il convoglio
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m.mucchietto@libero.it

 

 

11 - il convoglio

Non si aveva alcunché da mangiare ed il problema era come vincere la fame. Arrivammo così in un piccolo borgo di una decina di isbe, disseminate per un centinaio di metri lungo la strada e, conoscendone l'ubicazione, sapevo che attorno c'era l'orticello e qualche recinto dove erano rinchiuse le galline, al sicuro dai ladri notturni. Ci appostammo nell'attesa di una maggiore oscurità fino al momento di agire; la faccenda sembrava tanto facile, ma non fu così: la porta era ben chiusa, tanto che il Piera dovette armarsi di fucile per far leva ed il Vendrame impegnarsi manualmente e tirare a fondo onde creare un varco. Naturalmente spettò a me entrare, a fare il predone. Mi trovai in un pandemonio: le galline, spaventate, svolazzandomi attorno, creavano un turbinio di piume e di penne. Ne afferrai una prima, una seconda, poi una terza badando nel frattempo a tirare loro il collo e a passarle fuori ai compagni. Alla fine riuscii a prenderne una quarta. Ma nel tirare il collo a quest'ultima, forse con troppa violenza, mi rimase in mano la testa che non era possibile abbandonare là, in quanto sarebbe stata simbolo di malaugurio per la credenza popolare. Dovetti quindi metterla nella tasca del pastrano badando a non lasciare tracce di sangue lungo la strada.

Aspettammo che le galline si chetassero e restammo in ascolto. Riprendemmo la strada verso una pista da dove provenivano rumori di convogli di treni. Tutto sembrava andare liscio. Ma ecco che una pattuglia tedesca ci intercetta e ci impone l'alt. Con un guizzo mi assesto fra i compagni, zoppicando e trascinato da loro, fingo di essere ferito. Il pastrano è sporco di sangue ed è facile far loro credere di essere stati sorpresi in un'imboscata di partigiani e quindi di aver necessità di essere medicato.

I Tedeschi abboccarono e corsero ad ispezionare quell'immaginario luogo da noi descritto e naturalmente in direzione opposta. Quanto abbiamo riso per quella beffa!

Proseguendo verso la zona abitata, incontrammo un mezzo barbone, un anziano civile che ci fornì di ogni sorta di informazioni. Si capì che anche lui, come noi, aveva fame. Ci accompagnò a casa sua, una stamberga, dove si accese il fuoco e si arrostirono ben due galline. Divenne una serata insolita, piena di allegria, fatta apposta per dimenticare l'insofferenza, la noia, tutti i guai che avevamo patito, la nostra vitaccia. Il vecchio viveva solo: non disdegnò a offrirci il rimasuglio di vodka di una vecchia "butilka". Si rise, si chiacchierò, poi infine fummo vinti dal sonno e così, in quella stamberga, su quattro stracci, passammo la notte.

Al mattino fu il vecchio stesso a svegliarci: ci mettemmo in viaggio alla ricerca della ferrovia. Arrivammo alla periferia di Stalino raggiungendo la zona dove avvenivano gli scambi dei convogli diretti a Dnepropetrovsk. Ci fermammo ad osservare il movimento: non c'erano ostacoli e la sorveglianza era inesistente. Pochissimi erano gli addetti manovratori, tutti civili; ne incontrammo uno del posto che, a suo dire, se ne fregava della guerra e dei Tedeschi e che ci fece salire su un convoglio di ritorno. Il treno era inverosimilmente lungo, composto per la maggior parte da pianali fatti apposta per il trasporto dei vari automezzi. Trovammo posto su uno di questi e fummo costretti a stare sdraiati per non dare nell'occhio. La posta in gioco era davvero importante: volevamo porre termine alla nostra ritirata, alle nostre sventure.

Finalmente il treno si mise in moto: dapprima pian piano, poi aumentando la velocità. Il percorso non offriva nulla di particolare: era tutta pianura ed ogni tanto si notavano acquitrini paludosi, canneti e cespugli, poi la zona divenne boschiva. Non si videro villaggi; solo di tanto in tanto doppi binari permettevano il passaggio dei convogli provenienti in senso contrario. Il più delle volte, era il treno del ritorno, quello vuoto, ad avere la precedenza, quello che strategicamente doveva andare a ricaricarsi e far sì che la guerra continuasse….