sopra. Fra una casa e l'altra si notavano costruzioni massicce dove fra i rossi mattoni spiccavano le allegoriche effigi della stella rossa con falce e martello. Quelle erano le fabbriche Kolkos dove alcuni mesi prima si lavorava ed ora erano là, macchiate, coi segni della distruzione per il passaggio della guerra e tutto sembrava fermo, senza vita. Attorno c'erano disordinati agglomerati di case basse, d'isbe costruite in parte con assiti di legno e altre con terra e paglia imbiancate secondo l'usanza locale; Rikovo era una cittadina abbastanza importante, distesa e disseminata lungo la rotabile che porta a Novo Gorlowka e Voroshilovgrad.

Avevamo scelto una radura e fra alcune isbe, una fattispecie di baracche, i camion della colonna si erano sparpagliati come al gioco del nascondersi per prevenire così i possibili attacchi aerei. Tranne alcuni soldati posti a fare da sentinella, quasi tutti riposarono; io avevo preso lo zaino ed ero andato ad accovacciarmi poco lontano ai piedi di una parete ed all'ombra di cespugliosi prugnoli. Avevo sonnecchiato, ma più che un sonno era stato un dormiveglia, perché ero assillato dalla morbosa necessità di conoscere il termine effettivo di quel continuo spostamento. Mi sentivo abulico, avvertivo dentro di me un certo disagio; l'esuberanza dei miei vent'anni era prigioniera, contenuta, ostacolata anche dalla mancanza di contatto con la gente. Venne sera inoltrata e di conseguenza si ripartì. Fu ancora lo stridore, il rumoreggiare dei motori ad accompagnarci nella notte. Una sorda monotonia ne rompeva il silenzio e solo la passionaria luce della luna ci era di buon auspicio: il suo apparire fra le nuvole mi aveva invogliato a riattaccare discorso e a chiedere: "ma insomma dove sono questi Russi?"

I  primi albori del giorno successivo ci vide a Voroshilovgrad. La zona era spaccata in due dalla camionabile; i rioni parevano dispersi e le isbe adagiate su dolci pendii collinari. La strada era trafficata,  i palazzacci al suo ridosso erano sede centrale dei vari organi del regime e negli spiazzi antistanti, degli scuri edifici erano adibiti a scuole o enti culturali. Fu in uno di questi che si era provvisoriamente acquartierata l'Undicesima Compagnia di Sussistenza e qui ebbe a finire il mio lungo viaggio di avvicendamento.

In quei primi giorni di permanenza, avevo avuto sentore di come era stata occupata la città e di come erano stati accolti i soldati italiani, ciò malgrado  la gente efficiente era scomparsa; la maggior parte era fuggita all'occupazione,  il restante era stata retata dai servizi ausiliari tedeschi. Avevo preso una specie di viottolo che portava alla parte alta della collina, dove si innalzava un raggruppamento di isbe e case basse. Erano costruite con assiti ed in parte con tronchi d'albero, racchiuse da uno steccato che ne impediva la vista. Formavano un semicerchio con al centro il portone tipico orientale di tipo cosacco come quelli che si erano visti nel film di Taras Bulba. Una porticina al centro ne permetteva l'accesso ed io avvicinandomi mi ero sporto a spiare. Ne rimasi sorpreso,  soprattutto per la scena rappresentata da un gruppo di quattro ragazze sedute su un lungo pancone, le quali vedendomi erano quasi esplose di gioia. Una di esse mi era venuta incontro e prendendomi per mano, sussurrando "mosna..." mi invitava a sedere fra le altre. Rimasi molto imbarazzato fra l'allegro parlottare e da quella festosa accoglienza. Quello fu il mio primo incontro con la gente. Bello, interessante, bellissimo per i miei vent'anni. Lubda era il nome di quella ragazza. Ci ritornai giorno dopo giorno, sera dopo sera. Fra me e lei si era instaurato un rapporto di affettuosa amicizia che servì a dimenticare tutti i disagi di quell'interminabile viaggio che fino a qualche giorno prima sembrava non finisse mai. E così era scomparso il pensiero della guerra, quella guerra che io dovevo servire, e che ormai ci lambiva perché vicina a pochi Km....

Nei pressi del nostro accampamento, la nostra base, ho ancora viva la visione delle persone dallo sguardo patito, non certo felice, con al seguito bambini piagnucolanti e sbrindellati. Erano i Russi, i rimasti del posto che come accattoni, gesticolando, imploravano col porgere la mano, il pizzico di Maquorka, il tabacco, durante il giorno della distribuzione delle sigarette. Ognuno di noi aveva diritto alla razione giornaliera . Era cosa normale per me non fumatore che ne facessi dono ai compagni e a Lubda, la mia amata e maestra di lingua russa.

Ma dov'erano le sue amiche e perché era sempre sola? Alla mia domanda, Lubda andò a prendersi un variopinto fazzolettone, una specie di foulard, se lo mise in testa facendosi l'annodo alla nuca. In verità non sembrava più lei, ma una ragazzina, una zingarella, per non dire, una mocciosa. Quello era il trucco per non essere retata dai poliziotti tedeschi e lo stesso trucco valeva per le sue amiche. Degli Italiani non aveva paura ma dei Tedeschi sì. Era rimasta a salvaguardare la casa con il nonno che di giorno era sempre alla ricerca di cibo per mangiare. La mamma, ancor giovane era dovuta scappare al di là del Don, al Volga, alla steppa dei Calmucchi, per non essere presa e deportata al servizio dei nemici. "Questa guerra non è bella né per me né per te", mi disse Lubda, guardandomi fisso negli occhi. Quelle parole bastarono a farmi comprendere il suo dramma, il disagio e le bestialità alle quali doveva sottostare o viceversa fuggire. Le sigarette che le donavo potevano servire al nonno per il baratto, per avere il pane, il sale o il miglio.

Arrivò l'ordine di partire per una missione di rifornimento viveri.

Ci vollero un paio d'orette per predisporre gli automezzi e formare la colonna: partimmo con destinazione Dnepropetrovsk. Erano giorni di calura. Le voci di Radioscarpa dicevano che i reparti combattenti della Pasubio avevano raggiunto il corso del fiume Don, quindi erano impegnati in un lavoro di riorganizzazione e d'assestamento. Anche il cielo si manteneva pulito: faceva caldo afoso di giorno, un po' meno di notte.

Due giorni impiegammo per l'andata ed altrettanti per il ritorno. Nelle pause giornaliere era necessario spogliarsi, mettersi a torso nudo per vincere il caldo, ma soprattutto per spidocchiarsi. In tutta la zona, dal Dniepo al Volga, fra la popolazione era persistente un'epidemia pidocchiale. Per evitarne il contagio, si doveva stare lontani dalla gente. Ma chi era senza pidocchi? Tutti ce li avevamo addosso. Era diventata cosa divertente lo sfotterci quando qualcuno, alla prima pozzanghera, al primo acquitrino, si gettava dentro, si lavava e strizzava i panni. Ma la cosa più curiosa, ridicola, attraversando i villaggi, era la visione di come quelle "babuske" davano la caccia ai pidocchi. Le vedevi accovacciate sulla soglia di casa o sulle panche al sole, con le gambe divaricate e le ginocchia a mo' di morsa stringere teste d'altre donne o testoline di bambini e raschiarle con lunghi pettini rozzi di legno, da sembrare zelanti tessitrici. Era cosa veramente penosa, ma anche questo faceva parte di questa sporca guerra.