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La fine del vitalismo
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La teoria dell’Evoluzione di Darwin rappresentava un vero e proprio inno
alla vita: partendo da origini semplicissime, la vita aveva lottato senza
tregua, sotto la pressione dell’ambiente, per realizzare una complessità e
un’efficienza sempre maggiori. Nel mondo immutabile dell’inanimato non c’era
niente che potesse reggere il confronto. Da questo punto di vita la teoria
poteva essere considerata un punto a favore del Vitalismo.
Il vero pericolo per la teoria vitalista giungeva invece da un’altra
direzione: quella in cui operavano i chimici organici, che, scoperta dopo
scoperta, stavano riuscendo a colmare la distanza tra mondo inorganico ed
organico. L’unica difesa dei vitalisti era la molecola proteica, la cui
complessità era ancora inarrivabile per i laboratori chimici dell’epoca,
mentre si cominciava a scoprirne l’importanza nella vita.
Il primo a evidenziare l’importanza delle proteine nella vita fu Il
fisiologo francese Magendie, il quale fu
incaricato dal governo per indagare sulla possibilità di produrre un
alimento nutriente a basso costo (vista la situazione economica del paese
dopo le guerre napoleoniche).
Magendie scoprì che le proteine si differenziavano dai carboidrati e dai
lipidi perché nella sua molecola era presente l’azoto: per questa ragione
l’interesse si concentrò su questo minerale, quale componente essenziale
degli organismi viventi. Si scoprì, così, che le piante aumentavano il loro
contenuto di azoto, anche se innaffiate con acqua priva di azoto: se ne
ricavò la convinzione che le piante riuscivano a ricavare azoto dall’aria
(in realtà oggi sappiamo che non sono le piante stessa ad assorbire azoto,
bensì certi tipi di “batteri azoto-fissatori” che si trovano nelle radici).
Liebig, poi, riuscì a capire che si poteva
migliorare la fertilità del terreno aggiungendo i minerali che le piante
consumavano: quando si rese conto che la maggior parte delle piante ricavano
l’azoto da composti solubili dell’azoto presenti nel terreno, ovvero i
“nitrati”, aggiunse questi composti ad una sua miscela e produsse dei
fertilizzanti efficaci.
Da bravo meccanicista Liebig era convinto che i carboidrati e i lipidi
fossero i combustibili del corpo, così come avrebbero potuto alimentare un
falò se vi fossero stati gettati dentro.
Furono fatti esperimenti con misurazioni sempre più precise, finché un
allievo di Liebig, Rubner, dimostrò nel 1894non
solo che le proteine producevano calorie, così come carboidrati e lipidi, ma
anche che l’energia ottenuta dal corpo per mezzo degli alimenti era
esattamente uguale in quantità a quella che si sarebbe ottenuta se gli
stessi alimenti fossero stati bruciati nel fuoco.
Il principio di conservazione dell’energia era
valido sia per il mondo animato che per quello inanimato, per cui sotto
questo punto di vista non c’era più posto per il vitalismo.
Ma il vitalismo resisteva spostando semplicemente la sua trincea
concettuale: è vero che l’energia complessivamente disponibile poteva
essere uguale per la vita e per la non-vita, ma certamente doveva esistere
una linea invalicabile tra i metodi con cui questa energia si rendeva
disponibile. Al di fuori del corpo la combustione era accompagnata da luce e
calore in abbondanza e si svolgeva rapidamente e con violenza. Il corpo,
invece, si manteneva alla temperatura mite di 37°C e all’interno di esso la
combustione si svolgeva lentamente e in maniera perfettamente controllata.
Non si trattava forse di una differenza
fondamentale?
Liebig sosteneva che non lo fosse e indicò come esempi la
fermentazione. Fin dai tempi preistorici l’uomo aveva fatto fermentare i
succhi di frutta per fare il vino e macerare il grano per fare la birra. Si
era servita del “fermento” o “lievito” per provocare nella pasta delle
trasformazioni che causavano un rigonfiamento accompagnato da bollicine e
permettevano un pane morbido e saporito.
Queste trasformazioni riguardavano sostanze organiche: lo zucchero e l’amido
si trasformavano in alcool con reazioni simili a quelle che si svolgono nei
tessuti viventi. Essa si svolge a temperatura ambiente e in maniera lenta.
Liebig sosteneva che la fermentazione era un processo puramente chimico che
non coinvolgeva la vita e insisteva nell’affermare che si trattava di un
esempio di trasformazione che poteva svolgersi in maniera simile alla vita,
eppure senza vita.
Ma un chimico francese, Louis Pasteur (1822-95)
si levò in armi contro Liebig. Nel 1856 fu consultato dai dirigenti
dell’industria vinicola francese perché spesso, durante l’invecchiamento, il
vino e la birra inacidivano. Pasteur si rivolse al microscopio e scoprì che
quando il vino e la birra invecchiavano regolarmente, il liquido conteneva
delle minuscole cellule sferiche di lievito. Quando invece inacidivano, le
cellule di lievito presenti erano di forma allungata.
Evidentemente esistevano due tipi di lievito: uno di essi produceva l’alcool
e l’altro faceva inacidire il vino. Riscaldando moderatamente il vino si
sarebbero uccise le cellule di lievito e si sarebbe bloccato il processo.
Pasteur dimostrò così due cose:
·
in primo luogo, le cellule del lievito erano vive, dato che il
calore moderato distruggeva la loro attitudine a provocare la fermentazione;
·
in secondo luogo, la fermentazione poteva essere prodotta
soltanto dalle cellule vive del lievito, non da quelle morte.
La polemica con Liebig si concluse con un netto successo di Pasteur.
Pasteur poi eseguì un famoso esperimento connesso con la generazione
spontanea.
A questo riguardo la posizione dei vitalisti e dei meccanicisti si era
rovesciata, rispetto ai tempi di Redi: gli esponenti religiosi, ora,
accoglievano con favore la confutazione della generazione spontanea, perché
così la formazione della vita rimaneva un attributo esclusivo del Creatore.
I meccanicisti, al contrario, l’appoggiavano.
Spallanzani aveva dimostrato che se si
sterilizzava un brodo di carne e lo si isolava ermeticamente dalla
contaminazione, in esso non si sarebbe sviluppata alcuna forma di vita. Gli
oppositori dell’epoca sostenevano che il calore aveva distrutto un
“principio vitale” nell’aria all’interno del recipiente sigillato.§Pertanto
Pasteur escogitò un esperimento durante il quale l’aria normale, non
riscaldata, non sarebbe stata isolata dal brodo di carne.
Nel 1860 Pasteur fece bollire e sterilizzare un brodo di carne e lo lasciò
in comunicazione con la normale atmosfera. L’apertura, tuttavia, era un
collo lungo e stretto a forma di S coricata. Benché l’aria non riscaldata
potesse penetrare liberamente nel recipiente, le eventuali particelle di
polvere si sarebbero depositate sul fondo della S senza penetrare nel
recipiente. In queste condizioni il brodo di carne non alimentò alcun
organismo, ma se si toglieva il collo insorgeva rapidamente la
contaminazione.
Non si trattava di aria riscaldata o non riscaldata, di un “principio
vitale” distrutto o non distrutto. Si trattava della polvere, parte della
quale era composta di microrganismi fluttuanti. Se questi cadevano nel
brodo, crescevano e si moltiplicavano, altrimenti no.
Il medico tedesco Virchow integrò questi
risultati grazie alle proprie osservazioni: tra il 1850 e il 1860 egli
studiò i tessuti ammalati (per questo è considerato il fondatore della
patologia) e dimostrò che anche per essi era valida la teoria cellulare. Le
cellule dei tessuti ammalati discendevano da cellule normali dei tessuti
comuni: non c’era alcuna discontinuità, nessun nascere di cellule anormali
dal nulla.
Eppure se le forme di vita potevano compiere imprese chimiche che non si
potevano compiere nella natura inanimata, queste dovevano essere portate a
termine con qualche mezzo materiale (a meno di non pensare al
soprannaturale, cosa che gli scienziati del diciannovesimo secolo non erano
disposti a fare). Già da qualche tempo gli scienziati si erano accorti che a
volte si poteva accelerare una reazione chimica introducendo una sostanza
che, apparentemente, non prendeva parte alla reazione. §Il chimico russo
Kirchoff dimostrò nel 1812 che facendo bollire l’amido con un acido
diluito, l’amido si scindeva in uno zucchero semplice, il glucosio. Se
mancava l’acido, questa reazione non avveniva, eppure sembrava che l’acido
non prendesse parte alla razione, perché nel processo esso non si consumava
per niente.§Altro caso: normalmente l’acool brucia in presenza di ossigeno
soltanto dopo essere stato portato a una temperatura elevata, temperatura
alla quale i suoi vapori si incendino. In presenza di fili di platino,
tuttavia, la stessa reazione avviene senza bisogno di riscaldamento
preliminare.§Si poteva quindi dedurre che nei tessuti viventi i processi
chimici si svolgessero, come effettivamente avviene, in condizioni molto
moderate, perché nei tessuti erano presenti determinate sostanze (che
chiamiamo “catalizzatori”) che non sono presenti nel mondo inanimato.
Effettivamente nel 1833 il chimico francese Payen
aveva estratto dall’orzo germogliante una sostanza che poteva scindere
l’amido in zucchero ancora più rapidamente dell’acido: questa sostanza e
altre scoperte successivamente, furono chiamate “fermenti”. In breve tempo
si ottennero fermenti anche dagli organismi animali. Il primo di essi
proveniva dal succo gastrico: Reaumur aveva
dimostrato che la digestione era un processo chimico e nel 1824 il medico
inglese Prout aveva isolato dai succhi gastrici
l’acido cloridrico, che è una sostanza inorganica, cosa che per i chimici fu
una grande sorpresa. Nel 1835 Schwann, che fu
uno dei fondatori della teoria cellulare, ottenne dal succo gastrico un
estratto che non era acido cloridrico, ma che decomponeva la carne con
efficacia anche maggiore dell’acido. Questa sostanza che Schwann chiamò
“pepsina” (da una parola greca che significa “digerire”) era il vero
fermento.
Si scoprirono fermenti sempre nuovi e risultò del tutto chiaro che erano
questi fermenti le sostanza che permettevano agli organismi di compiere
quello che i chimici no riuscivano a fare.
La posizione dei vitalisti era indebolita dal fatto che alcuni fermenti
funzionavano sia dentro che fuori dalla cellula: si poteva quindi supporre
che se si fosse riusciti a ottenere campioni di tutti i vari fermenti,
qualsiasi reazione attuata negli organismi viventi si sarebbe potuta
riprodurre nella provetta, senza l’intervento della vita, dato che i
fermenti stessi erano non-vita.
I vitalisti replicarono che i fermenti che svolgevano la loro azione
soltanto all’interno della cellula ( non come i succhi gastrici che agiscono
fuori) erAno una cosa diversa, e questi non era possibile riprodurli in
laboratorio. Nel 1876 il fisiologo tedesco Kuhne
propose di riservare la parole fermento a quei processi che richiedevano la
vita, e suggerì di chiamare “enzimi” i fermenti che potevano agire al di
fuori della cellula.
Infine, nel 1897 l’intera dottrina vitalistica fu inaspettatamente distrutta
dal chimico tedesco Buchner il quale macinò
delle cellule di lievito con la sabbia e poi filtrò il materiale macinato
ottenendo un quantitativo di succo di lievito privo di cellule. Buchner si
aspettava che questo succo non possedesse assolutamente la capacità di
fermentazione delle cellule di lievito viventi. Per preservare il succo
dalle contaminazioni, aggiunse una soluzione concentrata di zucchero e
scoprì con stupore che lo zucchero cominciava a subire una lenta
fermentazione, benché la miscela fosse assolutamente non vivente.
Alla fine del diciannovesimo secolo ci si rese conto che tutti i fermenti
erano sostanze morte che potevano essere isolate dalle cellule e fatte agire
in provetta.§Questa era la sconfitta più grave che il vitalismo
avesse mai subito, anche se la tesi vitalistica era tutt’altro che
annientata: restava ancora molto da scoprire sulle molecole proteiche e non
si poteva escludere con certezza che in qualche punto si manifestasse la
forza vitale. Tuttavia i vitalisti si persero d’animo, e, anche se qualche
biologo predicava ancora una qualche forma di vitalismo, oggi è opinione
generalmente accettata che la vita segua i principi che governano il mondo
inanimato e che non esistano processi vitali che non si possono riprodurre
in laboratorio in assenza di vita.
La tesi meccanicistica ha vinto
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