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Il terremoto
del 1693

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Il terremoto del 1693

Al tempo del conte Baldassare IV Naselli e della moglie donna Celidonia Fiorito e Tagliavia, nei giorni 9-11 gennaio dell'anno 1693 (anno in cui nacque Mansueto Cocuzza, futuro cappuccino morto in odore di santità) si verificò un terribile terremoto che provocò morti e distruzioni in gran parte della Sicilia, particolarmente nel Val di Noto e nel Val Demone.

In questa pagina viene riportata integralmente la narrazione che, del drammatico evento, fece Fulvio Stanganelli (can. Raffaele Flaccavento) nel libro VICENDE STORICHE DI COMISO.





Il terremoto del 1693

Erano i primi giorni del nuovo anno 1693, e funesti segni atmosferici, quali un caldo asfissiante e fuor di stagione, misto a degli uragani mai visti, facevano presagire un alcunchè di straordinario, che impensieriva tutti.
Si giunse così al venerdì 9 gennaio, allorché verso l'Ave un formidabile rombo fece per parecchi secondi traballare la terra. Era il terremoto, il deprecato nemico occulto di questa bell'isola nostra, che in un attimo fu coperta di macerie e di morti a migliaia.
E le vibrazioni del suolo continuarono leggere, impercettibili tutto il sabato, per culminare la domenica, 11
(gennaio), a ore italiane 21, in un terribile spaventoso boato, seguito immediatamente da una scossa sussultoria così furiosa, che finì di completare l'opera distruttrice intrapresa dal terremoto del 9.
Tutte letteralmente le valli di Demone e Noto andarono in rovina; il resto dell'isola e le isole minori sino a Malta, lamentarono dei danni, però questi furono immensamente minori che nelle due sfortunate valli.

Epicentro del disastro, seguito da grandi bufere di grandine e di pioggie torrenziali, fu Catania, che in un istante divenne un campo immenso di rottami, sotto i quali trovarono la morte più di 16.000 abitanti, tuttavia non soffrirono meno Siracusa, Ragusa e Scicli che ebbero circa 4.000 morti per ognuna, Lentini che ne contò 3.000, Sortino che ne pianse 2.500, ecc..

Secondo una relazione sommaria, spedita al viceré Gio. Francesco Paceco duca di Uzeda, le vittime di quel Cataclisma furono 57.367, delle quali 36.823 nella sola val di Noto, dove s'ebbe la distruzione totale di Noto stessa, di Palazzolo, di Giarratana e di Ragusa, rifabbricate poi in siti più acconci.

Infiniti i tragici episodi che, di quell'avvenimento dolorosissimo, son rimasti nelle tradizioni della nostra provincia.
A Siracusa, il popolo, che si pigiava nel duomo per ringraziare la sua santa concittadina
(santa Lucia) dello scampato pericolo, alla scossa dell'11 scappava disordinatamente in piazza, mentre gli piombava sul capo la facciata del gran tempio.
A Noto, nel tempo istesso che una folla immensa periva tra le rovine della chiesa dei Carmelitani, donde si voleva mettere in salvo una pregevole e cara statua della Madonna, certo Corrado Aliotta veniva con la sua giumenta inghiottito dalla terra, che gli si aprì sotto i piedi.
A Ragusa, cinque preti e due chierici rimanevano per sette giorni miracolosamente vivi sotto le macerie d'una chiesa, lambendo un aspersorio rimasto nelle loro mani.
A Scicli, un'educanda visse per dieci giorni fra le rovine del suo monastero, e fu trovata impazzita.
A Chiaramonte, molti infelici morivano mentre adoravano il Divinissimo, esposto nelle chiese dei Cappuccini e dei Mercedari.


Così ancora, mentre allora l'Irminio formava improvvisamente un lago navigabile presso Ragusa, e il mare di Scicli si ritirava per due tiri di fionda, e l'acqua del Fonte della piazza di Chiaramente deviava, il nostro Fonte Diana vuolsi che da due doccioni abbia mandato fuori dell'acqua gialla e da gli altri due sanguigna.

Di quell'orrendo terremoto, che fu detto ranni per eccellenza, e dei danni che arrecò in Comiso, abbiamo un ricordo di cronaca, che leggesi a fol. 56 del Diario dell'ex Chiesa del Gesù, dov'è detto:
«Giorno di domenica ad hora ventuna e un quarto fece un terremoto fortissimo, che in questa terra cascarno la maggior parti delli casi e cascò tutta la Matre Chiesa, S. Antoni, la Madonna del Carmine (SS. Cristo), la Catina, e restò in piedi la chiesa della SS. Annunziata, la chiesa del SS. Nome di Gesù, S. Biagio, S. Giuseppe, Monserrato, S. Lunardo, Gratia, Immacolata, Monastero S. Maria Regina delli cieli grandemente lesionati che tutti si dovettero presto riparare».

Tra i fabbricati civili poi, nel Fonte Diana crollava il prospetto, che più in là vedremo rifatto dal conte-principe Naselli, laddove nel Castello dello stesso, vuolsi rovinasse tutto il piano superiore, restaurato poi malamente, come s'osserva tuttora.

Gli sventurati periti nel famoso disastro, abbiamo già visto furono 90, per la più parte rimasti sotto le macerie delle loro case. Di queste, che dovettero contarsi a centinaia, possiamo rammentar solo: quella del rev. Carlo Melilli, di Francesco Garofalo e di Raffaele Guccione, tutte nel quartiere del Castello; quelle del parroco Francesco M. Porcelli e di maestro Pietro Modica, presso la Fontana; quella in tre corpi di Natalizia Rombaudo soprannominata nona, nonchè l'altra di Paola vedova di Guglielmo Melilli, nel quartiere dell'Idria. A queste son d'aggiungere altresì: le abitazioni di Antonio La Licitra alias santanna, di Filippo Ragusa, di Teresa Iannitto e il palazzo di Girolamo Carnazza nel quartiere di S. Francesco; tre case di Antonio Sessa e Giovanni Corvina, nel quartiere del Pero; una di Andrea Cuppoletta, in quello di S. Leonardo; e finalmente il palazzo di Paolo Giudice e una casa propria della chiesa di S. Giuseppe, nel quartiere omonimo.


Dei nomi delle vittime non abbiamo notizie; probabilmente alcuni devono ricercarsi tra quelli or ora citati, quando vediamo che la corte comitale invano, nei seguenti mesi di maggio e giugno, ordinava loro di riedificare o restaurare le rispettive abitazioni, che perciò poste all’incanto venivano aggiudicate e fatte risorgere da altri.




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Note
Nella 1^ immagine si vede il castello dei Naselli
La 2^ immagine è una fotografia del can. Raffaele Flaccavento.
Nella 3^ immagine si vede la facciata della Chiesa del Gesu'.