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9 - attraverso la steppa Ci si svegliò quando il sole era già alto e con il chiacchierio di due vecchi barbuti, impalati come statue, poco lontani, che ci dava occasione di attaccar discorso. Per loro, la nostra presenza non era una sorpresa in quanto altri soldati italiani ci avevano preceduto molti giorni prima. Noi eravamo i ritardatari, con la differenza che quelli, venendo dalle retrovie, avevano avuto la fortuna di essere rimasti fuori dell'accerchiamento; noi invece portavamo addosso i segni, i ricordi di un'incredibile odissea. Si era sulla strada buona, ci assicurarono, ma con una previsione di tre giorni pieni di cammino per arrivare a Voroscilovgrad. Era una tremenda mazzata per i compagni, specialmente per il Vendrame, il più vecchio. Con la stanchezza, dai loro volti trasparivano anche i segni della delusione e questo valeva anche per me. Ma una cosa avevo notato conversando con i due vecchi: la loro disponibilità. Scrutando all'intorno, mi venne il coraggio di chiedere se ci fosse qualche cavallo. La zona era povera, d'accordo, ma la pastorizia era vegeta e praticata. Il Piera, trasognato, mi stava guardando negli occhi mentre io fissavo il suo orologio da polso. I vecchi annuirono e ci accompagnarono dallo "Starosta" il capo del villaggio e del Kolkos. Nel breve tragitto, ammiccavo ai due compagni, particolarmente al Piera, facendo loro capire d'essere indulgenti e lasciarmi fare. Lo Starosta chiese quale fosse la contropartita: siamo Italiani e non siamo dei ladri come i Tedeschi, gli dissi, il nostro scopo è quello di raggiungere velocemente Voroscilovgrad e sfuggire così alle pattuglie tedesche per non cadere nelle loro mani, poiché ci impiegherebbero contro i soldati e le popolazioni russe. L'affare fu fatto: in cambio dell'orologio ci fu lasciato un cavallo al tiro di una piccola slitta. Passammo il resto della serata in compagnia dei vecchi e delle loro mogli che, prese a compassione per il nostro stato, ci sfamarono con brodaglia calda di kapusta e kartoske (verze e patate). Tutto sommato le circostanze di quel giorno ci davano nuova linfa e buonumore e forza per riprendere il viaggio. Sotto la paglia come la notte precedente, fummo vegliati dallo sguardo del cavallo di cui non sapevamo nemmeno il nome e anche lui come noi, votato all'arrembaggio, all'avventura. Alle prime luci dell'alba, riprendemmo il cammino alleggeriti degli zaini e dei fucili che avevamo caricato sulla slitta. In essa non c'era posto per tutti, così ce lo scambiavamo di volta in volta. La strada, o meglio la pista, si confondeva nella pianura grigia e squallida, patinata di nevischio e battuta dal vento e sembrava non avesse termine. I chilometri non si contavano, senza incontrare alcun essere, nel silenzio rotto solamente dal monotono sibilare del vento, si procedeva così incitando il cavallo che non doveva fermarsi. All'orizzonte, la zona collinare pareva irraggiungibile. In essa c'era Voroscilovgrad la nostra meta, il nostro sogno, la fine di un incubo. Per noi voleva dire salvezza, non più guerra ma vita. Ed io, come del resto il Piera, eravamo smaniosi di rivedere care conoscenze io la Lubda e lui la "Maruscina scerzen", la Mariuccia del cuore. Si accarezzava veramente quel sogno Le prime ore della sera stavano per prendere consistenza e il giorno moriva. Arbusti e giunchi richiamavano la nostra attenzione: se n'era accorto pure il nostro amico cavallo che di tanto in tanto si fermava a morderne la scorza. Aveva fame anche lui e come noi era sfinito, soverchiato dalla stanchezza. La maratona non era ancora finita e ci pesava molto l'aver cucito migliaia di passi con l'attraversamento della steppa. Eravamo approdati nei paraggi del Donez, il fiume che segnava i confini: di qua l'immensa pianura, la steppa, il Don, il Volga; di là la zona montuosa, le colline del Donez, l'Ucraina. Per un po' lasciammo quella povera bestia cibarsi della corteccia degli scheletriti arbusti e spigolare i pochi fili d'erba che fuoriuscivano dalla coltre di ghiaccio. Era quanto la natura potesse offrire in quel gelido clima invernale. Ci si rimise in marcia ed ecco apparire le prime isbe abbandonate. Trovammo rifugio in una di esse e passammo la notte al riparo dal freddo e dal vento. Per quanto riguarda la povera bestia, il brocco, così l'aveva battezzato il Piera, fu sciolto e lasciato libero, al riparo delle intemperie ed al margine di residui di giunchi e resti di canneto che potevano servire da biada; ma anche lui era svogliato, ridotto a mal partito, stracciato per lo sforzo sostenuto. Era stata una giornataccia, ma fondamentale per esserci portati fuori dal raggio d'azione delle pattuglie ausiliari tedesche. Così, avvinghiati l'uno all'altro, rannicchiati, avvolti nei nostri stracciati pastrani e nella misera coperta, eravamo in attesa di essere vinti dal sonno, mentre il nuovo giorno si avvicinava.. A darci la sveglia furono i morsi della fame. Lasciammo quel posto in cui non esisteva vita, manco un cane e la solitudine era padrona assoluta. Il brocco pareva essersi ripreso e noi ci rimettemmo in marcia. La pista ora dava l'impressione che stessimo lasciando l'immensa pianura. Anche la fisionomia del terreno era cambiata: una vegetazione spoglia, ma più intensa. Camminammo per qualche ora, poi, finalmente, ecco l'approssimarsi di un grosso villaggio con le sue isbe disseminate su di un terrapieno, oltre il quale si sviluppava la zona alveare del Donez. Fu quasi un obbligo sostare soprattutto perché ci eravamo accorti di essere spiati. Non c'era alcun movimento, ma i pochi rimasti erano tappati in casa ed erano i soliti anziani coi bambini dagli occhi sgranati, curiosi all'inverosimile nel vedere facce di soldati stranieri, se pure di passaggio, aggirarsi nelle loro terre, nei loro villaggi. Andando ad elemosinare qualcosa da mangiare, ricordo che una donna, nel vedermi così giovane, ebbe a maledire chi mi aveva mandato a fare la guerra; diceva che in me vedeva suo figlio e non esitò a pormi una ciotola di brodaglia calda e a riempirmi le tasche di pane e patate. Questi ricordi, a distanza di cinquant'anni hanno dell'incredibile e sembra non esistano più . Riprendemmo di buona lena la nostra marcia, risalendo la strada a fianco al fiume fino a ritrovare il ponte di barche e passare all'altra sponda. Il guaio era che il nostro brocco non ce la faceva più, dava i segni dell'esaurimento e vane erano le incitazioni. Fortuna volle che in lontananza, verso di noi, arrivasse un gruppo di profughi civili. Anche loro erano al seguito di uno sgangherato carretto, colmo di masserizie, trascinato da un cavallo. Evidentemente facevano ritorno al villaggio, liberato dalla guerra, dai Tedeschi. Ci fermammo per dar fiato al "brocco". Il Piera intanto mugugnava: gli bruciava la storia dell'orologio e la cosa non gli andava giù. Eravamo angustiati, così senza mezzi termini, imposi loro l'alt e quindi chiesi al vecchio il cambio del cavallo. A nulla valsero gli ostinati "nicevu" del vecchio, nè le grida delle babusche o il pianto della ragazzina. Mentre il Piera riattaccava il cavallo alla slitta, il Vendrame consegnava il brocco al vecchio che, impietrito, mani sulla testa ed occhi al cielo, malediva la guerra e le sue conseguenze. Sinceramente devo dire che tale atto, anche se necessario, mi lasciò amareggiato, dispiaciuto, non certo orgoglioso. Allora, per accattivarmi un po' di benevolenza, aprii lo zaino dove tenevo un paio di mutandoni di lana e rivolgendomi alla giovinetta ed al vecchio li donai loro perché non volevo essere un vigliacco. Quei mutandoni li avevo ricevuti pochi giorni prima dell'inizio della ritirata: mi erano stati spediti dalla mamma. |