Lubda
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m.mucchietto@libero.it

 

 

10 - Lubda

Non pensammo due volte a rimetterci in marcia ....

Lasciammo quella zona che limitava il corso del fiume e prendemmo la pista che continuava a salire e superare il dosso di squallide e nude alture. Gli occhi erano fissi verso nord a scrutare lo stradone che uscendo dalla valle, portava a Millerovo. Su quella direttrice si riversava il traffico confuso dei rinforzi tedeschi ed era bene starcene lontana. Passò il tempo in lunghe ore di marcia e vennero le prime ombre della sera. Voroscilovgrad era vicina. Tenemmo duro. Arrivammo a notte inoltrata, giungendovi dalla parte alta della città, a sud-est. Non c'erano luci, sembrava una città spenta, morta. Il silenzio era rotto solamente dal rumoreggiare degli automezzi e dei blindati che a fondovalle percorrevano la camionabile.

Raggiunta una piccola conca, stressati, non ci pareva vero essere arrivati. Ci sentivamo felici, consapevoli del coraggio e della forza avuta: avevamo vinto la più grossa delle battaglie, quella della sopravvivenza. Gli orrori, i mille guai passati, l'insonnia, la fame, il freddo e l'estenuante fatica delle marce forzate, era tutto alle spalle come un ricordo. Ora sapevamo di essere salvi e non c'importava più di nulla, manco il fatto di doverci consegnare ai vari Comandi, come prescriveva il Codice Militare. Sette mesi prima, quando picchiava il solleone, eravamo baldanzosi, corteggiati con devozione dalle ragazze ed ora, come fuggiaschi, le ricercavamo per rincuorarci e ricevere il loro aiuto. Io avevo conosciuto Lubda, il Piera una certa Marusca. Le loro case non erano tanto lontane: si decise di andarle a trovare con l'accordo di ritrovarsi all'imbrunire del giorno seguente.

Ripercorsi il sentiero che, seguendo lo steccato, portava alla casa di Lubda. Mi ritrovai davanti allo sgangherato vecchio portone, col cuore che mi batteva forte. Facendomi forza, aprii la piccola porta e, attraversato il cortile, bussai al vetro della finestrella a lato della casa. Provai attimi d'ansia, d'angoscia e quando me la vidi davanti non capii più niente. Lei, sbigottita, mi scrutava da capo a piedi, le sembravo un fantasma!.. Più di un mese prima tutti gli Italiani se n'erano andati.... Mi prese per mano e mi accompagnò presso il camino, quel camino testimone un tempo degli abbracci e delle sue amorevoli effusioni. All'intorno tutto era come prima: il battipanni, i fiori di carta colorata che ornavano l'icona alla parete, la panca e l'angolo delle scartoffie; non era cambiato nulla. Mi accorsi più tardi però che era cambiata lei e pure io...., il suo sergentino, mortificato più che mai, vinto, fuggiasco, sporco, impidocchiato... , ero ai suoi piedi e le chiedevo aiuto. Rimase per un po' ad ascoltare il racconto delle mie peripezie, poi, forse mossa a compassione, m'invitò a spogliarmi. Mi fu servito un secchio d'acqua, una vera manna...Mi lavai ed ebbi così modo di liberarmi della sporcizia che, a causa delle svariate vicissitudini, mi portavo addosso. Mi mise a disposizione il suo letto castigato e m'addormentai tosto, vinto dalla stanchezza.

Non era ancora l'alba quando, alla chetichella, venne a baciarmi, a lasciarmi il suo ricordo dolce, buono, umano, pietoso. Giuro che sarei voluto rimanere e che stavo per ribellarmi a tutto. Non m'importava più niente della Patria, dell'Italia, della famiglia, dei compagni e dei sei mila chilometri di lontananza da casa mia.... Con un nodo alla gola la lasciai, correndo dall'altra parte della collina ove ritrovai gli amici, il Piera ed il Vendrame, quest'ultimo febbricitante, stanco. Lo incoraggiammo, dopo tutto raggiungere Rikovo non era un gran problema: erano 40 chilometri di marcia, volenti o nolenti, con una temperatura che volgeva al disgelo.

Camminammo tutto il giorno lasciandoci alle spalle Novo Gorlowoka. Era sera inoltrata, buio pesto quando si arrivò a Rikovo e, seguendo i cartelli di segnalazione, si giunse al Centro di raccolta superstiti italiani. Consisteva in un salone, nel cuore di una vecchia fabbrica. Ci trovammo una decina d'Italiani, alcuni soldati rumeni ed altri ungheresi, anche loro sopravvissuti alla battaglia del Don. Non c'era molta organizzazione: valeva solo la parola "arrangiarsi". Quasi tutti, ammutoliti, coprivano sdraiati, parte del pavimento e nei loro volti si leggevano i patimenti della fame, del freddo e di una malcelata sofferenza.

Era trascorsa la mattinata senza che i miei compagni decidessero il dafarsi ed io, spazientito, proposi di non indugiare; dovevamo in qualche modo avvicinarci ad uno scalo ferroviario e lì cercare uno dei tanti convogli-tradotta che ci portassero a Dnepropetrovsk. La distanza non era un gran che e quello era il modo migliore di raggiungerla senza doverla fare a piedi. Nessuno s'interessava al caso nostro e questa fu la ragione che ci spinse a partire.