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Il colera ed
i tumulti del 1837

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Il colera ed i tumulti del 1837

Dopo la fine della feudalità, a Comiso, come in ogni parte della Sicilia, si contendevano il potere il partito dei liberali (cronici) ed il partito fautore dei Borboni (mazzacronici).
Nel 1837 in Sicilia arrivò il colera, della diffusione del quale i liberali accusarono astutamente il re Borbone.
A Comiso (dove l'anno precedente era deceduto il barone Raffaele Ciarcià, capo del partito liberale, e dove era sindaco il dott. Nunzio Comitini, esponente del partito borbonico e della fazione nunziatara), il 23 luglio il popolo insorse contro i borbonici, abbandonandosi ad ogni sorta di violenza.
Purtroppo il 28 agosto il colera arrivò a Comiso e provocò 342 morti.

In questa pagina viene riportata integralmente la narrazione, che dei fatti fece Fulvio Stanganelli (can. Raffaele Flaccavento) nel libro VICENDE STORICHE DI COMISO.





Il colera ed i tumulti del 1837

Vivamente paventato, per esser già comparso nel 1836 a Napoli, dove aveva compiuto delle grandi stragi, il colera teneva nella più grande angoscia le nostre città; angoscia come altrove, raddoppiata di cento tanti qui in Comiso, alla notizia della nomina di due notabili della Sanità pubblica, deliberata dal comune il 24 novembre, in persona di d. Nunzio Dipietro e del d.r Raffaele Perrotta, col mandato di preparar tutto l'occorrente, onde preservare la popolazione dal terribile flagello. Che nel maggio '37, attaccatosi a Palermo, in conseguenza della libera pratica accordata il 28 al brigantino Archimede, proveniente da Napoli tuttora infetta, con la rapidità del baleno si propagava in ogni angolo dell'isola.

A giudizio dei liberali, non c'era occasione più acconcia di quel colera, per tentare un'altra avventura contro il governo borbonico, e la tentarono, insinuando nelle masse la convinzione, allora comune a Napoli - e in una sua missiva, a Fanny Targioni, la confermava anche Antonio Ranieri, l'amico del Leopardi - che «il male derivasse dal veleno, che i sicari del principe Carlo di Borbone, andavano spargendo per decimare le irrequiete popolazioni del regno».

Quella insinuazione fece colpo. E tosto se ne videro gli effetti, nelle spesso cruente sollevazioni avvenute, oltre che a Palermo, a Messina e a Catania, anche a Siracusa, che i118 luglio uccideva, in un impeto di rabbia popolare, lo stesso Intendente della provincia, Andrea Vaccaro, e il commissario di polizia Gio. Vico con vari altri privati, e poi a Floridia, a Canicattini, a Modica, a Ragusa e a Monterosso, dove da quei borghigiani si giunse al comico eccesso, di dichiarare la decadenza del re Borbonico, per eleggersene uno di proprio gusto, in persona di certo Giovanni Fatuzzo.

Il nostro popolino, suggestionato da coteste notizie, la cui eco catastrofica giungeva sino a lui enormemente ingrandita, non ebbe più requie.
La spinta a muoversi gli veniva da varie parti, prevalentemente dai malcontenti del partito al potere, cui non sembrava vero di dare lo sgambetto, per i preparativi segretamente già compiuti dal Decurionato, il quale, d'accordo con i ricordati notabili della Sanità, aveva fatto costruire un carro funebre e confezionare le cosidette camicie di pece, destinate al servizio del trasporto dei possibili morti di colera. Non si aspettava quindi che il segnale dell'attacco. E questo venne la domenica 23 luglio, con l'arrivo del violento Proclama dell'avv. Mario Adorno, lanciato il 21 da Siracusa al popolo siciliano, e sottoscritto da quel sindaco bar. Emanuele Francica.


L'Adorno fra l'altro asseriva, che « il terribile cholera morbus asiatico onde tanta strage han risentito Napoli e Palermo, ha di già trovato sua tomba nella patria d'Archimede. Appena scoppiato il supposto morbo micidiale, venne discoperto non esser lo stesso che il risultamento unico e solo di polvere e liquidi venefici, i quali agiscono nelle sostanze cibarie, nei potabili e sin anche per mezzo degli organi respiratori: infettando l'aria con micidiale fetore».

A questa, non constatazione, ma, diciamolo pure, superstiziosa quanto impudente menzogna, la nostra plebaglia non si frenò più oltre, e, cupida di sangue, nelle prime ore di quel 23 (luglio) istesso, s'abbandonava oscenamente alla vendetta, che fu terribile.

Gli eroi del selvaggio avvenimento furon molti, tra questi rammentiamo i caporioni d. Vincenzo Paolino da Ragusa, Salvatore Scifo, Gaetano Caro, Salvatore Blandino, Salvatore Gurrieri alias cozzo, Carmelo Meli soprannominato zarba, Salvatore e Giuseppe Parisi e altri, seguiti da una turba schiamazzante di megere, quali Maria Corallo, Salvatrice Incardona, Pietra Tedeschi e Rosaria Demartino. Anzitutto costoro diedero l'assalto, e distrussero immediatamente il carro preparato per i colerosi, del quale vollero conservate le sole ruote che, come un trofeo di guerra, andarono ad appendere al simulacro di S. Biagio, che poscia gettavansi furiosamente su le spalle, e via di corsa per tutta la città, alla ricerca e distruzione del veleno. E avvenne l'indescrivibile.

La prima visita naturalmente toccò alle carceri del prossimo Castello, donde quei forsennati liberarono quanti vi si trovavano rinchiusi, per averseli a compagni nelle meditate vendette. La seconda fu destinata al Palazzo Giuratorio, detto poi della «Gennara». E lì, dopo aver tutto rovistato e messo sottosopra, indispettiti per non aver trovato alcunchè, i più esaltati, aizzati da Salvatore Blandino, davano vandalicamente fuoco all'interessante archivio civico, e poi a quanta mobilia capitava loro nelle mani.

Compiute queste prodezze iniziali, la turba imbestialita, sperando di rinvenire finalmente il veleno nella casa del Sindaco, li, fra un vociare di viva la libertà e l'indipendenza, e morte ai mazzacronici, si portò di corsa, con il Santo Patrono su le spalle. Il dott. Nunzio Comitini, che era appunto il sindaco del tempo, e che come tale era la vittima designata di quel giorno ferale, vedendo le cose volgere al peggio, qualche ora innanzi, con i suoi se l'era svignata nella sua tenuta di Margitello; cosicchè quegli energumeni quando, dopo tempestato a colpi di randello il portone per farsi aprire, appresero dalla persona lasciata a custodia dello stabile, che il suo padrone era già in campagna, rimasero con tanto di naso. La vittima sfuggiva al suo destino, scappando, dunque - pensavano i più della folla - non ha la coscienza pulita; dunque - ammoniva d. Vincenzo Paolino - montiamo su, presto, e vedrete che il veleno lo troveremo.

Così il ricco palazzo Comitini, oggi Cirio, con la scusa di cercarvi il colera, veniva da quei facinorosi letteralmente saccheggiato, e il resto, dato alle fiamme in mezzo alla via rigurgitante di popolo, delirante di rabbia contro il principale mazzacronico, che avrebbe voluto morto, perché rappresentava, non solo il detestato governo degli avvelenatori, ma - giacché in tutto questo c'entrava pure la passione religiosa - il partito nunziataro, del quale era il principale e più temibile esponente.

Indi venne la volta del cenobio dei P. P. Conventuali di S. Francesco, delle case di d. Giuseppe Leopardi e d. Angelo Zanghi impiegati comunali, nonché di quelle di Giuseppe Avolino e Gaetano Gullotta capo della M. U., che sotto gli occhi del santo Patrono, vennero devastate e incendiate allegramente.

Il popolaccio teneva ormai la piazza perché tutte le autorità costituite s'erano squagliate, e insanito, durò nella turpe gazzarra per altri due giorni, commettendo, con gran gusto de' liberali, atti e soprusi infiniti.
E la cosa sarebbe continuata dell'altro, se infine i1 25, alcuni coraggiosi gendarmi, con a capo certo Senzio Pelligra, armati sino ai denti, non avessero affrontato quegli sconsigliati, atterrendoli e obbligandoli a farla una buona volta finita.

Mentre il Pelligra e gli altri, riconducevano un po' d'ordine nella povera città, accorrevano intanto da Modica le regie truppe, e allora fu un fuggi, fuggi dei più noti faziosi. Che però di lì a poco, per ordine del giudice supplente bar. Raffaele Pirrone, furon raggiunti lo stesso, e messi in guardina.

E così la calma sembrava tornata in ogni cuore; ma essa preannunziava una più grande tempesta, perché, malgrado il rigoroso cordone sanitario steso attorno alla città, anch'essa il 28 agosto veniva colpita dal colera, che scoppiava prima di tutto fra i 64 detenuti, agglomerati in prigione per i tumulti che abbiamo visto.

Risparmiamoci di descrivere il panico e la disperazione, da cui furon tutt'invasi i miseri cittadini, al cospetto del morbo temuto, che da quel giorno al 26 ottobre, fece in tutto 342 vittime.






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Note
Nella 1^ immagine si vede la piazza Fonte Diana.
La 2^ immagine è di Raffaele Ciarcià, barone di Corchigliato.
Nella 3^ immagine si vede la porta laterale della chiesa di S. Francesco all'Immacolata