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12 - centro raccolta
Si giunse finalmente a Dnepropetrovsk. Una densa foschia, prima dell'arrivo dell'oscurità, si levò su quello scalo grande, come grande era la città e pesante l'atmosfera, nera come i locomotori a vapore che stavano pronti a dare il cambio agli ultimi arrivati e che sbuffavano e vomitavano fumo e caligine. Altri, invece, erano a ricaricarsi di carbone o sotto un tubo ricurvo a fare il pieno d'acqua. Attraversammo parecchi binari per portarci dall'altra parte dove pochi punti di flebile luce segnalavano il centro direzionale ed altri centri di comando inerenti al settore della regione, l'Ucraina meridionale. Fra il personale che andava e veniva c'erano i civili, gli addetti a dare e portare ordini e, fra questi, i soldati della Todt di guardia e di ronda. Ad uno di questi chiedemmo dove fosse il Comando di tappa italiano, in quanto superstiti eravamo obbligati a ripresentarci e darne comunicazione. Un carabiniere venne a prelevarci e fummo condotti all'Ufficio: lo presiedeva un
tenente che, data l'ora insolita, badò a soccorrerci con una bevuta di caffè, a sfamarci
e a predisporre un locale adiacente per passare la notte. Solo al mattino, in sua
presenza, riferivamo le nostre generalità e la nostra odissea. La nostra libertà era finita: a fatica e di malavoglia dovevamo cercare la forza di reinserirci, di adoperarci per il bene degli altri compagni e tenere alto il nome della Patria lontana, nonostante per noi che avevamo patito fatiche immani per una guerra sbagliata, non avesse più senso. Con il foglio di trasferimento e una razione di viveri - pane nero duro e stomachevole margarina -, ci fu dato l'ordine di partire per Kiev e raggiungere poi Mozyr. Arrivammo al piccolo villaggio, un borgo su un declivio, non toccato dalla guerra e dove una linda chiesetta col suo piccolo campanile dominava una rosa di casupole. Fuori del borgo, alcuni fabbricati a ridosso di un'ampia radura erano adibiti a scuole e delimitati dal campo base sede del Centro di raccolta italiano ARMIR. Fummo alquanto sorpresi nel vedere un soldato fare il piantone, la guardia alla porta del fabbricato, ma più ancora nel notare il sopraggiungere di una Compagnia di soldati, seguita da una seconda e poi da una terza, in pieno assetto di guerra. Erano di ritorno da una delle solite marce, comandati da un odioso ufficiale che esigeva una disciplina da legionari. La sede era diretta da un capitano e l'organico consisteva in un centinaio di soldati, appartenenti alla varie divisioni Ravenna, Sforzesca, Pasubio, Cosseria, Torino, che arrivavano e ripartivano, nell'attesa di essere rimpatriati secondo le disposizioni dei superiori. A me toccò il compito di capo pattuglia poiché era necessario salvaguardare, in accordo con il comando tedesco, la linea ferroviaria vicina che serviva per andare a Gomel. Era vero che i civili partigiani avevano creato il cosiddetto terzo fronte ed operavano all'interno con atti di sabotaggio su convogli e linee di comunicazioni, ma era anche vero che noi, con quello che avevamo passato, non eravamo entusiasti di riprendere le armi e a me quel compito non andava proprio giù. Affiancato ad un caporale e a quattro soldati, partii comunque, per un pattugliamento, scendendo per un sentiero sino a raggiungere un canneto. Da là proveniva uno strano frusciare che a tratti si fermava per poi riprendere. Eravamo all'erta: una sagoma scura avanzava verso di noi. Stavo per premere il grilletto, ma un mugolio mi fece desistere; apparve così un bellissimo esemplare di femmina setter dal pelo fitto, lungo, color oro, con un collare. Fui particolarmente attratto dalla mansuetudine che manifestava nel leccarmi le mani: ci veniva dietro quieto ed ogni qualvolta ci fermavamo, col muso mi sfregava le gambe. Era un animale addestrato, intelligente, dallo sguardo mite, che scodinzolando esprimeva il suo affetto. Decisi di tenerlo con me e lo chiamai Lilla: avrei capito in seguito che la sua presenza mi portava un immenso beneficio perché quando mi coricavo, veniva lesto ad accovacciarsi ai miei piedi e mi riscaldava. La temperatura era sempre sottozero e il freddo si sentiva ... I giorni passavano svelti e mentre i compagni sottostavano alla marcia quotidiana e ad una disciplina insensata, il Piera era in attesa della partenza ed io ero impegnato a preparare le razioni viveri e a fare la contabilità. I viveri di scorta erano quelli lasciati dalla 282^ Divisione tedesca dislocata a Gomel; consistevano in pane nero, scatolame di margarina, krup, semi di miglio, orzo, surrogati di caffè, sigari e sigarette. Un pane nero dalla forma rettangolare e dal peso di 800 grammi, doveva bastare al soldato per cinque giorni, così pure una scatola di margarina, al tutto si aggiungeva una brodaglia giornaliera di kruf o di orzo e l'acqua tinta del surrogato di caffè. Con la partenza del Piera l'organico si era quasi dimezzato. Avevo perso un amico, ma
ne avevo trovato un altro, Lilla, la cagna che dovunque andassi mi seguiva sempre,
obbediente. Avevo fatto amicizia anche con i soldati rimasti che, rassegnati come me,
passavano abulicamente i giorni, fregandosene della disciplina e del tenente, tanto ormai
si sapeva che il rimpatrio era questione di giorni.
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