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Martire per Amore
Servo per Amore e di nessun’altra
passione terrena: questo fu, dunque, Giovanni Palatucci! lI suo, come è stato
scritto, fu un martirio che non si consumò istantaneamente ma maturò lentamente
a partire dagli anni trascorsi a Fiume fino alla deportazione nel lager di
Dachau; da lui consapevolmente temuto, alla fine, accettato in nome della Fede:
martire che ha vissuto in grado eroico la Carità. Al dilacerante dilemma:
disobbedire alla legge iniqua dell’uomo o seguire i comandamenti di Dio,
Giovanni non esita a dare una risposta precisa e ad agire
conseguentemente. Obbedisce alla sua coscienza, aderendo, senza ripensamenti,
alla chiamata del Padre che si fa sempre più chiara ed inequivoca. La sua è
un’obiezione di coscienza intransigente, perché totale, che lo porterà
inevitabilmente al sacrificio di sé per gli altri. Mentre tutti scappano
(1943), Giovanni decide di rimanere a Fiume per scongiurare che altri “fratelli”
Ebrei cadano nelle mani della Gestapo. Si ha l’impressione che voglia, da
solo, ingaggiare una lotta contro il Male che dovunque, intorno a lui, sta
obnubilando le coscienze. Sa che non potrà vincere, ma non per questo è
disposto a desistere. L’amore per il prossimo e soprattutto quello verso i
fratelli maggiori nella fede del Padre Abramo, gli infonde coraggio. Ma la
vera forza Giovanni l’attinge dalla Fede in Cristo, dal suo quotidiano
avvicinarsi alla santa Eucarestia nella Chiesa dei Cappuccini di
Fiume. Giovanni si separa dagli amici, dagli affetti a cui è legato con
commozione struggente ma senza rimpianti: la via che gli è stata tracciata è
altrove e non può fare a meno di seguirla. La sua sofferenza cresce nella
misura in cui il peso della croce, che ha deciso di portare, si fa più
insopportabile. “La Grazia è sempre a caro prezzo” e Dio “non ci salva
mediante l’onnipotenza ma con la debolezza” scrive D. D. Bonhoeffer nel suo
libro Resistenza e resa, e queste poche parole bastano, da sole, a illuminare il
calvario vissuto liberamente da Giovanni. Un collaboratore, suo
corregionale, lo ricorda pensieroso e malinconico nel suo ufficio, nel periodo
in cui più si stava prodigando per la salvezza dei profughi ebrei. Sembrava
che sul suo volto fosse all'improvviso scomparso il sorriso e la giovialità che,
da sempre, l’avevano contraddistinto. Il Sig. Albertino R. di Campagna (SA)
così prosegue nel suo racconto: “Devo subito affermare che in questi incontri
era sempre pensieroso e malinconico quindi esprimeva grande preoccupazione. Era
sempre solo, io non l’ho mai incontrato con nessuno, ma dato il suo posto in
Questura, questo atteggiamento poteva essere ragionevole”. Solo, quindi, ma
sicuro di dover andare avanti senza tentennamenti. Un’altra testimonianza de
auditu sottolinea ancora meglio lo stato di prostrazione di Giovanni, da lui
vissuto con cristiana rassegnazione. Le parole di Giovanni, in questo caso,
sono dirette all’amica Feliciana, conosciuta a Fiume per ragioni di lavoro e
sono riportate dalla nipote di quest’ultima: “…..mi accorgo di essere diventato
diffidente, infatti anche gli amici più cari non godono più della mia fiducia,
ti sembrerà strano ma dentro di me incomincia a regnare la certezza che sarà
proprio un amico a tradirmi ed io farò la fine che ha fatto Cristo con
Giuda”. Giovanni è consapevole di vivere un’esperienza singolare
nell’imitazione di Cristo. Ogni sua parola, ogni sua azione, richiamando la
presenza di Gesù, sembrano tradire la sua sete d’Assoluto. Giovanni confessa
all’amica il proprio dramma senza eroismi né vittimismi di sorta: si fà docile e
umile, perché così esige la Carità! “….La carità è paziente, è benigna la
carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di
rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male
ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre,
tutto crede, tutto spera, tutto sopporta…….(…) Queste dunque le tre cose che
rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte la più grande è la
carità” (1Cor 13,4) Giovanni Palatucci morirà il 10 febbraio 1945, dopo
quattro mesi di privazioni e sevizie inaudite. L’ultimo ricordo che si ha di
lui ci viene testimoniato dal Dott. Ricciardelli, amico e collega di Giovanni,
anch’egli deportato a Dachau per essersi adoperato per la salvezza di molti
ebrei e antifascisti quando era alla guida l’Ufficio Politico della Questura di
Fiume. All’interno dell’infermeria del lager, Giovanni, oramai all’estremo
delle forze e gravemente ammalato (con molta probabilità è affetto da tifo
petecchiale), gli sorrise dolcemente ricordando il tanto bene fatto
assieme. Nessuna accusa nei confronti dei carnefici e neppure rassegnazione
in Giovanni che, prossimo alla fine, continua a trasmettere Amore al prossimo
con un sorriso che è già perdono. Coerente fino al martirio, dunque, il
Venerabile Giovanni Palatucci non smette di ispirarsi all’esempio di Gesù che
sulla croce invocò perdono per coloro che non sapevano quello che stavano
facevano.
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