Erano i
primi giorni del nuovo anno 1693, e funesti segni
atmosferici, quali un caldo asfissiante e fuor di
stagione, misto a degli uragani mai visti,
facevano presagire un alcunchè di straordinario,
che impensieriva tutti.
Si giunse così al venerdì 9 gennaio, allorché
verso l'Ave un formidabile rombo fece
per parecchi secondi traballare la terra. Era il
terremoto, il deprecato nemico occulto di questa
bell'isola nostra, che in un attimo fu coperta di
macerie e di morti a migliaia.
E le vibrazioni del suolo continuarono leggere,
impercettibili tutto il sabato, per culminare la
domenica, 11 (gennaio), a ore italiane 21, in un terribile
spaventoso boato, seguito immediatamente da una
scossa sussultoria così furiosa, che finì di
completare l'opera distruttrice intrapresa dal
terremoto del 9.
Tutte letteralmente le valli di Demone e Noto
andarono in rovina; il resto dell'isola e le
isole minori sino a Malta, lamentarono dei danni,
però questi furono immensamente minori che nelle
due sfortunate valli.
Epicentro del disastro, seguito da grandi bufere
di grandine e di pioggie torrenziali, fu Catania,
che in un istante divenne un campo immenso di
rottami, sotto i quali trovarono la morte più di
16.000 abitanti, tuttavia non soffrirono meno
Siracusa, Ragusa e Scicli che ebbero circa 4.000
morti per ognuna, Lentini che ne contò 3.000,
Sortino che ne pianse 2.500, ecc..
Secondo una relazione sommaria, spedita al
viceré Gio. Francesco Paceco duca di Uzeda, le
vittime di quel Cataclisma furono 57.367, delle
quali 36.823 nella sola val di Noto, dove s'ebbe
la distruzione totale di Noto stessa, di
Palazzolo, di Giarratana e di Ragusa,
rifabbricate poi in siti più acconci.
Infiniti i tragici
episodi che, di quell'avvenimento dolorosissimo,
son rimasti nelle tradizioni della nostra
provincia.
A Siracusa, il popolo, che si pigiava nel duomo
per ringraziare la sua santa concittadina (santa Lucia) dello scampato pericolo,
alla scossa dell'11 scappava disordinatamente in
piazza, mentre gli piombava sul capo la facciata
del gran tempio.
A Noto, nel tempo istesso che una folla immensa
periva tra le rovine della chiesa dei Carmelitani,
donde si voleva mettere in salvo una pregevole e
cara statua della Madonna, certo Corrado Aliotta
veniva con la sua giumenta inghiottito dalla
terra, che gli si aprì sotto i piedi.
A Ragusa, cinque preti e due chierici rimanevano
per sette giorni miracolosamente vivi sotto le
macerie d'una chiesa, lambendo un aspersorio
rimasto nelle loro mani.
A Scicli, un'educanda visse per dieci giorni fra
le rovine del suo monastero, e fu trovata
impazzita.
A Chiaramonte, molti infelici morivano mentre
adoravano il Divinissimo, esposto nelle chiese
dei Cappuccini e dei Mercedari.
Così ancora,
mentre allora l'Irminio formava improvvisamente
un lago navigabile presso Ragusa, e il mare di
Scicli si ritirava per due tiri di fionda, e l'acqua
del Fonte della piazza di Chiaramente deviava, il
nostro Fonte Diana vuolsi che da due doccioni
abbia mandato fuori dell'acqua gialla e da gli
altri due sanguigna.
Di quell'orrendo terremoto, che fu detto ranni
per eccellenza, e dei danni che arrecò in
Comiso, abbiamo un ricordo di cronaca, che
leggesi a fol. 56 del Diario dell'ex
Chiesa del Gesù, dov'è detto:
«Giorno
di domenica ad hora ventuna e un quarto fece un
terremoto fortissimo, che in questa terra
cascarno la maggior parti delli casi e cascò
tutta la Matre Chiesa, S. Antoni, la Madonna del
Carmine (SS. Cristo), la Catina, e restò in
piedi la chiesa della SS. Annunziata, la chiesa
del SS. Nome di Gesù, S. Biagio, S. Giuseppe,
Monserrato, S. Lunardo, Gratia, Immacolata,
Monastero S. Maria Regina delli cieli grandemente
lesionati che tutti si dovettero presto
riparare».
Tra i
fabbricati civili poi, nel Fonte Diana crollava
il prospetto, che più in là vedremo rifatto dal
conte-principe Naselli, laddove nel Castello
dello stesso, vuolsi rovinasse tutto il piano
superiore, restaurato poi malamente, come s'osserva
tuttora.
Gli sventurati periti nel famoso disastro,
abbiamo già visto furono 90, per la più parte
rimasti sotto le macerie delle loro case. Di
queste, che dovettero contarsi a centinaia,
possiamo rammentar solo: quella del rev. Carlo
Melilli, di Francesco Garofalo e di Raffaele
Guccione, tutte nel quartiere del Castello; quelle
del parroco Francesco M. Porcelli e di maestro
Pietro Modica, presso la Fontana; quella
in tre corpi di Natalizia Rombaudo soprannominata
nona, nonchè l'altra di Paola vedova di
Guglielmo Melilli, nel quartiere dell'Idria. A
queste son d'aggiungere altresì: le abitazioni
di Antonio La Licitra alias santanna, di
Filippo Ragusa, di Teresa Iannitto e il palazzo
di Girolamo Carnazza nel quartiere di S.
Francesco; tre case di Antonio Sessa e
Giovanni Corvina, nel quartiere del Pero; una di
Andrea Cuppoletta, in quello di S. Leonardo; e
finalmente il palazzo di Paolo Giudice e una casa
propria della chiesa di S. Giuseppe, nel
quartiere omonimo.
Dei nomi delle
vittime non abbiamo notizie; probabilmente alcuni
devono ricercarsi tra quelli or ora citati,
quando vediamo che la corte comitale invano, nei
seguenti mesi di maggio e giugno, ordinava loro
di riedificare o restaurare le rispettive
abitazioni, che perciò poste allincanto
venivano aggiudicate e fatte risorgere da altri.
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