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L'alluvione
del 1745

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L'alluvione del 1745

Al tempo del principe-conte Baldassare V Naselli, fondatore della Cartiera (la prima e più importante cartiera della Sicilia), il 13 dicembre 1745 si verificò una straordinaria alluvione che provocò morti e distruzioni.
In questa pagina viene riportata integralmente la narrazione che, del drammatico evento, fece Fulvio Stanganelli
(can. Raffaele Flaccavento) nel libro VICENDE STORICHE DI COMISO.
Alla fine della narrazione è riportato un canto popolare che lo stesso can. Flaccavento aveva raccolto dalla bocca della signora Agata Guccione.







L'alluvione del 1745

Era la notte di S. Lucia
(del 1745). I tuoni rumoreggiavan lontano sordamente.
Il cielo burrascoso e buio era tutto uno sfavillio di baleni, che rendevano più scura la notte. Un levante impetuoso squassava, sfondava, svelleva quanto gli resisteva. E le tegole, le piante, i comignoli delle case, le croci dei campanili volavano per aria come pagliuzze, tra i cento miagolii del vento, che diventava sempre più furibondo.

Uno scoppio di folgore assordante peggio di una cannonata, e radi ma grossi chicchi di grandine cominciano a percuotere i tetti e le vie buie, deserte.
Una seconda e più formidabile scarica elettrica, e, mentre il vento accenna a passare, una valanga di gragnuola mista a un fiume d'acqua, si precipita dall'alto e muta le strade in altrettanti torrenti.
Era l'uragano, che si abbatteva con inaudita e tragica violenza, sul paese e le sue campagne. Tutta la notte piovve come non era piovuto mai, e tutto il giorno 13 dicembre fu lo stesso. Il torrente del vallone della cucca, che taglia in due l'abitato, era un mare sporco di fango spumoso, gorgogliante, che nella sua furia spaventosa trascinava seco mugghiando pietre, alberi, piante, case, animali, strumenti di lavoro, tutto insomma quel che incontrava. Era un che di orrendo.

I pochi che a giorno fatto, arrischiavano di uscire, sfidando la pioggia incessante, e andavano a mirare quello spettacolo, rincasavano in fretta raccapricciati dalla sua angosciante grandezza, di cui un pallido ricordo rimane in una rozza cantilena, tuttora esistente nella bocca del nostro popolo.

Quando, come Dio volle, spiovve, si poteron mirare in tutta la loro estensione, i danni enormi arrecati da quel mostruoso nubifragio, ai campi e alle abitazioni. La rabbia travolgente della piena aveva infatti rase al suolo le case di certi Carmelo Lomonaco alias genitobbi, maestro Francesco Verde e Margherita Falcone, e poi di Antonio Distefano soprannominato munnio, Vincenzo e Teresa Guastella, Teresa Incardona, Orazia Tudisco, Vincenzo Bertino e Carmelo Pelligra. Cotesti infelici erano, è vero, buttati in mezzo alla via perché avevano perduto tutto; nondimeno potevan chiamarsi fortunati, in confronto de' tanti periti tra le onde o le macerie delle proprie case.

Tale la sorte di Teresa Fava, morta annegata insieme al marito e ai suoi figli; di Teresa Mezzasalma alias la pappa, schiacciata con i suoi dalle rovine della sua casupola; di Orazio Cannata, trovato morto nel suo abituro tra un monte di fango e pietre, con altre otto persone; di Giuseppe Sudano perito pure con i sette figli suoi. Tale ancora la sorte miseranda di Giuseppa Sansone, morta con la madre, il marito e una figliuola; di Nicolanna Fiaccavento alias 1'aqua, trascinata a mare con due suoi piccini, e di certo Biagio Spagnolo.

Una vera ecatombe, che fe' sembrare più grave l'entità dei danni materiali sofferti dalla città, e valutati dai periti nominati all'uopo dall'università, in onze 1057, nelle quali eran comprese le botteghe distrutte ove oggi sorge il Circolo Umberto I, la grande gradinata e il cimitero dell'Annunziata, insieme alla massiccia porta del Crasto, che furon letteralmente portate via dal pienone.
Il quale gonfiato sino ad assumere le apparenze d'un gran mare in moto, distrusse tanti alberi, giardini, vigne, orti, canneti, mulini, case rusticane, armenti e seminati per l'enorme cifra di onze 6754.

Furon quelle, giornate di vero grande lutto per la povera città nostra, desolata di tant'ira di Dio. Alla quale la carità cittadina e del Naselli, e i provvedimenti governativi sollecitati dai nostri magnifici giurati, cercarono a tutt'uomo di porre un argine.






  Canto popolare su
l'alluvione del 13 dicembre 1745



A li tririci reciémmiru lluminatu (famoso),
Ca fu lu juornu ri santa Lucia,
L'ariu tri gghiorna stetti intrubulatu
(cupo),
'Nterra 'na stizza r'acqua non carìa.

A tri uri e menza, 'ntra venta furiusi
L'acqua a linzola ri l'ariu ciuvia,
Ccu tanti trona e saitti spavintusi,
Ca tutt' 'a ggenti ciamàvinu a Maria.

"O Matri ri lu Vàrazzu sarata (benedetta),
Ah! rati aiutu a sta casuzza mia,
Sta cina vuogghiu siri trapassata
Dabbana li vadduna unni 'nc' è via."

E Sa' Lunardu si misi a murari,
Ppi 'nsin' a tantu c'ammarrau la via.
"Lu vo' sapiri? chiddi mi su' cari,
Ca fabbricarru la crisiula ppi mia."

Lu santu Sacramientu sia loratu,
E viva ri lu Càrminu Maria.
`Nncielu si tròva 'n luocu priparatu,
Chiddu ch'è veru divotu ri Maria.

 (Riferito da Agata Guccione)






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Note
Nella 1^ immagine si vede il castello dei Naselli.
Le 2^ immagine è una fotografia del can. Raffaele Flaccavento giovane.
Nella 3^ immagine si vede il quadro di S. Lucia, che è esposto nella Chiesa Madre.
Nella 4^ immagine si vede la facciata della chiesa di S. Leonardo.
Nella 5^ immagine si vede un particolare della statua della Madonna del Carmine, esposta nella Chiesa Madre.