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Gli studi su tessuti ed embrioni
Al contributo della chimica si aggiungeva quello della biologia, anche
grazie all’uso di nuovi strumenti, come il microscopio. I primi
microscopisti, affascinati dalla visione dell’infinitamente piccolo,
volevano assolutamente individuare particolari che andavano al di là delle
possibilità dei loro rudimentali strumenti. E così disegnavano immagini di
microscopiche figure umane – omuncoli
– all’interno degli spermatozoi, immaginando anche che l’infinitamente
piccolo potesse essere senza limiti: se un uovo o uno spermatozoo
contenevano già una minuscola figura, questa avrebbe potuto contenerne
un’altra ancora più piccola, e così via all’infinito.
Questa era la teoria della “preformazione”.
È evidente che questa concezione fosse antievoluzionistica: in base
ad essa, tutti i componenti possibili di una specie esistevano già nel
capostipite della specie e non c’era motivo di supporre che si sarebbe
verificato un cambiamento di specie in qualsiasi punto della discendenza.
Il primo attacco a questa teoria fu sferrato dal fisiologo tedesco Wolff
(1733-94): egli osservò che la punta di un germoglio di pianta, durante la
crescita, consisteva di strutture indifferenziate, che si specializzavano
successivamente trasformandosi parte in fiore parte in foglia (mentre
all’inizio queste due parti erano assolutamente indistinguibili).
Più tardi, Wolff estese queste osservazioni anche agli animali (quale
l’embrione di un pulcino) e dimostrò che un tessuto indifferenziato dava
luogo ai vari organi, in seguito a una specializzazione graduale. Questa è
la dottrina dell’”epigenesi” (espressione
usata per la prima volta da Harvey nel 1651).
Secondo questa teoria, tutte le creature, per quanto
diverse all’aspetto, nascevano da semplici grumi di materia vivente e si
assomigliavano all’origine. Gli esseri viventi non si sviluppavano da
organi o organismi piccolissimi, ma già differenziati.
Un ulteriore contributo in questa direzione lo diede un medico
francese, Bichat (1771-1802), che riuscì a dimostrare che vari organi
consistevano di diversi componenti di aspetto differente. Bichat chiamò
“tessuti” questi componenti, fondando in tal
modo la nuova scienza dell’”istologia”.
Risultò che i tessuti diversi non erano molto numerosi (quelli animali più
importanti sono: il tessuto connettivo, l’epiteliale, il muscolare e il
nervoso), e che un tessuto particolare non variava radicalmente da specie a
specie, a differenza dell’intero organismo.
Scendendo ancora più a fondo nella ricerca dei componenti ultimi, una
scoperta fondamentale fu quella di Hooke della cellula. Hooke aveva scoperto
queste unità elementari nel sughero, che è un tessuto morto per cui le
cellule erano vuote. Nei tessuti viventi queste unità non sono vuote, bensì
piene di un fluido gelatinoso, che nel 1838 il fisiologo ceco Purkinje
indicò col nome di “protoplasma”
(dall’espressione greca che significa “di prima
formazione”).
Si scoprivano cellule son sempre maggior frequenza e numerosi biologi
avanzarono l’ipotesi che esse potessero esistere universalmente nei tessuti
viventi. Sempre nel 1838 il botanico tedesco Schleiden affermò che tutte le
piante erano composte da cellule e che era la
cellula a costituire l’unità elementare della vita, una piccola cosa viva
con la quale erano costituiti interi organismi.
L’anno successivo il fisiologo tedesco Schwann estese questo concetto
facendo notare che anche tutti gli animali erano costituiti di cellule.
Nacque quindi la “teoria cellulare” e proprio
Schleiden e Schwann sono considerati i fondatori della citologia (o studio
delle cellule).
Si dovette aspettare il 1861 per capire in maniera definitiva il
meccanismo di sviluppo cellulare.
Ogni organismo pluricellulare si sviluppa a partire da una singola cellula –
l’uovo fecondato. Man mano che l’uovo fecondato si divide ripetute volte, in
principio le cellule risultanti non appaiono molto differenziate;
lentamente, tuttavia, esse si specializzano in direzioni diverse finché non
si producono tutte le strutture della forma adulta.
Si trattava dell’epigenesi ridotta alla forma
cellulare.
In questa maniera il concetto dell’unità della vita ne uscì molto
rafforzato: era pressoché impossibile distinguere tra l’uovo fecondato di un
uomo, di una giraffa o di uno sgombro, e durante lo sviluppo dell’embrione
la differenziazione avveniva solo gradualmente. Le piccole strutture
dell’embrione potevano trasformarsi in un caso in un’ala, in un altro in un
braccio, in un terzo caso in una zampa in un quarto in una pinna. In questa
maniera le affinità tra gli animali si possono dedurre più correttamente
confrontando gli embrioni che confrontando le strutture adulte.
Osservata attraverso il processo di sviluppo cellulare, la trasformazione di
una specie in un’altra sembrava soltanto una questione di dettagli,
facilmente realizzabile attraverso un qualche processo di evoluzione.
Per esempio: nelle prime fasi di sviluppo, l’embrione dei vertebrati
possiede temporaneamente una “notocorda”, ovvero una specie di cordone
rigido che corre lungo la schiena. Ebbene, ci sono dei pesci che possiedono
una struttura simile per tutta la vita. Nei vertebrati, alla notocorda o
corda dorsale si sostituisce rapidamente una spina dorsale di vertebre
articolate. Tuttavia, la comparsa sia pure temporanea della notocorda sembra
rivelare un’affinità con quei pesci, ed è per questa ragione che i
vertebrati e questi pochi invertebrati sono riuniti nel tipo dei cordati.
Inoltre è anche affascinante supporre che la corda dorsale sia un indizio
del fatto che tutti i vertebrati sono discendenti di qualche creatura
primitiva munita di corda dorsale.
Da vari campi
diversi (anatomia comparata, paleontologia, biochimica, istologia,
citologia, embriologia) tutti gli indizi suggerivano, dunque, che una
concezione evoluzionistica era ormai indispensabile.
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