Nuclei galattici attivi - A.G.N. o Galassie attive (si consiglia banda larga)
MAPPA della PAGINA: Nuclei galattici attivi - A.G.N. o Galassie attive... Agg. 28.09.2004
Sono oggetti nei quali la produzione energetica avviene spesse volte a spese di un buco nero supermassiccio centrale che si nutre del gas che gli cade dentro dal nucleo della galassia madre o di galassie vicine interagenti. La storia degli AGN inizia negli anni '40, quando uno studente presso l'Osservatorio di Monte Wilson da 2,5 metri Carl Seyfert, scoprì delle spirali con un nucleo di aspetto stellare ricco di stelle molto giovani e calde e caratterizzato da attività esplosiva. Negli anni '50 e '60 si scoprirono galassie ellittiche aventi dei nuclei brillanti e variabili e fortemente radioemittenti. Nel 1968 si scoprì, inoltre, che un oggetto ritenuto una stella variabile, BL Lacertae, presentava delle chiare analogie con Quasar, Radiogalassie e Galassie di Seyfert. Attualmente si pensa che tutti questi oggetti abbiano la stessa natura e che la loro diversa variabilità da Terra dipenda per lo più dall'orientamento del disco di accrescimento e dai getti fortemente collimati rispetto all'osservatore. Tali getti sono prodotti dal gas in caduta che si dispone a costituire dei giganteschi vortici uscenti dai poli dell'asse di rotazione del disco.
NOTE: What defines a galaxy ?: Thomas S.Statler, associate professor of physics and astronomy at Ohio Universit, explains. A century ago astronomers talked about only one galaxy, what they called the "Stellar System" or the Milky Way. The term "galaxy" was used almost synonymously with "universe," and when a distinction was drawn, the issue was mainly whether or not the universe had an extent beyond that of the stars. Twenty-five years later our galaxy was established as one of many and the study of what Edwin Hubble had first dubbed extragalactic nebulae was burgeoning. Astronomers had analyzed the light of other galaxies spectroscopically and determined that it was starlight. We still take this as one of the defining characteristics of a galaxy: its visible light comes primarily from stars. Today we are nearly overwhelmed with data on the immense diversity of galaxies, to the extent that it actually becomes difficult to write down a definition that distinguishes what is a galaxy from everything that is not. Basically, galaxies are the fundamental units of structure in the universe where stars form. Theory currently holds that all galaxies are confined by the gravity of the dark matter halos that permeate and surround them, but there is recent evidence that some galaxies may be dark-matter-free. It is also tempting to say that galaxies are where most of the ordinary matter in the universe resides, but recent x-ray observations have shown that there is actually more matter in the diffuse intergalactic gas than in the galaxies themselves. It is slightly easier to define what doesn't constitute a galaxy. Any object that can exist as a distinct unit inside a galaxy isn't a galaxy, which excludes the globular star clusters from galaxyhood. Dwarf galaxies are more luminous (typically by a factor of 100) than globular clusters and are not as dense. The distinction between dwarf and normal galaxies is mostly, but not entirely, one of size: dwarfs generally don't come brighter than a few billion solar luminosities (a few percent of that of the Milky Way). Qualifying a type of galaxy is also an issue of environment. A small galaxy may be dubbed a satellite if it is orbiting a larger system, but merely called a field galaxy if is not linked to a bigger galaxy. Satellites are often ingested by their larger cousins, and when this happens, the smaller galaxy loses its identity. This is the likely fate of many of the dwarf galaxies around the Milky Way, including the Sagittarius dwarf and the two Magellanic Clouds. The larger of these clouds, however, technically isn't a dwarf at all but a "Magellanic Irregular," which tells you how arbitrary it is to put human labels on cosmic objects.
Tom Statler
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Fanno parte della categoria degli A.G.N.:
Prendono il nome dello scienziato che le ha scoperte già nel 1943. Sono in genere galassie a spirale (Sa e Sb), con un nucleo brillante di apparenza stellare o semistellare. Lo spettro ottico del nucleo mostra intense e larghe righe di emissione dovute a righe di ricombinazione di idrogeno e a transizioni proibite in elementi di vario tipo di ionizzazione, tipicamente: ossigeno, ferro e azoto. Presentano luminosità nettamente inferiore ai quasar ma hanno caratteristiche simili ai QSO. Gli spettri dei Quasar sono molto simili a quelli delle galassie dette di Seyfert Tipo I dal nucleo estremamente attivo. Le galassie di Seyfert I potrebbero essere anche dei Quasar in una fase evolutiva più avanzata. Le Seyfert di Tipo II, con nucleo meno attivo, rappresenterebbero una fase evolutiva ancora più tardiva. M77 è una galassia di Seyfert ed è tra le più luminose "Seyfert" del cielo.
(Vedi immagine qui sopra)-Beautiful color CCD image of the Sb spiral and Seyfert galaxy M77, from the NOAO. Credit: NOAO/AURA/NSF.
Sono galassie generalmente ellittiche con forte emissione nella banda radio comparabile a quella ottica. Tali galassie, quindi, oltre ad emettere luce visibile sprigionano anche onde radio attraverso un meccanismo che trova la sua origine nel movimento a velocità prossime a quella della luce di elettroni immersi in campi magnetici molto intensi. Tale emissione viene chiamata radiazione di sincrotone, a causa della somiglianza con quella prodotta negli acceleratori di particelle. Presentano all'osservazione strutture molto estese di dimensioni anche dell'ordine di 1.5 Mpc (Mpc = 3,26 milioni di a.l.), nelle quali sono spesso riscontrabili una coppia di getti, che si dipartono in direzioni opposte rispetto al nucleo. Per fare un esempio sono radiogalassie M82 e M87 o Virgo A.
DIGRESSIONE...
Facilities per la Radiazione
di Sincrotrone
L'impegno dell'Italia nel campo della radiazione
di sincrotrone e' principalmente devoluto alla costruzione e all'utilizzo delle
due sorgenti Europee tra le piu' importanti al mondo:
ESRF (European Synchrotron Radiation Facility) a Grenoble
ELETTRA
Laboratorio a Trieste :-)
Sia ELETTRA che
ESRF sono sincrotroni di
terza generazione, caratterizzati da sorgenti di alta intensità e luce
di brillanza. Mentre ELETTRA
opera nella scala dei raggi UV e dei raggi
X deboli, ESRF
opera nella gamma dei raggi X intensi. Sono possibili svariati
esperimenti, grazie alle diverse caratteristiche delle linee di luce. L'INFM
è il principale finanziatore di ELETTRA
per conto del governo Italiano e partecipa al mantenimento e allo sviluppo di
ESRF. In entrambe le strutture,
una frazione del tempo di fascio è resa disponibile per uso pubblico,
attraverso la selezione di proposte da parte del Committee della struttura,
sulla base di un bando internazionale. Le scadenze
per la sottomissione di una proposta sono due volte all'anno.
Per le linee di luce e le stazioni sperimentali costruite e tenute in funzione
dagli Istituti di Ricerca (come
il CNR, l'INFM
e l'INFN in Italia),
un'ulteriore frazione di tempo è destinata agli utenti nazionali, attraverso
proposte selezionate dai commissioni degli istituti stessi. L'INFM
inoltre finanzia lo sviluppo di strumentazione e l'accesso ad altre strutture
che operano nell'ambito dell'Unione Europea (LURE,
DESY, BESSY,
etc.).
FINE DIGRESSIONE
Quasar o Oggetti quasi stellari (QSO - Quasi Stellar Object)
Negli anni '60 si tentò di identificare in luce visibile alcuni oggetti celesti che emettevano onde radio. La Radiosorgente 3C48 (3C sta per III Catalogo di Radiosorgenti dell'Osservatorio di Cambridge) fu identificata con una stellina azzurra di solo magnitudine 16 che, vista la potenza della sorgente, appariva assai debole. Nel 1960 il grande astronomo americano Allan Sandage ottenne uno spettro di 3C48 che presentava delle righe allargate in modo anomalo. Nel 1963 molti astronomi, tra i quali Cyril Hasard, rivolsero i loro strumenti verso la radiosorgente 3C273 mentre era occultata dal bordo del disco lunare e trovarono la posizione esatta della sorgente di microonde. L'occultamento fu necessario perché i radiotelescopi dell'epoca potevano stabilire la posizione di una sorgente senza una precisione totale, con un margine di errore di 5 sec. d'arco. L'astronomo olandese Maarten Schmidt prese uno spettro di un'altra controparte ottica di radiosorgente, la 3C273, una stellina di magnitudine13, che presentava una sostanziale identità con quella di 3C48. Schmidt provò a interpretare le righe spettrali come se esse apparissero allargate a causa di un fortissimo spostamento verso il rosso (Redshift), provocato da un oggetto in rapido moto di allontanamento. La cosa funzionò e le righe così andarono a corrispondere a quelle già note presenti in altri corpi celesti. Il procedimento venne ripetuto per 3C48 e per altre sorgenti simili, per le quali fu coniato il termine Quasi Stellar Radio Source o QSRS, ossia Radiosorgente quasi stellare. I Quasar sono molto luminosi anche nei raggi X. Il Quasar 3C273, uno dei più vicini e dei più luminosi, emette in tale lunghezza d'onda quanto nel visibile e l'emissione è in prevalenza concentrata nel nucleo. Dista dalla Terra 2,1 miliardi di anni luce (e 3C48 a ca.3,5 miliardi a.l.) e fu il primo ad essere riconosciuto come Quasar.
La sua luminosità intensa è l'equivalente a quella di 1000 galassie tipo Via Lattea. Con i grandi telescopi si intravede anche un getto di 150 mila anni luce che fuoriesce dal Quasar. Non tutti Quasar emettono onde radio. Anzi la maggior parte degli oggetti di elevatissimo Redshift, di aspetto stellare e che mostrano grandi produzioni di energia, tutti tratti distintivi dei Quasar, è radioquieta. Per questi, quindi, l'acrostico Quasar era fuori luogo. Si è proposto perciò di chiamare tutti i corpi di questo tipo, Radioemittenti o Radioquieti, semplicemente QSO (Quasi Stellar Object o Oggetti Quasi Stellari), oppure accogliendo il suggerimento di Maarten Schmidt, avanzato nel 1970, semplicemente Quasar, senza la "s" finale. Si comprese ben presto che i Quasar tutto potevano essere tranne che delle stelle. Se il loro Redshift era collegato all'espansione dell'Universo, allora essi dovevano essere lontanissimi. Infatti, a un maggiore Redshift, corrispondeva una maggiore velocità di allontanamento (tali oggetti si allontanano anche al 90 % della velocità della luce) e, a questa, per la Legge di Hubble, distanze elevatissime di miliardi di anni luce. Oggi si hanno ben pochi dubbi che un Quasar sia il Nucleo Attivo di una Galassia o AGN (protogalassia), lontanissima. Nel 1929 Edwin Hubble scoprì l'espansione dell'Universo, constatando che tutte le galassie si allontanano da noi con una velocità crescente con la distanza. E' sufficiente conoscere la velocità di recessione di un corpo celeste e il valore di Ho per arrivare alla distanza. [La velocità è uguale al rapporto tra lo spostamento verso il rosso (Redshift), chiamato "z" (ossia, una sorgente luminosa in moto di allontanamento appare arrossata, ovvero la lunghezza d'onda della sua luce aumenta di una quantità, crescente con la velocità, che è facilmente misurabile dagli spettrografi, - effetto Doppler -) e la velocità della luce]. [Il valore di Ho, alquanto incerto, è uguale al rapporto tra la velocità di recessione e la distanza della galassia]. Pare che il valore Ho era inesatto di almeno un fattore 5 o 10, ma ancora oggi gruppi diversi di osservatori danno valori di Ho compresi nell'intervallo (50 - 100 Km/s) per Mpc. Si è inclini a preferire il valore più basso, ossia (50 Km/s) su Mpc, o ancora più basso. Ovvero, una velocità di allontanamento di 50 Km/s. Wendy Freedman ha studiato 20 cefeidi variabili nella galassia M100 per poter conoscere con precisione la distanza della galassia e, da quest'ultima, attraverso la legge di Hubble, conoscere Ho. Il valore Ho trovato dalla Freedman risulta essere di 25 Km/s per 1 milione di Parsec (Mpc). Tale dato non è condiviso oggi, anche perché fisserebbe l'età dell'Universo non più a 14 miliardi di anni fa, ma a meno di 10 miliardi di anni.
Componenti dello spettro soft e hard. Spettro di potenza dei Quasar...
La luce, e in più in generale la radiazione elettromagnetica, viene classificata in base alla sua frequenza o, equivalentemente, alla sua lunghezza d'onda (a grandi frequenze corrispondono lunghezze d'onda più corte, e viceversa). L'occhio umano riesce a percepire una frazione molto limitata delle possibili frequenze, ma lo spettro elettromagnetico è in realtà molto più ampio. I termini hard e soft sono generalmente utilizzati dagli astronomi proprio per classificare la frequenza della radiazione: fotoni hard corrispondono a frequenze più elevate, fotoni soft indicano frequenze minori (o lunghezze d'onda maggiori). Questa definizione è in realtà un po' ambigua, in quanto lascia imprecisato il valore assoluto delle frequenze in questione (è un concetto comparativo). Il contesto più comune in cui questa terminologia viene utilizzata è l'astronomia di alta energia, cioè quella che studia la radiazione X e gamma degli oggetti astronomici (frequenze superiori a circa 1016 Hz, ossia 500 volte quelle della luce visibile). Ad esempio, nella regione occupata dai raggi X (da 1016 a 1019 Hz) si considera la regione soft fino a circa 1017 Hz, e la regione hard al di sopra di 1018 Hz. In italiano, i due termini si rendono solitamente con duro (hard) e soffice (soft). I quasar, appartenenti alla classe più generale degli AGN (nuclei galattici attivi), sono oggetti astronomici estremamente luminosi, che emettono radiazione elettromagnetica sull'intero spettro. La figura mostra uno spettro tipico di un quasar nella banda X, ovvero la distribuzione dell'energia emessa in funzione della frequenza; in ascissa è indicata l'energia dei fotoni, quantità che risulta proporzionale alla loro frequenza (1 KeV corrisponde a circa 2×1017 Hz). Sono mostrate le diverse componenti necessarie a descrivere lo spettro osservato. Ciascuna componente è il risultato di un diverso meccanismo di emissione, oppure proviene da una porzione diversa della sorgente.
Anche se la figura può apparire complicata, la parte di alta energia (frequenze maggiori di circa 1 keV) è descritta bene da una singola componente predominante (che segue una legge di potenza: power law), con l'aggiunta di tre emissioni minori (gli warm absorbers, la riga del ferro, o Iron line, ed il continuo di riflessione). Al contrario, al di sotto di 0.5-0.7 keV è presente un'emissione piuttosto intensa che si discosta nettamente dall'andamento ad alta energia. Questa componente viene chiamata "soft X-ray excess" (eccesso nella regione X soft). Al contrario, non è chiaro cosa produca la componente soft. Una possibile ipotesi è che non sia altro che l'emissione termica da parte della materia che cade nel buco nero. Tutti i corpi, ad una certa temperatura, emettono radiazione (detta termica o di corpo nero), la cui frequenza di emissione cresce all'aumentare della temperatura del corpo (ad esempio, un ferro rovente brilla di luce rossastra, mentre a temperatura ambiente i corpi emettono raggi infrarossi, invisibili all'occhio umano). Per produrre radiazione X, la materia emittente dovrebbe essere quindi estremamente calda (questo però non è facile da spiegare, e getta dubbi su questa ipotesi). Alternativamente, l'eccesso soft potrebbe essere il risultato della fusione di un gran numero di righe di emissione. Le righe di emissione sono prodotte da atomi che emettono fotoni a una frequenza ben precisa, producendo uno spettro in cui gran parte del flusso è concentrato attorno a quella frequenza (un esempio lo si vede anche in figura, con la riga del ferro, Iron Ka line). Se però esistono atomi diversi che emettono moltissime righe di frequenza simile, è possibile che tutte le righe si confondano in un'unica componente, anche perché la capacità dei rivelatori X di distinguere frequenze diverse non è particolarmente buona. Per concludere, segnalo che i risultati delle osservazioni più recenti (ultimi anni) hanno mostrato che l'importanza del soft X-ray excess è minore di quanto ritenuto in precedenza.
Spiral Galaxy M100 (NGC 4321), type Sc, in Coma Berenices
Right Ascension | 12 : 22.9 (h:m) |
---|---|
Declination | +15 : 49 (deg:m) |
Distance | 60000 (kly) |
Visual Brightness | 9.3 (mag) |
Apparent Dimension | 7x6 (arc min) |
Sono quelle in cui il tasso di formazione stellare è così intenso e molto superiore alla media (nella nostra galassia nasce invece circa 1 stella al mese) che non può essere sostenuto lungo l'arco dell'intero loro tempo di vita. Il loro spettro ottico è tipico di regioni di bassa ionizzazione e ci dice che c'è una notevole presenza di stelle giovani (attività favorita anche interazioni tra galassie); le "Starburst" presentano una forte emissione nell'infrarosso. Questi oggetti devono le loro peculiarità ad un aumento della formazione stellare, e non sono quindi AGN in senso stretto. La loro morfologia è a spirale, ma buona parte di tali oggetti (ca. 25%) appartiene probabilmente a sistemi in interazione.
Tali oggetti (da Blaze: vampata) comprendono classi di "AGN" caratterizzati da un elevato grado di polarizzazione dello spettro continuo e mostrano variabilità molto rapide, su scale di tempo generalmente dell'ordine del giorno. Sono compresi nei Blasar:
(*)-Oggetti
BL Lacertae: sorgenti luminosissime, simili ai quasar radioemittenti
ma con assenza di righe di emissione e sono molto variabili nella banda ottica
radio e nella frequenza dei raggi X. Si trovano generalmente
al centro di galassie ellittiche giganti.
(*)-Optically Violent Variables - O.V.V.: possiedono caratteristiche simili agli Oggetti BL Lacertae ma il loro spettro presenta larghe righe di emissione, peraltro più deboli rispetto ai quasar.
(*)-I Liner - "Low Ionization Nuclear Emitting Region": presentano nel loro spettro, oltre alle sigle della "Serie di Balmer", una forte emissione di righe di bassa ionizzazione (righe in emissione di elementi neutri): righe in assorbimento tipiche delle normali galassie Tali oggetti rappresentano la coda di bassa luminosità degli AGN e sono relativamente frequenti nelle galassie dei primi tipi morfologici.
DIGRESSIONE...
Nelle atmosfere stellari gli atomi assorbono ed emettono radiazione. Il processo è interno all'atomo ma le altre particelle possono far sentire la loro presenza perturbandone i livelli energetici grazie alle interazioni di tipo elettrico. Sia Df=f-f0 la variazione della frequenza emessa rispetto a quella imperturbata f0. In generale si puo' assumere che:
Df=q/rm
dove q e m (m>0), sono delle costanti opportune. Se l'atomo interagisce con una particella carica (elettrone o ione), m=2, se interagisce con un atomo neutro m=6. L'azione perturbatrice decresce più o meno rapidamente con la distanza, anche se non si annulla mai. Un'approssimazione accettabile è assumere che la perturbazione sia praticamente nulla per r>l, dove l è una distanza critica dipendente da q e m. A parità di q, l è tanto maggiore quanto minore è m. Il valore di l definisce il raggio della sfera di influenza delle particelle perturbatrici. Nel suo moto in mezzo al gas il nostro atomo si muoverà per un tempo ti all'interno delle sfere di influenza delle altre particelle e per un tempo te all'esterno. Se te>>ti la densità delle particelle è così bassa che l'azione perturbatrice non sarà avvertibile nello spettro. Se ti>>te vuole dire che la densità delle particelle è elevata e che la distanza media fra l'una e l'altra è dell'ordine di l. In questo caso l'atomo è fortemente perturbato nei sui livelli energetici, specie quando m=2, e l'emissione e l'assorbimento non avviene più alla frequenza f0 con il risultato che la riga spettrale si allarga (effetto Stark). Il coefficiente di assorbimento di una riga spettrale è dato da:
K=N a(f)/rho (cm2 g-1)
dove N=numero di particelle per unità' di volume nello stato quantico inferiore della riga, a(f)=sezione efficace alla frequenza f, rho=densità. La funzione a(f) per l'effetto Stark, per le ali della riga spettrale e per m=2 (elettroni e ioni), è (profilo Stark):
a(f)=k/|f-f0|(5/2) (cm2)
dove k è una costante che differisce da una riga all'altra. L'equazione precedente vale solo per f diverso da f0. L'effetto Stark, nelle atmosfere stellari, è molto importante per le righe dell'H e dell'He e trascurabile per tutti gli altri elementi. Poichè l'allargamento cresce con la pressione elettronica, le righe dell'H sono assai più forti nelle stelle della classe di luminosità V (stelle della sequenza principale), che in quella della classe III (stelle giganti). Una conseguenza importante dell'effetto Stark consiste nel fatto che, a causa del loro allargamento, le righe della serie di Balmer finiscono con il confluire una nell'altra ad un numero d'ordine tanto più basso quanto più è alta la densità dell'atmosfera stellare.
Sfruttando questo fatto l'equazione di Inglis-Teller:
log(N)=23.26-7.5 log(n)
consente di determinare il numero di particelle cariche per unità di volume, N, in funzione del numero n corrispondente all'ultima riga della serie di Balmer ancora visibile nello spettro della stella.
NOTA: Nell'effetto Stark, l'applicazione di un campo elettrostatico non rimuove totalmente la degenerazione, con la conseguenza che si presentano due livelli perturbati spostati in energia di una quantità proporzionale all'intensità del campo stesso. L'effetto Stark è quel fenomeno per cui, applicando ad un atomo un campo elettrico costante nel tempo in direzione, modulo e verso, si osserva una separazione del valore di energia di alcuni stati, per cui stati che a campo spento avevano la stessa energia, dopo l'accensione del campo presentano valori dell'energia leggermente differenti. Tuttavia, questo fenomeno non è totale, anche dopo l'accensione del campo permangono stati differenti con lo stesso valore dell'energia. Il motivo risiede nelle proprietà di simmetria degli stati stazionari degli atomi. Quando accendiamo un campo elettrico come quello usato per rilevare l'effetto Stark lo spazio perde alcune proprietà di simmetria, perché adesso le direzioni non sono tutte equivalenti, per cui il sistema non è più isotropo. In queste condizioni gli stati che hanno differenti proprietà di simmetria rispetto alla direzione privilegiata selezionata dal campo elettrico rispondono alla presenza di questo campo in maniera differente, portando quindi alla separazione dei livelli energetici. Ma alcuni stati presentano le stesse proprietà di simmetria rispetto alla direzione privilegiata: per esempio, dei tre stati p, uno di essi (quello che in genere si indica con pz) ha un asse di simmetria parallelo al campo elettrico, gli altri due (px e py) avranno un asse di simmetria perpendicolare al campo, questi ultimi due stati risponderanno al campo elettrico in maniera differente rispetto a pz, portandosi ad un valore di energia differente, ma entrambi risponderanno allo stesso modo, per cui tra loro non si evidenzierà nessuna differenza di energia, anche a campo acceso.
Il modello atomico proposto da Niels Bohr prevedeva che gli elettroni potessero orbitare intorno al nucleo solo in determinate orbite; inoltre quando un elettrone si mantiene in una determinata orbita non irradia energia. Quando invece un elettrone passa da un'orbita all'altra irradia energia sotto forma di onda elettromagnetica la cui frequenza è proporzionale alla differenze delle energie degli elettroni nei due orbitali.
Ei-Ef = h f.
Dove Ei ed Ef indicano le energie dei livelli iniziali e finali, h la costante di Plank e f la frequenza della radiazione
Questo modello differisce dal modello planetario che si basa invece sulla fisica classica e per la quale sono permesse orbite per ogni livello energetico ed inoltre essendo un elettrone una particella carica in moto accelerato doveva emanare energia pertanto avrebbe dovuto stringere la sua orbita e cadere nel nucleo in brevissimo tempo.
Le energie dei vari livelli energetici sono date da: il calcolo si trova su tutti i libri che trattano l'argomento...
En = - m e4 / ( 8 n2 h2 e o2 )
Dove m indica la massa dell'elettrone, e o la costante dielettrica del vuoto, n indica il livello ed è un numero intero.
Analogamente è possibile calcolare i raggi delle orbite permesse:
rn = n2 e o h2 /( p me2) con n naturale
i valori numerici nel S.I. dei primi livelli energetici e delle orbite del primo raggio sono:
E1 = -2,18 x 10 -18 Joule
E2 = -0,545 x 10 -18 Joule
E3 = -0,242 x 10 -18 Joule
….
E ¥ = 0 che è l'energia di ionizzazione
r1 = 5,29 x 10 -11 m
r2 = 21,16 x 10 -11 m
r3 = 47,61 x 10 -11 m
Se l'elettrone scende da un livello superiore ad un livello inferiore emette un fotone di frequenza
f = (Ef-Ei)/h
In particolare se il livello di arrivo è il secondo si ottiene la serie di righe spettrali di Balmer le cui frequenze sono date da
fn = me4/(8 e o2h3) (1/4 - 1/n2 )
come era stato scoperto empiricamente da Balmer senza però che la fisica classica ne desse una giustificazione teorica. Vedi questo Java-Applet.
NOTA: Il programma di simulazione rappresenta l'atomo di idrogeno con i diversi livelli possibili, l'elettrone non viene rappresentato da una particella ma da un'onda (di De Broglie) la cui lunghezza d'onda è data da h/p dove p rappresenta la quantità di moto dell'elettrone, associando alla particella un'onda si giustifica anche il perché solo alcune delle orbite sono permesse: solo quelle orbite per le quali la intera circonferenza è multipla della lunghezza d'onda in modo che l'onda risulti stazionaria.
Istruzioni per l'APPLET
Per passare da un livello all'altro si può trascinare con il mouse la circonferenza verde che rappresenta il raggio di Bohr e il livello energetico, se non si posiziona esattamente su un livello permesso l'orbita si restringe fino a trovare un livello stabile. Per studiare lo spettro delle righe di Balmer si posiziona l'atomo in un livello superiore al secondo e poi premendo sul tasto Balmer l'elettrone scende di livello emettendo un fotone la cui riga spettrale può essere studiata nello spettro in basso. I tasti zoom permettono di avvicinare o allontanare l'atomo.
FINE DIGRESSIONE
Le galassie di Markarian:
sono state identificate attraverso una ricerca sistematica di galassie con un
eccesso ultravioletto nel continuo, effettuata con un primo obiettivo montato
al telescopio Schimdt dell'Osservatorio Byurakan in Russia.
Esse comprendono molte galassie di tipo Starburst
e per ca. il 10 % si tratta di galassie
di Seyfert.
Galassie HII:
galassie il cui nucleo presenta uno spettro con sottili righe, caratteristiche
delle regioni di idrogeno ionizzato (HII),
ionizzazione provocata dall'energia ultravioletta
di stelle calde.
Galassie IRAS:
galassie luminosissime nella banda dell'infrarosso
lontano e prendono il nome dal satellite che ha permesso di identificarle.
18.03.2001 Scoperto un quasar di tipo II
Grazie all'osservatorio spaziale per raggi X Chandra, gli astronomi hanno potuto osservare un oggetto di cui da 20 anni ipotizzavano l'esistenza: un quasar di tipo II. Molto probabilmente nei prossimi giorni verranno scoperti (e aono pio stati scoperti [vedi data della scoperta]) ancora diversi di questi oggetti, grazie a una serie di osservazioni speciali della NASA. I quasar di tipo II sono molto simili a quelli "normali", a parte il fatto che sono circondati da un alone di gas e polvere che ne riduce la luminosità nel visibile. Secondo noi astrofisici, questi oggetti evolverebbero poi in quasar "normali" a mano a mano che soffiano via la materia da cui sono circondati. In pratica, quindi, i quasar di tipo II sono oggetti più antichi degli altri. Il gruppo che ha compiuto la scoperta, che comprende anche Riccardo Giacconi (premio Nobel), ha analizzato le osservazioni compiute con Chandra e altre nel visibile effettuate da terra con uno dei telescopi del VLT. Immediatamente dal confronto è emerso un oggetto con le caratteristiche esatte previste dalla teoria: una intensa emissione nei raggi X e sottili righe in emissione nello spettro visibile. Ora gli astronomi aspettano di vedere quanti altri di questi oggetti verranno scoperti, per poter confrontare le loro popolazioni. (Oggi altri oggetti di questo tipo sono stati scoperti. Il confronto delle loro popolazioni [e non solo questo] ha reso possibile importanti risultati per l'astrofisica Ciò ha portato nel il Nobel a Giacconi).
New quasar studies set
stringent limit
EUROPEAN SOUTHERN OBSERVATORY NEWS RELEASE
Posted: April 3, 2004
Detecting or constraining the possible time variations of fundamental physical constants is an important step toward a complete understanding of basic physics and hence the world in which we live. A step in which astrophysics proves most useful. Previous astronomical measurements of the fine structure constant - the dimensionless number that determines the strength of interactions between charged particles and electromagnetic fields - suggested that this particular constant is increasing very slightly with time. If confirmed, this would have very profound implications for our understanding of fundamental physics. New studies, conducted using the UVES spectrograph on Kueyen, one of the 8.2-m telescopes of ESO's Very Large Telescope (VLT) array at Paranal (Chile), secured new data with unprecedented quality. These data, combined with a very careful analysis, have provided the strongest astronomical constraints to date on the possible variation of the fine structure constant. They show that, contrary to previous claims, no evidence exist for assuming a time variation of this fundamental constant.
A fine constant
To explain the Universe and to represent it mathematically, scientists rely on so-called fundamental constants or fixed numbers. The fundamental laws of physics, as we presently understand them, depend on about 25 such constants. Well-known examples are the gravitational constant, which defines the strength of the force acting between two bodies, such as the Earth and the Moon, and the speed of light. One of these constants is the so-called "fine structure constant", alpha = 1/137.03599958, a combination of electrical charge of the electron, the Planck constant and the speed of light. The fine structure constant describes how electromagnetic forces hold atoms together and the way light interacts with atoms. But are these fundamental physical constants really constant ? Are those numbers always the same, everywhere in the Universe and at all times ? This is not as naive a question as it may seem. Contemporary theories of fundamental interactions, such as the Grand Unification Theory (GUT) or super-string theories that treat gravity and quantum mechanics in a consistent way, not only predict a dependence of fundamental physical constants with energy - particle physics experiments have shown the fine structure constant to grow to a value of about 1/128 at high collision energies - but allow for their cosmological time and space variations. A time dependence of the fundamental constants could also easily arise if, besides the three space dimensions, there exist more hidden dimensions. Already in 1955, the Russian physicist Lev Landau considered the possibility of a time dependence of alpha. In the late 1960s, George Gamow in the United States suggested that the charge of the electron, and therefore also alpha, may vary. It is clear however that such changes, if any, cannot be large or they would already have been detected in comparatively simple experiments. Tracking these possible changes thus requires the most sophisticated and precise techniques.
Looking back in time
In fact, quite strong constraints are already known to exist for the possible variation of the fine structure constant alpha. One such constraint is of geological nature. It is based on measures taken in the ancient natural fission reactor located near Oklo (Gabon, West Africa) and which was active roughly 2,000 million years ago. By studying the distribution of a given set of elements - isotopes of the rare earths, for example of samarium - which were produced by the fission of uranium, one can estimate whether the physical process happened at a faster or slower pace than we would expect it nowadays. Thus we can measure a possible change of the value of the fundamental constant at play here, alpha. However, the observed distribution of the elements is consistent with calculations assuming that the value of alpha at that time was precisely the same as the value today. Over the 2 billion years, the change of alpha has therefore to be smaller than about 2 parts per 100 millions. If present at all, this is a rather small change indeed. But what about changes much earlier in the history of the Universe ? To measure this we must find means to probe still further into the past. And this is where astronomy can help. Because, even though astronomers can't generally do experiments, the Universe itself is a huge atomic physics laboratory. By studying very remote objects, astronomers can look back over a long time span. In this way it becomes possible to test the values of the physical constants when the Universe had only 25% of is present age, that is, about 10,000 million years ago.
Very far beacons
To do so, astronomers rely on spectroscopy - the measurement of the properties of light emitted or absorbed by matter. When the light from a flame is observed through a prism, a rainbow is visible. When sprinkling salt on the flame, distinct yellow lines are superimposed on the usual colours of the rainbow, so-called emission lines. Putting a gas cell between the flame and the prism, one sees however dark lines onto the rainbow: these are absorption lines. The wavelength of these emissio= and absorption lines is directly related to the energy levels of the atoms in the salt or in the gas. Spectroscopy thus allows us to study atomic structure. The fine structure of atoms can be observed spectroscopically as the splitting of certain energy levels in those atoms. So if alpha were to change over time, the emission and absorption spectra of these atoms would change as well. One way to look for any changes in the value of alpha over the history of the Universe is therefore to measure the spectra of distant quasars, and compare the wavelengths of certain spectral lines with present-day values. Quasars are here only used as a beacon - the flame - in the very distant Universe. Interstellar clouds of gas in galaxies, located between the quasars and us on the same line of sight and at distances varying from six to eleven thousand of million light years, absorb parts of the light emitted by the quasars. The resulting spectrum consequently presents dark "valleys" that can be attributed to well-known elements. If the fine-structure constant happens to change over the duration of the light's journey, the energy levels in the atoms would be affected and the wavelengths of the absorption lines would be shifted by different amounts. By comparing the relative gaps between the valleys with the laboratory values, it is possible to calculate alpha as a function of distance from us, that is, as a function of the age of the Universe. These measures are however extremely delicate and require a very good modelling of the absorption lines. They also put exceedingly strong requirements on the quality of the astronomical spectra. They must have enough resolution to allow very precise measurement of minuscule shifts in the spectra. And a sufficient number of photons must be captured in order to provide a statistically unambiguous result. For this, astronomers have to turn to the most advanced spectral instruments on the largest telescopes. This is where the Ultra-violet and Visible Echelle Spectrograph (UVES) and ESO's Kueyen 8.2-m telescope at the Paranal Observatory is unbeatable, thanks to the unequalled spectral quality and large collecting mirror area of this combination.
Constant or not?
A team of astronomers, led by Patrick Petitjean (Institut d'Astrophysique de Paris and Observatoire de Paris, France) and Raghunathan Srianand (IUCAA Pune, India) very carefully studied a homogeneous sample of 50 absorption systems observed with UVES and Kueyen along 18 distant quasars lines of sight. They recorded the spectra of quasars over a total of 34 nights to achieve the highest possible spectral resolution and the best signal-to-noise ratio. Sophisticated automatic procedures specially designed for this programme were applied. In addition, the astronomers used extensive simulations to show that they can correctly model the line profiles to recover a possible variation of alpha. The result of this extensive study is that over the last 10,000 million years, the relative variation of alpha must be less than 0.6 part per million. This is the strongest constraint from quasar absorption lines studies to date. More importantly, this new result does not support previous claims of a statistically significant change of alpha with time. Interestingly, this result is supported by another - less extensive - analysis, also conducted with the UVES spectrometer on the VLT. Even though those observations were only concerned with one of the brightest known quasar HE 0515-4414, this independent study lends further support to the hypothesis of no variation of alpha. Even though these new results represent a significant improvement in our knowledge of the possible (non-) variation of one of the fundamental physical constants, the present set of data would in principle still allow variations that are comparatively large compared to those resulting from the measurements from the Oklo natural reactor. Nevertheless, further progress in this field is expected with the new very-high-accuracy radial velocity spectrometer HARPS on ESO's 3.6-m telescope at the La Silla Observatory (Chile). This spectrograph works at the limit of modern technology and is mostly used to detect new planets around stars other than the Sun - it may provide an order of magnitude improvement on the determination of the variation of alpha. Other fundamental constants can be probed using quasars. In particular, by studying the wavelengths of molecular hydrogen in the remote Universe, one can probe the variations of the ratio between the masses of the proton and the electron. The same team is now engaged in such a large survey with the Very Large Telescope (VLT) that should lead to unprecedented constraints on this ratio.
NOTA: [Riassunto in lingua italiana.] La costante di struttura fine non è cambiata. Un nuovo studio contraddice un risultato precedente. Alcuni anni fa, un team di astronomi australiani dell'Università del Nuovo Galles del Sud aveva annunciato che le leggi della fisica potevano essere leggermente cambiate dal big bang in poi. La luce dei quasar proveniente dagli angoli più distanti dell'universo, infatti, sembrava suggerire che una costante fondamentale in passato fosse leggermente diversa rispetto a oggi. In particolare le linee scure dello spettro, dovute all'assorbimento da parte del gas interposto, non avevano tutte lo stesso red shift. I ricercatori avevano attribuito le deviazioni a cambiamenti nella cosiddetta costante di struttura fine, un numero che dipende dalla velocità della luce, dalla costante di Planck e dalla carica dell'elettrone. Avevano pertanto concluso che, miliardi di anni fa, questa costante era più piccola di circa 6 parti per milione rispetto a oggi. E alcuni fisici teorici, nel tentativo di riconciliare la teoria della relatività con la meccanica quantistica, hanno studiato teorie dove questa "costante" varia con il tempo. Ma in un articolo pubblicato sulla rivista "Physical Review Letters", un altro team di ricercatori ha applicato la stessa tecnica a nuovi dati e ha concluso che, se c'è stato un cambiamento, è molto più piccolo di quanto i loro colleghi avessero affermato. Usando il VLT dell'ESA, Arnard Srianand dell'Inter University Center for Astronomy and Astrophysics di Pune, in India, avrebbero concluso che la costante di struttura fine è davvero una costante, e che la variazione osservata nello studio precedente è altamente improbabile. R. Srianand, H. Chand, P. Petitjean, B. Aracil, Limits on the Time Variation of the Electromagnetic Fine-structure Constant in the low Energy Limit From Absorption Lines in the Spectra of Distant Quasars. Phys. Rev. Lett. 92, 121302 (26 marzo 2004).
Chandra looks over a
cosmic four-leaf clover
CHANDRA X-RAY CENTER NEWS RELEASE
Posted: July 6, 2004
A careful analysis of observations by NASA's Chandra X-ray Observatory of a rare quadruple quasar has uncovered evidence that possibly a single star in a foreground galaxy magnified X-rays coming from the quasar. This discovery gives astronomers a new and extremely precise probe of the gas flow around the supermassive black hole that powers the quasar.
This is Chandra's X-ray view of the so-called Cloverleaf quasar, a single object whose image has been reproduced four times through an effect known as "gravitational lensing." Credit: NASA/CXC/Penn State/G.Chartas et al.
If the interpretation is correct, then we are seeing details around this black hole that are 50,000 times smaller than either the Hubble Space Telescope (HST) or Chandra could see under ordinary circumstances. The Cloverleaf quasar is a single object about 11 billion light years from Earth that appears as four images produced by a process known as gravitational lensing. If one or more galaxies lie along the line of sight to a more distant quasar, the gravitational field of the intervening galaxies can bend and magnify the light from the quasar and produce multiple images of it. The four images of the Cloverleaf quasar have been produced by one or more intervening galaxies. One of the images (A), in the Cloverleaf is brighter than the others in both optical and X-ray light. Chartas [George Chartas of Penn State University in University Park, and lead author of a recent article on the Cloverleaf quasar in The Astrophysical Journal] and his colleagues found the relative brightness of this image was greater in X-ray than in optical light. The X-rays from iron atoms were also enhanced relative to X-rays at lower energies. Since the amount of brightening due to gravitational lensing does not vary with the wavelength, this means that an additional object has magnified the X-rays. The increased magnification of the X-ray light can be explained by gravitational microlensing, an effect which has been used to search for compact stars and planets in our galaxy. Microlensing occurs when a star or a multiple star system passes in front of light from a background object.
X-ray: NASA/CXC/Penn State/G.Chartas et al; Illustration: NASA/CXC/M.Weiss
If a single star or a multiple star system in one of the foreground galaxies passed in front of the light path for the brightest image, then that image would be selectively magnified. The X-rays would be magnified much more than the visible light, if they came from a smaller region around the black hole than the visible light. The enhancement of the X-rays from iron ions would be due to this same effect. The analysis indicates that the X-rays are coming from a very small region, about the size of the solar system, around the supermassive black hole. The visible light is coming from a region ten or more times larger. The angular size of these regions at a distance of 11 billion light years is tens of thousands times smaller than the smallest region that can be resolved by the Hubble Space Telescope (HST). The significance of the detection of microlensed X-rays from the Cloverleaf quasar lies in the extremely small region that is enhanced by the microlens give us the ability to make strong tests of models for the flow of gas around a supermassive black hole. Other team members include Michael Eracleous (Penn State), Eric Agol (University of Washington), and Sarah Gallagher (UCLA). NASA's Marshall Space Flight Center, Huntsville, Ala., manages the Chandra program for NASA's Office of Space Science, Washington. Northrop Grumman of Redondo Beach, Calif., formerly TRW, Inc., was the prime development contractor for the observatory. The Smithsonian Astrophysical Observatory controls science and flight operations from the Chandra X-ray Center in Cambridge, Mass.
Con il termine "galassia attiva" si intende una galassia che mostra i segni di un'intensa attività energetica al suo interno, di solito nella regione nucleare. Per questo motivo si parla spesso anche di "nuclei galattici attivi". Questa attività si manifesta in vari modi, ma produce sempre una grande luminosità; a seconda del loro aspetto, dell'energia emessa e del loro spettro, le galassie attive vengono suddivise in diverse classi. Le più importanti sono le galassie di Seyfert, i quasar e le radiogalassie. Le galassie attive emettono una luminosita' enorme, cento o mille volte maggiore di una galassia normale, cosa che non si può spiegare con la sola energia emessa dalle stelle che le compongono. Inoltre, il loro spettro è diverso da quello delle galassie normali, sia per quanto riguarda l'intensità della luce emessa nelle diverse bande spettrali che per la presenza o assenza di righe. Le galassie attive sono spesso sorgenti molto intense proprio nelle bande spettrali più "insolite" per una galassia, cioè la banda radio e la banda X. Infine la luminosità di molte di queste galassie, almeno in certe bande spettrali, varia con periodi molto brevi, di pochi giorni o anche di ore; questo fatto sarebbe inspiegabile se la sorgente di luce predominante fossero le semplici stelle. Tutti questo fa pensare che la sorgente di tale luminosità non sia soltanto stellare, ma si tratti di un meccanismo violento, di natura ancora incerta, che agisce in una regione molto piccola della galassia rispetto alle sue dimensioni complessive. La maggior parte dell'energia emessa dai nuclei galattici attivi proviene infatti da regioni centrali delle dimensioni di di poche ore-luce o giorni-luce (un'ora luce è la distanza percorsa dalla luce un un'ora). Per avere un'idea di quanto piccolo è il nucleo emittente rispetto alle dimensioni dell'intera galassia, si pensi che la distanza tra il Sole e Plutone è di 5.2 ore-luce, mentre il diametro di una tipica galassia è di 100.000 anni luce o più !! Questo significa che la regione emittente di un nucleo attivo può avere le dimensioni di un sistema solare.
(Vedi figura qui sopra)-La galassia M87, un'ellitica di tipo E1, nella costellazione della Vergine. E' una delle galassie più ricche di ammassi globulari (ne possiede diverse migliaia) ed è molto luminosa. E' stata identificata con la forte sorgente radio Virgo A, inoltre emette intensamente nella banda X. Si tratta di una galassia attiva, probabilmente con un buco nero al centro. Il disco di gas caldo nel centro della galassia attiva M87. Il disco, che ha la forma di una spirale, ruota così rapidamente da far pensare alla presenza di un buco nero molto massiccio nel nucleo della galassia (la sua massa è stata stimata intorno a 3 miliardi di volte quella del Sole). Infatti le stelle che la galassia contiene non sono sufficienti a creare il campo gravitazionale necessario a far ruotare il gas così rapidamente. M87 è una galassia ellittica gigante visibile nella costellazione della Vergine.
Ma come si origina tutta questa energia ? Strumenti di osservazione sempre più potenti, come i radiointerferometri, hanno permesso in questi anni di studiare sempre più in dettaglio i nuclei galattici attivi, ma ancora non si hanno certezze sulla loro natura fisica. Nel corso degli anni sono state proposte diverse teorie (una forte emissione stellare, l'esplosione di un gran numero di supernovae, eccetera...) per spiegarne l'emissione, ma esse sono state via via scartate sulla base di evidenze osservative. L'ipotesi che si sta affermando con maggiore forza e' che il motore centrale dei nuclei attivi sia un buco nero estremamente massiccio, con una massa da 10 milioni a 1 miliardo di volte quella del nostro Sole, concentrata in uno spazio molto piccolo (il raggio di un buco nero è pari a circa 3 Km per ogni massa solare). Secondo questo modello, la materia circostante (stelle, gas, polvere) presente nel nucleo della galassia forma intorno al buco nero uno spesso disco, a forma di ciambella; essa alimenta il buco nero cadendovi sopra ed emettendo intensamente radiazione. Essa viene quindi inghiottita dal "mostro" centrale, un fenomeno che prende il nome di accrescimento, e convertita in energia elettromagnetica con un'efficienza molto alta. L'accrescimento di circa 2*1030 Kg di materia all'anno (pari alla massa del Sole) basterebbe a spiegare l'energia emessa da una di queste galassie. Se il buco nero ruota intorno al proprio asse, questo motore centrale è in grado di accelerare il gas circostante e di espellerlo dal nucleo sotto forma di getti, collimati con l'asse di rotazione del buco nero. Si spiegherebbero così, per esempio, i radiolobi delle radiogalassie. I getti sono un fenomeno molto comune nei nuclei galattici attivi.Una volta accettata l'idea del buco nero centrale, si è fatta strada anche l'ipotesi che lo stesso meccanismo possa dar luogo alla grande varietà' di aspetti che caratterizzano la famiglia delle galassie attive. Secondo il cosiddetto modello unificato, il fatto che il nucleo attivo ci appaia come un quasar piuttosto che come una radiogalassia o una Seyfert, dipende da alcuni fattori, come la massa del buco nero, la morfologia della galassia che lo ospita e l'angolo di inclinazione sotto il quale la osserviamo. Le galassie di Seyfert devono il loro nome all'astronomo tedesco che le scoprì nel 1943. Esse sono galassie a spirale dal nucleo estremamente luminoso; possiedono infatti luminosità cento volte superiori a quella della Galassia, ma proveniente da una regione centrale molto piccola. Le galassie di Seyfert costituiscono all'incirca il 2-3 % del totale delle galassie Esse emettono essenzialmente nell'infrarosso, e il loro spettro presenta delle forti righe di emissione; questo fatto rivela la presenza di gas caldo ionizzato nel loro nucleo. Inoltre l'emissione è anisotropa, cioè ha un'intensità diversa nelle varie direzioni, probabilmente per la presenza di una specie di "ciambella" di polvere che circonda il motore centrale. Un altro tipo di galassie attive sono le Lacertidi (dal nome della prima galassia del genere che fu osservata, BL Lacerti, nella costellazione della Lucertola). Esse hanno un aspetto compatto, di tipo stellare, ma attorno al nucleo è visibile un debole alone luminoso, che rivela la presenza della galassia. Il loro spettro ottico è piatto, nel senso che la potenza di emissione non dipende dalla frequenza, quindi non può essere emesso da stelle; inoltre è privo di righe o quasi. Esse presentano una notevole variabilità luminosa, di un fattore 100, su tempi di pochi giorni o poche ore. Queste caratteristiche le rendono tra i più enigmatici oggetti dell'universo; la spiegazione più largamente accettata è che si tratti di nuclei attivi osservati esattamente lungo la direzione dei getti. Le radiogalassie sono intense sorgenti nella banda radio e mostrano spesso anche dei getti di materia che si dipartono dal nucleo estendendosi per centinaia di migliaia di anni luce e formando dei lobi radioemittenti. I quasar sono gli oggetti più luminosi e distanti del nostro universo, e costituiscono uno dei campi di ricerca più coinvolgenti della moderna astrofisica. Tra le galassie attive più note, ricordo per esempio Centaurus A e M87. Centaurus A è una radiosorgente molto brillante nella costellazione del Centauro; si tratta di una galassia ellittica molto brillante, attraversata da una banda oscura di gas e polvere, che la taglia in due nel senso della lunghezza. Questa banda ha una forte velocità di rotazione e sembra che sia il residuo di un fenomeno di cannibalismo galattico tra una galassia ellittica e una spirale, cioè della loro fusione per interazione gravitazionale. Centaurus A emette molto intensamente nella banda radio; l'emissione proviene da due giganteschi lobi, che si estendono per due milioni e mezzo di anni luce in direzione perpendicolare alla banda oscura. La galassia emette inoltre raggi X, con intensità doppia di quella nel radio e variabile nel tempo su scale di pochi giorni. Il nucleo emette infine dei getti di plasma collimati e dei raggi gamma.
M87 è una galassia ellittica delle dimensioni di 40.000 anni luce, al centro dell'ammasso di galassie della Vergine; le altre galassie dell'ammasso ruotano attorno ad essa. Dal nucleo di M87 si origina un getto di materia che si estende per 5.000 anni luce nell'ottico, mentre è visibile nella banda radio fino a 8.000 anni luce dal nucleo. La velocità delle stelle nel nucleo della galassia cresce rapidamente verso il centro, cosa che fa pensare alla presenza di un buco nero centrale.
DIGRESSIONE...
09.05.2004 Una ciambella di polvere
Una grande ciambella di polvere. È questo quello che circonda i buchi neri che si nascondono al centro di alcune galassie, secondo quanto conferma una scoperta pubblicata sulla rivista Nature. A scattarne per la prima volta una foto nel dettaglio è stato l'interferometro del Very Large Telescope (VLT), uno strumento che si trova all'interno del Paranal Observatory in Cile. Quella ottenuta è, come confermano i ricercatori di tutto il mondo che hanno presto parte alla ricerca, la prima immagine ad alta risoluzione dei contorni di un buco nero al centro di una galassia attiva, chiamata NGC 1068, a "soli" 50 anni luce dalla Terra. C'è chi aveva previsto la struttura di questa ciambella già dieci anni fa. È GianLuigi Granato, ricercatore all'Osservatorio di Padova e unico firmatario italiano della scoperta. I modelli che a partire dal 1993 sono stati sviluppati insieme a M.Manzelle (ex coordinatore del settore di astrofisica alla Scuola Internazionale di Studi Superiori Avanzati -S.I.S.S.A.- di Trieste) avevano già individuato, utilizzando prove indirette, non solo le dimensioni che avrebbe dovuto avere, ma anche la distribuzione della polvere al suo interno. L'immagine di NGC 1068 è una conferma diretta di quello che viene chiamato 'modello unificato', e risolve un lungo dibattito in corso su dimensioni e proprietà fisiche di queste aree. Diciamo che la ciambella si è dimostrata più grande di quello che per anni ha sostenuto un'altra corrente di pensiero. La zona osservata dal telescopio cileno, che fa parte dell'European Southern Observatory (ESO), copre un'area attorno al buco nero di dimensioni piuttosto ridotte, circa 11 anni luce. Si tratta di una grande ciambella di polvere, all'interno della quale la temperatura cresce man mano che ci si avvicina al buco nero, passando dai 50 ai 500 gradi all'aumentare del campo radiativo che subisce. Questa ciambella permette di spiegare perché si osservano diverse tipologie di nuclei galattici attivi (AGN), ovvero le regioni centrali delle galassia che emettono grandi quantità di energia, probabilmente originata della presenza di un buco nero. Fondamentalmente, tutto dipende dalla posizione della ciambella rispetto al nostro punto di osservazione. Se essa è posta sull'asse di osservazione, e quindi si trova tra noi e il buco nero, non è possibile vedere direttamente molti dei fenomeni che avvengono nella parte più interna della galassia. Nel caso in cui la ciambella non sia sull'asse, è possibile osservare il nucleo. La galassia fotografata appartiene al primo tipo. E' un oggetto relativamente vicino e comodo per l'osservazione. Si deve anche osservare che questi nuclei spesso sprigionano un'energia e una luminosità pari a quella di 100 miliardi di stelle. E quindi se non ci fosse uno strato di polvere che ne oscura in parte la luminosità, sarebbe difficile fare qualsiasi osservazione. Lo strumento utilizzato ha permesso di raggiungere un potere risolutivo molto alto grazie al lavoro di gruppo di più telescopi, e a una tecnica chiamata interferometrica, che sfrutta il fenomeno dell'interferenza, ovvero la combinazione tra loro di sorgenti di luce della stessa lunghezza d'onda. Per ora non siamo ancora in grado di fotografare nel dettaglio la zona più profonda della galassia, quella che nel caso dei nuclei galattici attivi nasconde un buco nero, ma per i nostri studi è quasi più importante osservarne i contorni. Diversi ancora i misteri della grande ciambella: sono ancora da determinare le sue esatte dimensioni, lo spessore e la capacità di assorbire la luce.
FINE DIGRESSIONE
Nuclei Galattici Attivi e Cosmologia
I Nuclei Galattici Attivi, oltre a essere, come ho ribadito, un importante laboratorio per lo studio di processi fisici in condizioni spesso estreme, sono anche fondamentali per comprendere la formazione e l'evoluzione delle galassie. Questi studi richiedono osservazioni coordinate in diverse bande dello spettro elettromagnetico: l'ottico, l'ultravioletto e l'X, dove molta della radiazione viene emessa, nonché l'infrarosso, in quanto parte dell'energia emessa ad energie superiori può venire assorbita dal gas intergalattico e riemessa in questa banda. Nel Dipartimento si svolge una attività di ricerca, nell'ambito di vaste collaborazioni internazionali finanziate dalla Comunità Europea e dall'European Southern Observatory (ESO), il cui scopo è l'identificazione delle deboli sorgenti scoperte dall'Infrared Satellite Observatory (ISO). A tal scopo vengono utilizzati i telescopi ottici di nuova generazione come il Very Large Telescope (VLT), con partecipazione italiana, sulle Ande Cilene. A questi studi si uniscono e complementano le ricerche effettuate tramite la selezione di sorgenti emettitrici nella banda X rivelate da BeppoSAX ed in futuro, sperabilmente, dal satellite XMM dell'European Space Agency (ESA), e dal satellite Chandra-XRO della NASA. Anche in questo caso la scoperta delle sorgenti è e sarà seguita da una sistematica campagna di identificazione spettroscopica presso telescopi ottici americani e dell'ESO.
La radiazione emessa dalle galassie "normali" è, almeno in prima approssimazione, la somma dell'energia emessa dalle stelle che le compongono. Per le galassie attive (o Nuclei Galattici Attivi, AGN), questo non è vero. Gli AGN emettono su tutto lo spettro elettromagnetico, dal radio al gamma, e l'energia osservata risulta di molto superiore alla energia "stellare". Le teorie più accreditate associano gli AGN alla presenza di un buco nero massiccio (106-109 masse solari) al centro della galassia ospite.
(Vedi figura qui sopra). Immagine ottica (a sinistra) e radio (a destra) dell'AGN NGC4261 situato al centro di una galassia ellittica. Il gas e le polveri visibili in forma di disco nell'immagine ottica (diametro di circa 400 anni luce) hanno nel centro l'ipotizzato buco nero massiccio. Il disco di polveri è probabilmente ciò che rimane dell'incontro con una galassia avvenuto centinaia di milioni di anni fa. Le due emissioni in direzioni opposte visibili nell'immagine radio sono i cosiddetti "radio-lobes" riconducibili all'emissione di getti di particelle cariche da parte del nucleo centrale.
Esistono diverse classi di AGN. Quasar, Blazars, Galassie di Seyfert, etc... Secondo i modelli maggiormente accreditati dalla comunità scientifica, le diverse caratteristiche mostrate dai vari tipi di AGN derivano dalla differente linea di vista rispetto alla nube (mostrata in figura in forma toroidale semplificata) che circonda il nucleo dell'AGN.
Type 2 objects - Seyfert 2s, Narrow Line Radio Galaxies and Type 2 Quasars: When we are looking at the system edge-on (ie. along the plane of the disc), the central regions, including the black hole, accretion disc and broad line region, are obscured. All that we can see directly from the nucleus, are the molecular torus (which radiates predominantly in the infra-red) and the emission lines from the narrow line region. Thus when we look at the optical spectra, only narrow lines are seen; there is no broad line emission. Light from the nucleus can be reflected towards us by hot gas which lies above and below the torus, and which acts as a kind of mirror. Observations like this have demonstrated that 'type 1' nuclei are hidden in 'type 2' objects, at least in some cases.
Type 1 objects - Seyfert 1s, Broad Line Radio Galaxies and (Type 1) Quasars: As the nucleus 'tips' over towards us, we are able to see directly into the central regions. Now we can see both broad and narrow lines in the optical spectrum, and the direct emission from the accretion disc.
Blazars - BL Lac Objects and Optically-Violent Variables: These are a special case of unobscured (type 1) objects where we are looking face-on at the nucleus and directly into the jet. Matter in the jet is moving at velocities close to the speed of light, so that the radiation it emits is beamed and can vary wildly in very short periods of time (hours to days). Although both broad and narrow lines are visible, the emission from the jet can be so strong that it completely swamps any spectral lines: these are the BL Lac objects. Optically-violent variables are similar to BL Lacs, but emission lines are sometimes observed in their spectra. This is a description of the basic idea behind the Unified Model. It has been proposed that there are two parallel sequences, one for radio-loud AGN where the radio jets are very strong and extend into the surrounding galaxy, and another for the radio-quiet AGN (where the radio emission is relatively weak). The pictures above illustrate the radio-quiet case, principally because these dominate the AGN population by a ratio of about 10 to 1, and because at present, they are the objects on which we do the most research here at MSSL.
Le Quasars sono gli AGN che si trovano agli estremi più remoti dell'universo. I Blazars sono molto brillanti nella banda radio, e pertanto si suppone che la nostra linea di vista coincida con quella del jet. Le Galassie di Seyfert sono invece viste ad angolazioni intermedie, che ne determinano pertanto l'oscuramento basso (Seyfert 1) o elevato (Seyfert 2) da parte di gas e di polveri circumnucleare. Le Galassie di Seyfert emettono nella banda X e gamma fino ad energie di qualche centinaio di keV. L'osservazione delle galassie di Seyfert nella banda gamma possiede importanza anche per lo studio della radiazione di fondo cosmico diffuso. Questo fenomeno è probabilmente dovuto a sorgenti puntiformi che il potere risolutivo dei telescopi non riesce a distinguere l'una dall'altra, oppure a fenomeni sconosciuti di origine intrinsecamente diffusa. Lo studio statistico ad alte energie di campioni completi di Galassie di Seyfert permetterà quindi di conoscere meglio questi oggetti, ed anche la natura dell'Universo su larga scala.
La prova dell’esistenza di buchi neri. Metodi differenti ma identica conclusione per gli osservatori orbitanti Hubble e Chandra. I due osservatori spaziali della NASA, l’Hubble Space Telescope (HST) e il Chandra X-ray Observatory, hanno fornito, indipendentemente l'uno dall'altro, la prova dell'esistenza di un orizzonte degli eventi, una caratteristica dei buchi neri che rappresenta uno dei concetti più bizzarri della fisica teorica. Si tratta infatti di un confine che circonda un buco nero – e solo un buco nero – da cui nulla può sfuggire, neppure la luce. La prova dell'esistenza di un orizzonte degli eventi rappresenta l'evidenza della presenza di un buco nero. In realtà l'orizzonte degli eventi non si può "vedere". Un buco nero succhia gas da una stella compagna formando una spirale che si avvolge intorno a esso. Quando il gas si avvicina all'orizzonte degli eventi, un forte red shift gravitazionale rende la radiazione emessa dal gas più rossa e più debole. Attraversato l'orizzonte degli eventi, sparisce dalla vista, e la regione centrale del gas appare infatti oscura. Usando i dati di Chandra e di altri satelliti a raggi-X, un gruppo di ricercatori di Chandra ha studiato una dozzina di sistemi di "novae a raggi X" che contengono stelle simili al Sole che orbitano intorno a un buco nero o a una stella di neutroni. Confrontando l'emissione di energia di differenti tipi di novae, il gruppo di astronomi di Chandra ha stimato che i sistemi sospetti di ospitare buchi neri hanno emesso solo l'uno per cento dell’energia emessa da un sistema con una stella di neutroni. È un pò strano dire che è stato scoperto qualcosa non avendo visto praticamente nulla, ma è proprio ciò che è stato fatto. Gli scienziati di Hubble hanno invece adottato una tecnica diversa. Joseph Dolan, del Goddard Space Flight Center della NASA, ha osservato impulsi di luce ultravioletta proveniente da un gas incandescente. Tale radiazione si affievolisce e sparisce quando spiraleggia intorno a un oggetto compatto molto massiccio chiamato Cygnus XR-1. Misurando le fluttuazioni nella luce ultravioletta del gas intrappolato in orbita e intorno al buco nero, Hubble ha trovato due esempi di "treni di impulsi morenti", ovvero lampi con una precisa sequenza che decade rapidamente. Ciò, secondo noi astrofisici, indica la presenza di un orizzonte degli eventi.
Learn the components of the Chandra spacecraft. (requires flash)
15.01.2001 Dimostrata l'esistenza dei buchi neri
I buchi neri rappresentano una frontiera misteriosa e inesplorata dove lo spazio e il tempo si comportano in modo bizzarro. La presenza dei buchi neri, da cui neppure la luce riesce a sfuggire, è stata dimostrata dall'orizzonte degli eventi, una caratteristica dei buchi neri che rappresenta uno dei concetti più insoliti della fisica teorica. A questa conclusione sono giunti, con metodi differenti, l'Hubble Space Telescope e il Chandra X-ray Observatory, i due osservatori spaziali della NASA. Solo ora cominciamo a capire i modi con cui questi oggetti, di massa enorme eppure invisibili, si manifestano e in quale relazione stanno con altre strutture cosmiche come i quasar e i getti di materia che si dispiegano per milioni di anni luce. Un buco nero riesce ad attirare a sé gas da una stella compagna e la radiazione emessa dal gas, quando è nelle vicinanze dell'orizzonte degli eventi, si fa più rossa e molto debole fino a sparire. Utilizzando i dati di Chandra e di altri satelliti a raggi-X, l'équipe di ricercatori di Chandra ha svolto uno studio su circa dodici sistemi di "novae a raggi X" che contengono stelle simili al Sole che orbitano intorno a un buco nero o a una stella di neutroni. Confrontando l'emissione di energia di differenti tipi di novae, i sistemi sospetti di ospitare buchi neri hanno emesso solo l'uno per cento dell'energia diffusa da un sistema con una stella di neutroni. È un pò strano dire che è stato scoperto qualcosa non avendo visto praticamente nulla, ma è proprio ciò che è stato fatto. Un metodo diverso è stato utilizzato dagli scienziati di Hubble, in particolare Joseph Dolan, del Goddard Space Flight Center della NASA, ha osservato impulsi di luce ultravioletta proveniente da un gas incandescente. Tale radiazione si attenua e sparisce quando si presenta come una spirale intorno a un oggetto compatto molto massiccio chiamato Cygnus XR-1.
Misurando le fluttuazioni nella luce ultravioletta del gas intrappolato in orbita e intorno al buco nero, Dolan ha trovato due esempi di "lampi" con una precisa sequenza che decadono rapidamente. Ciò confermerebbe la presenza di un orizzonte degli eventi. La ricerca sui buchi neri e sulle fenomenologie ad essi correlate, così come gli sforzi per comprendere in che modo la gravità operi al loro interno, potrebbero alla fine confermare o smentire le attuali teorie che descrivono le origini e il destino finale del nostro Universo.
10.09.2003 Il canto dei Buchi Neri
I buchi neri, al pari di alcuni tra i peggiori mostri della mitologia classica, "cantano": non si tratta tuttavia delle ingannevoli melodie di Sirene tentatrici, ma di vere e proprie onde sonore, individuate dall'Osservatorio Spaziale a raggi X della NASA CHANDRA. L'immensa quantità di energia, che sarebbe coinvolta nel processo di generazione delle onde sonore, potrebbe inoltre chiarire uno dei problemi più annosi dell’astrofisica. CHANDRA ha rilevato l’emissione sonora nel bel mezzo dell’Ammasso di Galassie di Perseo, a 250 milioni di anni luce dalla Terra. Nel 2002 eravamo riusciti a individuare un enorme bozzolo di gas che avvolge lAmmasso, solcato da strane increspature, e con al centro un candidato buco nero supermassivo. Il black hole appare inoltre circondato da due misteriose cavità, forse immense bolle scavate nei gas circostanti dai jet simmetrici prodotti dalla rotazione del buco nero. Le increspature sembrano emanare proprio da queste cavità, e si sono rivelate in realtà onde sonore, estese per migliaia di anni luce intorno alla regione centrale, sede del buco nero: in pratica, la "voce" del mostro. In termini musicali, la "nota" emessa dal buco nero è rappresentabile come un si bemolle, ma risulterebbe del tutto inaccessibile ad alcun orecchio umano: è infatti… 57 ottave più bassa del do3 ! Per confronto, un pianoforte è in grado di emettere soltanto circa sette ottave. Il buco nero quindi "canta" a una frequenza un milione di volte più profonda del limite accessibile all’udito umano: il suono più grave mai registrato da un oggetto celeste. Non si tratta però di un semplice dato acustico: la comprensione del processo di formazione e di propagazione delle onde sonore potrebbe fornire la chiave per delineare il processo di formazione e accrescimento degli ammassi di galassie, le più imponenti strutture a larga scala conosciute dell'Universo. Da anni cerchiamo di capire perché negli ammassi ci sia così tanto gas incandescente e così poco gas freddo: la stessa intensa emissione X del gas caldo in uscita dal centro dovrebbe causare un raffreddamento, con conseguente controflusso di gas freddi verso il centro degli ammassi, innescando un gigantesco processo di scontro tra masse di gas a densità diversa, con immensi processi di generazione stellare. Ma niente di tutto ciò è mai stato osservato: il gas dunque rimane caldo, a dispetto delle aspettative di noi astronomi. Deve essere evidentemente presente un altro processo di riscaldamento dei gas. Nel caso dell'Ammasso di Perseo, probabilmente i jet di plasma espulsi dai "poli" del buco nero rotante riscaldano le cavità, e i gas circostanti, proprio per mezzo delle onde sonore generate dal medesimo processo di espulsione.
(Vedi figura qui sopra)-Spesso considerati gli oggetti deepsky più semplici da osservare con strumentazione modesta, gli ammassi aperti sono grappoli di stelle che oltre ad avere un'origine comune hanno anche un reciproco legame gravitazionale; sono cioè stabili, a differenza delle cosiddette associazioni che invece tendono a disgregarsi nel corso del tempo. Una delle più famose di queste ultime è quella denominata Perseus III, perché fa capo appunto ad Alfa Persei.
20.02.2001 Galassie e buchi neri
In uno studio appena terminato (ricordare che sto parlando del 2001), l'astronomo Douglas Richstone dell'Università del Michigan ha scoperto che la maggior parte delle galassie a spirale sembra contenere buchi neri estremamente massicci nel nucleo. Richstone ha studiato 30 galassie a spirale con lo Hubble Space Telescope (HST), scoprendo che solo una di esse sembra essere priva del buco nero centrale. Per scoprire che cosa si trova al centro delle galassie, Richstone ha studiato il movimento delle stelle che vi ruotano attorno a distanza ravvicinata. La distribuzione di queste velocità dipende infatti dalla distribuzione di massa nel nucleo della galassia. Nella maggior parte dei casi, solo un buco nero può essere abbastanza denso da spiegare il movimento delle stelle. Questi buchi neri svolgono ancora un ruolo importante nel determinare l'evoluzione delle galassie, ma sicuramente erano molto più importanti nel passato. Nelle galassie in formazione, o protogalassie, infatti, la radiazione e le particelle emesse durante la formazione e la crescita del buco nero erano la forma dominante di calore ed energia cinetica necessari per la formazione di stelle. Allo stesso tempo, però, i buchi neri competono con le stelle in formazione per accaparrarsi la materia. Secondo noi astrofisici, i buchi neri che ora si osservano in queste galassie non sono altro che i resti di quelli che una volta erano quasar. Anche se i buchi neri contengono solo il due per cento della massa delle galassie che li ospitano in media, la loro maggiore efficienza energetica fa sì che essi siano responsabili del 10 per cento dell'emissione luminosa. Nelle protogalassie, con ancora poche stelle, l'emissione dei buchi doveva quindi essere dominante, facendole apparire come quasar.
09.09.2001 Il buco nero della Via Lattea
La rapidità dell'evento sembra confermare che l'emissione del buco nero trae la sua energia dalla materia che vi cade. Per la prima volta, l'osservatorio orbitale Chandra ha osservato un rapido impulso di raggi X proveniente dalle regioni centrali della nostra galassia, dove si pensa (oggi si è certi !) sia nascosto un gigantesco buco nero. Gli astrofisici hanno scoperto già da tempo che la maggior parte delle galassie, se non tutte, contengono uno di questi misteriosi oggetti, ma osservarlo nella Via Lattea è decisamente più difficile. L'impulso di raggi X è stato probabilmente generato dal buco nero quando ha catturato e inghiottito un oggetto nelle sue vicinanze, e trasporta importanti indizi sui processi che avvengono nel centro della galassia. L'impulso è stato osservato da un gruppo di astrofisici del Massachusetts Institute of Technology (MIT) mentre studiavano la sorgente Sagittarius A, che si ritiene coincidere con il centro della galassia. Durante l'evento, nei raggi X la sorgente è diventata 45 volte più brillante nel giro di pochi minuti, prima di ritornare ai livelli normali dopo poche ore. Al massimo dell'impulso, comunque, il flusso di raggi X è diminuito di un fattore cinque in soli dieci minuti. Questa osservazionedi per sé è sufficiente a dimostrare che la regione emettitrice non può avere dimensioni maggiori di 20 volte l'orizzonte degli eventi del buco nero. La rapidità dell'evento sembra confermare anche che l'emissione del buco nero trae la sua energia dalla materia che vi cade e ha probabilmente un disco di accrescimento, come i suoi simili più piccoli che popolano la galassia. Alcuni scienziati hanno però proposto alternative all'idea secondo cui il lampo sarebbe stato generato da materiale che è caduto nel buco nero. Una possibile ipotesi è che si sia trattato di una riconnessione delle linee di forza del campo magnetico, fenomeno che avviene anche nel nostro Sole. La presenza di un buco nero al centro della Via Lattea è stata confermata anche da osservazioni nelle onde radio e nei raggi infrarossi, che indicano la presenza di un grande oggetto centrale. Anche la dinamica del moto delle stelle più vicine al centro suggerisce la presenza di un oggetto molto denso, con una massa pari a circa tre milioni di volte quella del nostro Sole.
Le tracce del buco nero nella Via Lattea
Tutte le galassie, Via Lattea compresa, hanno un rigonfiamento centrale che si pensa contenga al suo interno dei buchi neri. Infatti, anche nel centro esatto della nostra galassia si trova una massa molto scura del peso di almeno 2,6 milioni di masse solari, che rivela la sua presenza per via degli effetti gravitazionali sulle stelle circostanti. La spiegazione più ovvia è che si tratti di un buco nero supermassivo. Non si tratta però dell'unica spiegazione possibile, alcuni astronomi hanno considerato cos'altro ci sia che possa spiegare il fenomeno osservato. Potrebbe trattarsi di una densa nube di stelle scure o forse di un ammasso di neutrini o di qualche altro tipo più esotico di materia oscura. Un dilemma che ha portato a queste speculazioni teoriche è la curiosa oscurità e silenziosità dell'oggetto rispetto al fragore delle forti emissioni di energia che solitamente circondano il buco nero centrale di molte galassie. La posizione dell'oggetto è segnata solamente dalla debole sorgente radio Sagittarius A* ("stella-A") e dalla flebile luminosità X scoperta nel 1999 dal Chandra X-Ray Observatory.
Se si trattasse di un buco nero, consumerebbe una quantità di energia sorprendentemente bassa considerando l'abbondanza di materia che si trova nel centro galattico, o forse ingoierebbe materia in maniera così efficiente che difficilmente un rigurgito di energia potrebbe evitare di scomparire nel buco nero. Ora, tutte queste teorie alternative "possono essere gettate dalla finestra". Si tratta di un buco nero a tutti gli effetti. La prova è stato scoperta in una nuova osservazione eseguita dal Chandra. Il satellite supersensibile rilevato che i raggi X provenienti da Sagittarius A variano drasticamente in soli 10 minuti. In un tempo così breve, la luce (e la radiazione X) difficilmente coprono una distanza superiore a 150 milioni di chilometri, la stessa che separa la Terra dal Sole (1 unità astronomica). Quindi la sorgente non può essere molto più grande di questa distanza. Secondo la relatività generale, niente che sia inferiore a 2,6 milioni di masse solari può collassare rapidamente in un buco nero.
DIGRESSIONE...
Milky Way past was more
turbulent than known
EUROPEAN SOUTHERN OBSERVATORY NEWS RELEASE
Posted: April 6, 2004
A team of astronomers from Denmark, Switzerland and Sweden has achieved a major breakthrough in our understanding of the Milky Way, the galaxy in which we live. After more than 1,000 nights of observations spread over 15 years, they have determined the spatial motions of more than 14,000 solar-like stars residing in the neighbourhood of the Sun.
An artist's concept provides a view of the observed group of stars orbiting the Milky Way together with the Sun, as seen by an imaginary observer outside the Galaxy. The orbit of the Sun is shown. For clarity, the stars surrounding the local volume have been removed here. Credit: ESO
For the first time, the changing dynamics of the Milky Way since its birth can now be studied in detail and with a stellar sample sufficiently large to allow a sound analysis. The astronomers find that our home galaxy has led a much more turbulent and chaotic life than previously assumed.
Unknown history
Home is the place we know best. But not so in the Milky Way - the galaxy in which we live. Our knowledge of our nearest stellar neighbours has long been seriously incomplete and - worse - skewed by prejudice concerning their behaviour. Stars were generally selected for observation because they were thought to be "interesting" in some sense, not because they were typical. This has resulted in a biased view of the evolution of our Galaxy. The Milky Way started out just after the Big Bang as one or more diffuse blobs of gas of almost pure hydrogen and helium. With time, it assembled into the flattened spiral galaxy which we inhabit today. Meanwhile, generation after generation of stars were formed, including our Sun some 4,700 million years ago. But how did all this really happen ? Was it a rapid process ? Was it violent or calm ? When were all the heavier elements formed ? How did the Milky Way change its composition and shape with time ? Answers to these and many other questions are 'hot' topics for the astronomers who study the birth and evolution of the Milky Way and other galaxies. Now the rich results of a 15 year-long marathon survey by a Danish-Swiss-Swedish research team are providing some of the answers.
1,001 nights at the telescopes
The team spent more than 1,000 observing nights over 15 years at the Danish 1.5-m telescope of the European Southern Observatory (ESO) at La Silla (Chile) and at the Swiss 1-m telescope of the Observatoire de Haute-Provence (France). Additional observations were made at the Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics in the USA. A total of more than 14,000 solar-like stars (so-called F- and G-type stars) were observed at an average of four times each - a total of no less than 63,000 individual spectroscopic observations!
This image shows the distribution on the sky of the approx. 14,000 observed stars. The region on the left that is denser than its surroundings is the nearby Hyades star cluster. Credit: ESO
This now complete census of neighbourhood stars provides distances, ages, chemical analysis, space velocities and orbits in the general rotation of the Milky Way. It also identifies those stars (about 1/3 of them all) which the astronomers found to be double or multiple. This very complete data set for the stars in the solar neighbourhood will provide food for thought by astronomers for years to come.
A dream come true
These observations provide the long-sought missing pieces of the puzzle to get a clear overview of the solar neighbourhood. They effectively mark the conclusion of a project started more than twenty years ago.In fact, this work marks the fulfilment of an old dream by Danish astronomer Bengt Strömgren (1908-1987), who pioneered the study of the history of the Milky Way through systematic studies of its stars. Already in the 1950's he designed a special system of colour measurements to determine the chemical composition and ages of many stars very efficiently. And the Danish 50-cm and 1.5-m telescopes at the ESO La Silla Observatory (Chile) were constructed to make such projects possible. Another Danish astronomer, Erik Heyn Olsen made the first step in the 1980's by measuring the flux (light intensity) in several wavebands (in the "Strömgren photometric system") of 30,000 A, F and G stars over the whole sky to a fixed brightness limit. Next, ESA's Hipparcos satellite determined precise distances and velocities in the plane of the sky for these and many other stars. The missing link was the motions along the line of sight (the so-called radial velocities). They were then measured by the present team from the Doppler shift of spectral lines of the stars (the same technique that is used to detect planets around other stars), using the specialized CORAVEL instrument.
Stellar orbits in the Milky Way
With the velocity information completed, the astronomers can now compute how the stars have wandered around in the Galaxy in the past, and where they will go in the future. For the first time we have a complete set of observed stars that is a fair representation of the stellar population in the Milky Way disc in general. It is large enough for a proper statistical analysis and also has complete velocity and binary star information. We have just started the analysis of this dataset ourselves, but we know that our colleagues worldwide will rush to join in the interpretation of this treasure trove of information. The team's initial analysis indicates that objects like molecular clouds, spiral arms, black holes, or maybe a central bar in the Galaxy, have stirred up the motion of the stars throughout the entire history of the Milky Way disc. This in turn reveals that the evolution of the Milky Way was far more complex and chaotic than traditional, simplified models have long so far assumed. Supernova explosions, galaxy collisions, and infall of huge gas clouds have made the Milky Way a very lively place indeed!
FINE DIGRESSIONE
High
energy mystery lurks at the galactic centre
PARTICLE PHYSICS AND ASTRONOMY RESEARCH COUNCIL
Posted: September 22, 2004
A mystery lurking at the centre of our own Milky Way galaxy - an object radiating high-energy gamma rays - has been detected by a team of UK astronomers working with international partners. Their research, published today (September 22nd) in the Journal Astronomy and Astrophysics, was carried out using the High Energy Stereoscopic System (H.E.S.S.), an array of four telescopes, in Namibia, South-West Africa. The Galactic Centre harbours a number of potential gamma-ray sources, including a supermassive black hole, remnants of supernova explosions and possibly an accumulation of exotic 'dark matter' particles, each of which should emit the radiation slightly differently. The radiation observed by the H.E.S.S. team comes from a region very near Sagittarius A*, the black hole at the centre of the galaxy. According to most theories of dark matter, it is too energetic to have been created by the annihilation of dark matter particles. The observed energy spectrum best fits theories of the source being a giant supernova explosion, which should produce a constant stream of radiation. We know that a giant supernova exploded in this region 10,000 years ago. Such an explosion could accelerate cosmic gamma rays to the high energies we have seen - a billion times more energy than the radiation used for X-rays in hospitals. But further observations will be needed to determine the exact source. Science continues to throw out the unexpected as we push back the frontiers of knowledge. The centre of our Galaxy is a mysterious place, home to exotic phenomena such as a black hole and dark matter. Finding out which of these sources produced the gamma-rays will tell us a lot about the processes taking place in the very heart of the Milky Way. However, the team's theory doesn't fit with earlier results obtained by the Japanese/Australian CANGAROO instrument or the US Whipple instrument. Both of these have detected high-energy gamma rays from the Galactic Centre in the past (observations from 1995-2002), though not with the same precision as H.E.S.S, and they were unable to pinpoint the exact location as H.E.S.S. has now done, making it harder to deduce the source. These previous results have different characteristics to the H.E.S.S. observations. It is possible that the gamma-ray source at the Galactic Centre varies over the timescale of a year, suggesting that the source is in fact a variable object, such as the central black hole. The H.E.S.S. team hopes to unravel the mystery with further observations of the Galactic Centre over the next year or two. The full array of four telescopes will be inaugurated on September 29th 2004.
The H.E.S.S. collaboration
The High Energy Stereoscopic System (H.E.S.S.) team consists of scientists from Germany, France, the UK, the Czech Republic, Ireland, Armenia, South Africa and Namibia.
The H.E.S.S. array
Over the last few years, the H.E.S.S. collaboration have been building a system of four telescopes in the Khomas Highland region of Namibia, to study very-high-energy gamma rays from cosmic particle accelerators. The telescopes, known as Cherenkov telescopes, image the light created when high-energy cosmic gamma rays are absorbed in the atmosphere, and have opened a new energy domain for astronomy. The H.E.S.S. telescopes each feature mirrors of area 107 square metres, and are equipped with highly sensitive and very fast 960-pixel light detectors in the focal planes. Construction of the telescope system started in 2001; the fourth telescope was commissioned in December 2003. Observations were being made even while the system was being built, first using a single telescope, then with two and three telescopes. While only the complete four-telescope system provides the full performance, the first H.E.S.S. telescope alone was already superior to any of the instruments operated previously in the southern hemisphere. Among the first targets to be observed with a two-telescope instrument was the Galactic Centre. [see: HESS - An Array of Gamma Ray Telescope in Namibia.]
30.03.2003 Bevy of Black Holes Spotted in Andromeda
The Andromeda galaxy and, at right, a close-up of the central region revealing 10 new black hole candidates. Credit: Robin Barnard
Using a new technique astronomers have found 10 apparent black holes near the center of the Andromeda galaxy, the nearest large spiral galaxy to our own. The search method might be employed to uncover more black holes in our Milky Way and in other, more distant galaxies. Andromeda is 2.5 million light-years away. The newfound black hole candidates -- there's a chance they might be neutron stars instead -- are of the stellar variety, meaning they are several times the mass of the Sun and are the collapsed remains of dead stars. Each has a companion object, an orbiting normal star that feeds material to the black hole. The setups are known as low mass x-ray binary (LMXB) systems. Incoming gas, gravitationally siphoned off the normal star, is heated to millions of degrees, giving off the X-rays that make the otherwise invisible black holes or neutron stars detectable. Most known stellar black holes in such binary setups, including a handful found in the Milky Way, vary tremendously in their X-ray output. During brief outbursts, they can be 10 million times brighter than during the years in between. And while it is these outbursts that allow them to be detected, they cannot be classified as black holes until the mass of the companion star is measured, and this can only be done between outbursts. Several hundred of the pairings have been found in Andromeda, but only about 20 have been classified as black holes. Another 30 are known in the Milky Way. Most of the 10 new candidates in Andromeda behave differently, apparently shining with almost constant brightness rather than turning off and on. Eight of our ten black hole candidates are present in all our observations, as well as observations by other X-ray telescopes at different times. As such they are likely to be always bright. The more consistent output is related to a more stable flow of matter between the donor star and the black hole. With this method, you can only spot black holes in bright systems. However, this method is the only one that does not need to measure the companion star, and hence is the only one that can be used to identify black hole in other galaxies with the current technology. Barnard's team -study leader Robin Barnard of the Open University- used the European Space Agency's XMM-Newton orbiting X-ray observatory. The results were to be presented today at a meeting of the Royal Astronomical Society. Supermassive black holes, weighing as much as millions or billions of suns, exist at the centers of many galaxies. Stellar black holes are typically no more than a dozen solar masses. One trick in finding stellar black holes is to sort them out from neutron stars, which are also very dense and which anchor many low-mass X-ray binary systems, presenting an almost identical signature of emissions. But neutron stars are, conveniently, less massive than black holes. Barnard's complex method looks at characteristic variations in different frequencies of the X-rays that are only seen when the LMBX is at less than 10 percent of full power. It's a bit like having the bass and midrange turned up to maximum on a graphic equalizer, but with very little treble. The maximum power depends on the mass of the neutron star or black hole, and a black hole system can be much brighter and still perform the variations. So, if we see the variability in an LMXB that is too bright to be a neutron star, we identify it as a black hole. [Vedi anche... EXOSAT]
29.07.2003 Scoperta emissione MASER da VAPORE ACQUEO in una potente RADIO GALASSIA
Andrea Tarchi dell'Istituto di RadioAstronomia del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IRA-CNR) e dell'Osservatorio Astronomico di Cagliari dell'INAF, Massimo Manzelle dell'IRA-CNR, Christian Henkel e Karl Menten, entrambi del Max-Planck-Institut für Radioastronomie di Bonn (MPIfR), hanno rilevato per la prima volta emissione MASER da vapore acqueo nelle regioni circostanti un Buco Nero super-massivo in una radio galassia "classica".
Una goccia d'acqua in una radio galassia. Un fenomeno straordinario, osservato per la prima volta da un gruppo di ricercatori italiani, del CNR e dell'INAF, e tedeschi, del Max Planck Institut für Radioastronomie di Bonn (MPIfR) grazie all'effetto MASER, acronimo di "Microwave Amplification by Stimulated Emission of Radiation" (l'equivalente a frequenze radio dell'effetto LASER). Abbiamo localizzato un'intensissima emissione MASER (un "megaMASER") da vapore acqueo nella radio galassia 3C403 utilizzando il più grande radiotelescopio europeo, il 100-m del MPIfR situato ad Effelsberg nei pressi di Bonn. Questo megaMASER è il piú distante mai osservato, essendo la radio galassia ospite lontana 750 milioni di anni luce dal nostro sistema solare. I megaMASER si originano principalmente attorno ai Buchi Neri super-massivi (con masse che raggiungono anche il miliardo di masse solari), presenti al centro delle galassie cosidette attive, e probabilmente anche nella maggioranza delle galassie normali come la Via Lattea. La comprensione di questi veri e propri "mostri" è una delle problematiche astrofisiche più attuali ed affascinanti. La materia, costituita da gas atomico e molecolare viene infatti inghiottita dai Buchi Neri, dopo aver spiraleggiato sempre più velocemente verso il centro formando un disco detto di accrescimento. Sfortunatamente i meccanismi che originano l'espulsione di parte di questa materia fortemente accelerata e la creazione dei getti relativistici non sono affatto chiari ed è attraverso lo studio dei Buchi Neri al centro delle galassie attive radio-emittenti che è possibile saperne di più. Uno dei metodi di indagine migliori, e in certi casi l’unico possibile, è proprio l’utilizzo delle emissioni MASER. L'emissione MASER individuata da noi ricercatori italiani e dai colleghi tedeschi è costituita da due righe a velocità pressoché speculari rispetto alla velocità sistemica della galassia ospite.
Tale caratteristica rafforza la convinzione che l'emissione sia prodotta da gas denso in orbita ad alta velocità attorno al Buco Nero situato al centro della galassia. Per confermare con certezza assoluta tale risultato, e calcolare la massa del Buco Nero al centro della galassia, saranno tuttavia necessari esperimenti ad alta risoluzione spaziale (esperimenti di interferometria a lunghissima base; VLBI).
Infrared flares seen from black hole at galactic center
EUROPEAN SOUTHERN OBSERVATORY
NEWS RELEASE
Posted: October 29, 2003
An international team of astronomers led by researchers at the Max-Planck Institute for Extraterrestrial Physics (MPE) in Garching (Germany) has discovered powerful infrared flares from the supermassive black hole at the heart of the Milky Way. The signals, rapidly flickering on a scale of minutes, must come from hot gas falling into the black hole, just before it disappears below the "event horizon" of the monster. The new observations strongly suggest that the Galactic Centre black hole rotates rapidly. Never before have scientists been able to study phenomena in the immediate neighbourhood of a black hole in such a detail. The new result is based on observations obtained with the NACO Adaptive Optics instrument on the 8.2-m VLT KUEYEN telescope and is published in this week's edition of the research journal Nature.
Flashes of light from disappearing matter
The scene was the usual one in the VLT Control Room at the Paranal Observatory in the early morning of May 9, 2003. Groups of astronomers from different nations were sitting in front of the computer screens, pointing the four giant telescopes in different directions and recording the sparse photons from the remotest corners of the Universe. There were the usual brief exchanges of information, numbers, wavelengths, strange acronyms, but then suddenly something happened at the YEPUN desk....
(Vedi figura qui sopra.)-The detection of a powerful flare from the center of the Milky Way galaxy. Credit: ESO
What is that star doing there ? exclaimed Rainer Schodel one of MPE scientists in the team working with the NACO Adaptive Optics instrument that delivers razor-sharp images. He and Reinhard Genzel, leader of the team and MPE Director, were observing the Milky Way Centre, when they saw the "new" object on the screen in front of them. The astronomers were puzzled and then became excited - something unusual must be going on, there at the centre of our galaxy ! And then, a few minutes later, the "star" disappeared from view. Now the scientists had little doubt - they had just witnessed, for the first time, a powerful near-infrared flare from exactly the direction of the supermassive black hole at the heart of the Milky Way. They had been looking for infrared emission from that black hole for more than a decade. Certain that the black hole must be accreting matter from time to time. As this matter falls towards the surface of the black hole, it gets hotter and hotter and starts emitting infrared radiation. But no such infrared radiation had been seen until that night at the VLT. This was the wonderful moment of breakthrough. Never before had anybody witnessed the last "scream" from matter in the deadly grip of a black hole, about to pass the point of no return towards an unknown fate.
At the border
A careful analysis of the new observational data, reported in this week's issue of the Nature magazine, has revealed that the infrared emission originates from within a few thousandths of an arcsecond from the position of the black hole (corresponding to a distance of a few light-hours) and that it varies on time scales of minutes. This proves that the infrared signals must come from just outside the so-called "event horizon" of the black hole, that is the "surface of no return" from which even light cannot escape. The rapid variability seen in all data obtained by the VLT clearly indicates that the region around this horizon must have chaotic properties - very much like those seen in thunderstorms or solar flares. Data give us unprecedented information about what happens just outside the event horizon and let us test the predictions of General Relativity. The most striking result is an apparent 17-minute periodicity in the light curves of two of the detected flares. If this periodicity is caused by the motion of gas orbiting the black hole, the inevitable conclusion is that the black hole must be rotating rapidly. This is a major breakthrough. We know from theory that a black hole can only have mass, spin and electrical charge. Last year we were able to unambiguously prove the existence and determine the mass of the Galactic Centre black hole. If the assumption is correct that the periodicity is the fundamental orbital time of the accreting gas, we now have also measured its spin for the first time. And that turns out to be about half of the maximum spin that General Relativity allows. Now the era of observational black hole physics has truly begun !
DIGRESSIONE...
13.11.2003 La galassia più vicina alla Via Lattea
(astro-ph/0311010 S.I.S.S.A.) Dista soltanto 25.000 anni luce dalla Terra.Un team internazionale di astronomi, comprendente anche ricercatori italiani, ha scoperto quella che può essere considerata la galassia più prossima alla nostra. Si trova così vicina che la Via Lattea la sta gradualmente consumando, risucchiandone le stelle. Ci vorrà però qualche miliardo di anni prima che venga completamente inghiottita. La galassia, precedentemente sconosciuta, si trova a circa 25.000 anni luce dalla Terra e a 42.000 anni luce dal centro della Via Lattea, dietro le stelle della costellazione del Cane Maggiore (Canis Major). È due volte più vicina al centro della nostra galassia di quella che finora deteneva il record, la galassia nana del Sagittario, scoperta nel 1994. Si tratta di una scoperta molto importante, perché sottolinea come la Via Lattea non si trovi a metà della sua vita, ma sia ancora in formazione. La galassia nana del Cane Maggiore era sempre sfuggita all'osservazione perché è nascosta dietro una densa nube di polvere. Tuttavia, gli astronomi l'hanno scoperta usando dati infrarossi provenienti dal recente progetto 2 Micron All Sky Survey. Su scala cosmica, la nuova galassia è un peso piuma, composta soltanto da un miliardo di Soli. La colossale gravità della Via Lattea avrà presto la meglio su di lei. La scoperta sarà descritta in un articolo pubblicato sulla rivista "Monthly Notices of the Royal Astronomical Society".
Un'animazione del processo di distruzione della galassia del Cane Maggiore, ottenuto con una simulazione a N corpi (1.2 Mb).
Un' animazione nella quale si
"naviga''
fino a raggiungere la nuova galassia.
FINE DIGRESSIONE
18.09.2003 Evidence of Spinning Black Holes
Astronomers studying stellar and supermassive black holes may have a barometer to tell whether their targets are spinning like tops or just sitting pretty. Using measurements collected by NASA's Chandra X-ray Observatory and European Space Agency's XMM-Newton Observatory, researchers determined that emissions from iron atoms in gas clouds swirling around a black hole might indicate spin. Stellar black holes are former stars that have collapsed in on themselves, reaching masses of up to 20 times that of the Sun. Supermassive black holes can contain billions of solar masses. According to Chandra researchers, iron atoms produce distinctive X-ray signals as they circle a stellar black hole. These emissions can shift down to lower energy levels as they are affected by intense gravity - the closer the atoms are the black hole, the lower their apparent energy levels. But their orbits depend on the curvature of space around the black hole. Spinning black holes drag space around them as they go, allowing orbiting material to crowd in closer than their non-spinning cousins. For example, the most recent Chandra observations of Cygnus X-1, the first black hole discovered, recorded X-ray signals from iron atoms that did not appear affected by the hole's gravity. They also seemed to emanate from no closer than 100 miles (161 kilometers) to Cygnus X-1. Meanwhile, XMM-Newton data from the black hole XTE J1650-500 show more lower-energy X-rays emitted deep within the object's gravity well, down to 20 miles (32 kilometers) from its event horizon, suggesting it's a spinner. Chandra data from another spinning stellar black hole, called GX 339-4, show gas clouds streaming away from it at speeds of 300,000 miles (482,803 kilometers) an hour. The finding is reminiscent of gas clouds around supermassive black holes, whose spinning has been seen in past studies. Discovering the high degree of correspondence between stellar and supermassive black holes is a real breakthrough. Because stellar black holes are smaller, everything happens about a million times faster, so they can be used as a test-bed for theories of how spinning black holes affect the space and matter around them.
07.11.2003 Brillamenti infrarossi da un BUCO NERO
Le osservazioni suggeriscono che l'oggetto ruota molto rapidamente. Un team internazionale di astronomi dell'European Southern Observatory (ESO), guidato da ricercatori del Max-Planck-Institut di fisica extraterrestre di Garching, in Germania, ha scoperto potenti radiazioni infrarosse provenienti dal buco nero supermassivo al centro della Via Lattea. I segnali, che vanno e vengono rapidamente nel giro di pochi minuti, sarebbero dovuti al gas caldo che precipita nel buco nero, appena prima che scompaia oltre l'"orizzonte degli eventi". I dati osservati suggeriscono che il buco nero al centro della galassia ruota molto rapidamente. Prima d'ora noi ricercatori non eravamo mai stati in grado di studiare così in dettaglio i fenomeni nelle immediate vicinanze di un buco nero. I nuovi risultati sono basati su osservazioni ottenute con lo strumento NACO sul telescopio 8.2-m VLT KUEYEN e sono stati pubblicati sulla rivista "Nature". Questi dati ci forniscono informazioni senza precedenti su quello che avviene appena al di fuori dell'orizzonte degli eventi e ci consentono di verificare le previsioni della Relatività Generale. Il risultato più interessante è un'apparente periodicità di 17 minuti nelle curve di luce di due dei segnali rivelati. Se questa periodicità fosse causata dal movimento del gas che orbita attorno al buco nero, l'inevitabile conclusione è che il buco nero deve ruotare molto rapidamente.
16.12.2003 Una scia di buchi neri
Le nuove osservazioni di Chandra forniscono indizi sull'origine delle galassie ellittiche. Grazie al telescopio a raggi X orbitante Chandra, alcuni astronomi hanno osservato una scia di buchi neri sparsi per lo spazio che sarebbero stati formati da una titanica collisione fra galassie. I buchi neri, individuati nella galassia ellittica NGC 4261, sono tutto quello che rimane del flusso di stelle espulso nello spazio dopo che due galassie a spirale si sono scontrate fra di loro, qualche miliardo di anni fa. NGC 4261 si trova a circa 100 milioni di anni luce di distanza dal nostro sistema solare. L'origine delle galassie ellittiche è da tempo argomento di intenso dibattito fra noi astrfisici. I nuovi dati appoggiano la teoria, supportata anche da simulazioni al computer, secondo la quale le grandi galassie ellittiche vengono prodotte da collisioni fra galassie a spirale. L'evidenza ottica di flussi di stelle strappate via dalla gravità in seguito a questi impatti è stata interpretata come una prova della teoria. Le osservazioni di Chandra, che possono essere fatte soltanto al di fuori dell'atmosfera terrestre, forniscono una prova ulteriore. La scoperta dimostra che le osservazioni a raggi X sono uno dei modi migliori per identificare gli antichi resti delle fusioni fra galassie. Potrebbe essere uno strumento significativo per dimostrare l'origine delle galassie ellittiche.
10.02.2004 Collisioni fra buchi neri
Una nuova teoria spiega l'origine dei buchi neri supermassivi al centro delle galassie. Quando due buchi neri si scontrano e si fondono violentemente in un unico e gigantesco buco nero, viene generata un'enorme quantità di radiazione gravitazionale che potrebbe anche espellere l'oggetto al di fuori della sua galassia. Un nuovo studio, curato dall'astrofisico David Merritt del Rochester Institute of Technology e colleghi di altre istituzioni, descrive le conseguenze di una simile collisione intergalattica e gli effetti delle onde gravitazionali in un articolo pubblicato sulla rivista "Astrophysical Journal". Si ritiene che tutte le galassie possano virtualmente contenere, al proprio centro, un buco nero supermassivo. Secondo le attuali teorie, le galassie crescono fondendosi le une con le altre. Quando questo avviene, i buchi neri centrali formano un sistema binario e ruotano l'uno attorno all'altro, fino a unirsi in un unico buco nero. La coesione viene guidata dall'emissione di radiazione gravitazionale, come prevede la teoria della relatività di Einstein. Merritt e colleghi hanno determinato quale dovrebbe essere la velocità di un buco nero per consentirgli di sfuggire completamente al campo gravitazionale di una galassia. Gli scienziati hanno scoperto che le galassie più grandi e luminose possiedono campi gravitazionali più forti e richiederebbero un impulso maggiore per espellere il buco nero rispetto ai sistemi più piccoli. Allo stesso modo, impatti meno potenti sposterebbero sì il buco nero dal centro della galassia, ma solo per farcelo ritornare poco dopo. Secondo alcune teorie, i buchi neri supermassivi sarebbero risultati dalla fusione di buchi neri più piccoli, nelle prime fasi di vita dell'universo. Ma agli inizi, le galassie erano più piccole, e le spinte prodotte potevano rimuovere più facilmente i buchi neri al loro interno. DUNQUE: è più probabile che i buchi neri supermassivi abbiano ottenuto gran parte della propria massa tramite l'accrescimento del gas e che le fusioni con altri buchi neri siano avvenute soltanto quando le galassie avevano raggiunto all'incirca le dimensioni odierne.
Giant black hole destroys unlucky
star
ESA/NASA NEWS RELEASE
Posted: February 18, 2004
A super-massive black hole has ripped apart a star and consumed a portion of it, according to data from ESA's XMM-Newton and NASA's Chandra X-ray observatories. These results are the best evidence yet that such a phenomenon, long predicted by theory, does actually happen.
This artist impression illustrates
the tremendous gravitational pull of a giant black hole on a passing star. The
doomed object is first stretched by tidal forces until it is torn apart. Most
of the gas making up the star is lost from the system but some of it is trapped
by the black hole and forms a disc of gas around it. In the disc, the gas is
heated to millions of degrees and emits in the X-rays, before disappearing forever,
swallowed by the black hole. It is precisely the signature of this disc that
ESA's XMM-Newton has detected.
Credits: ESA and Stefanie Komossa
(Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics).
Astronomers believe that a doomed star came too close to a giant black hole
after a close encounter with another star threw it off course. As it neared
the enormous gravity of the black hole, the star was stretched by tidal forces
until it was torn apart. This discovery provides crucial information on how
these black holes grow and affect the surrounding stars and gas. Stars can survive
being stretched a small amount, as they are in binary star systems, but this
star was stretched beyond its breaking point. This unlucky star just wandered
into the wrong neighbourhood. While other observations have hinted that stars
are destroyed by black holes (events
known as 'stellar
tidal disruptions'),
these new results are the first strong evidence. Observations with XMM-Newton
and Chandra, combined
with earlier images from the German Roentgensatellite (ROSAT),
detected a powerful X-ray outburst from the centre of the galaxy
RXJ1242-11. This outburst,
one of the most extreme ever detected in a galaxy, was caused by gas from the
destroyed star that was heated to millions of degrees before
being swallowed by the black hole. The energy liberated in
this process is equivalent to that of a supernova. Now, with
all of the data in hand, we have the smoking gun proof that this spectacular
event has occurred. The black hole in the centre of
RX J1242-11 is estimated to have a mass about 100 million
times that of the Sun. By contrast, the destroyed star probably had
a mass about equal to that of the Sun, making it a lopsided
battle of gravity. The astronomers estimated that about one hundredth of the
mass of the star was ultimately consumed, or accreted, by the black
hole. This small amount is consistent with predictions that the
momentum and energy of the accretion process will cause most of the destroyed
star's gas to be flung away from the black
hole.
Credit: Illustration: NASA/CXC/M.Weiss; X-ray: NASA/CXC/MPE/S.Komossa et al.; Optical: ESO/MPE/S.Komossa
The force that disrupted the star in RXJ1242-11 is an extreme example of the tidal force caused by differences in gravity acting on the front and back of an object. The tidal force from the Moon causes tides in the oceans on Earth, and tidal force from Jupiter pulled Comet Shoemaker-Levy apart before it plunged into the giant planet. The odds that stellar tidal disruption will happen in a typical galaxy are long, about one in ten thousand. If it happened at the centre of the Milky Way, the resulting X-ray source would be about 50,000 times more powerful than the strongest X-ray source in our galaxy. However, such an event would not pose a threat to Earth because of the intervening distance of 25,000 light years. Other dramatic flares have been seen from galaxies, but this is the first to have been studied with the high spectral resolution of XMM-Newton and the high spatial resolution of Chandra. Both instruments have made a critical advance. Chandra showed that the RXJ1242-11 event occurred in the centre of a galaxy, where the black hole lurks. The XMM-Newton spectrum revealed the fingerprints expected for the surroundings of a black hole, and allowed other possible astronomical explanations to be ruled out. Evidence already exists for super-massive black holes in many galaxies, but looking for tidal disruptions represents a completely independent way to search for black holes. Observations like these are urgently needed to determine how quickly black holes can grow by swallowing neighbouring stars. This discovery was announced today at a press conference at NASA Headquarters in Washington DC, USA. A paper describing these results, by Stefanie Komossa and others, will be published in The Astrophysical Journal. ESA's XMM-Newton can detect more X-ray sources than any previous satellite and is helping to solve many cosmic mysteries of the violent Universe, from black holes to the formation of galaxies. It was launched on 10 December 1999, using an Ariane-5 rocket, from French Guiana. It is expected to return data for a decade. XMM-Newton's high-tech design uses over 170 wafer-thin cylindrical mirrors spread over three telescopes. Its orbit takes it almost a third of the way to the Moon, so that astronomers can enjoy long, uninterrupted views of celestial objects. NASA's Marshall Space Flight Center, Huntsville, Alabama, manages the Chandra programme for the Office of Space Science, NASA Headquarters, Washington DC, USA. Northrop Grumman of Redondo Beach, California, formerly TRW Inc., was the prime development contractor for the observatory. The Smithsonian Astrophysical Observatory controls science and flight operations from the Chandra X-ray Center in Cambridge, Massachusetts.
DIGRESSIONE...
Le galassie ellittiche hanno la forma di un ellissoide più o meno schiacciato. Esse vengono indicate con la lettera E, seguita da un numero da 0 a 7, che indica il minore o maggiore grado di schiacciamento (le E0 sono le più sferoidali, le E7 le più schiacciate). Le galassie di questo tipo sono meno luminose delle spirali a parità di massa, qundi sembrano meno numerose, ma è probabile che costituiscano poco meno della meta' del totale. Le ellittiche sono le galassie che presentano la maggior varietà di masse e dimensioni; vi si trovano da un lato le ellittiche nane, con masse di pochi milioni di volte quella solare e diametri di 5.000 anni luce, dall'altro le giganti, con masse di 10.000 miliardi di volte quella del Sole e diamtri di 300.000 anni luce. Queste ultime si trovano soprattutto al cento degli ammassi di galassie. Le galassie ellittiche sono quasi totalmente prive di gas, non che' di stelle giovani (come quelle masicce, di tipo spettrale O e B). Predominano invece le stelle vecchie, fredde e quindi degli ultimi tipi spettrali: lo spettro di queste galassie è rosso. Le stelle si sono formate tutte nelle prime fasi di vita di queste galassie, consumando quasi tutto il gas disponibile; il resto è stato espulso dalla galassia dopo essersi riscaldato a causa di processi violenti, come le esplosioni di supernovae. Le galassie ellittiche sono molto più omogenee di quelle spirali, sia per contenuto stellare che per distribuzione delle stelle.
FINE DIGRESSIONE
21.01.2004 Una stella che imita un Buco Nero
Circinus X-1 emette getti dal proprio disco di accrescimento. Alcuni astronomi di diversi paesi che lavorano con l'Australia Telescope Compact Array della Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization (CSIRO), un radiointerferometro nel Nuovo Galles del Sud, in Australia, hanno individuato una stella di neutroni che espelle un getto di materia quasi alla velocità della luce. Si tratta della prima volta che viene osservato un getto così veloce provenire da qualcosa che non sia un buco nero. Gli scienziati hanno studiato per tre anni Circinus X-1, una fonte luminosa e variabile di raggi X cosmici. La scoperta, descritta in un articolo pubblicato sulla rivista "Nature", sfida l'idea che soltanto i buchi neri siano in grado di creare le condizioni necessarie per accelerare getti di particelle a velocità estreme. Produrre questi getti è un processo cosmico fondamentale, che però non è ancora ben compreso nonostante venga studiato da decenni. Quello che si è osservato potrebbe aiutarci a capire come oggetti molto più grandi, come i buchi neri massivi, possano produrre getti visibili anche a grandi distanze. Circinus X-1 si trova all'interno della nostra galassia, a quasi 20.000 anni luce di distanza dalla Terra, nella costellazione del Compasso vicino alla Croce del Sud. Consiste di due stelle: una stella "normale", probabilmente con una massa pari a 3-5 volte quella del Sole, e una piccola compagna compatta, una stella di neutroni che emette lampi di raggi X. Le due stelle interagiscono e la gravità della stella di neutroni attira materia dalla stella più grande, generando radiazioni e getti di materia che viaggiano al 99,8 per cento della velocità della luce.
Intermediate mass black
hole mystery resolved
UNIVERSITY OF AMSTERDAM NEWS RELEASE
Posted: April 19, 2004
New research, funded by the Royal Netherlands Academy of Sciences, the Institute of Advanced Physical and Chemical Research, NASA and the University of Tokyo, solved the mystery of how a black hole, with the mass more than several hundreds times larger than that of our Sun, could be formed in the nearby starburst galaxy, M82.
Chandra X-ray image of the relevant part of M82 with the observed star clusters indicated. The color image is from the 28 October 1999 X-ray observation by Matsumoto et al (2001). The brightest X-ray source (M82 X-1) is near the center of the image. The star clusters are indicated by circles. The positions of the two star clusters MGG-9 and MGG-11 are indicated with squares. The magnified infrared images of these star clusters from McCrady et al (2003) observations are presented in the upper right (MGG-11) and lower left (MGG-9) corners.
Recent observations of the Chandra X-ray observatory (Matsumoto et al., 2001 ApJ 547, L25) indicate the presence of an unusually bright source in the star cluster MGG11 in the starburst galaxy M82. The properties of the X-ray source are best explained by a black hole with a mass of about a thousand times the mass of the Sun, placing it intermediate between the relatively small (stellar mass) black holes in the Milky Way Galaxy and the supermassive black holes found in the nuclei of galaxies. For comparison, stellar-mass black holes are only a few times more massive than the Sun, whereas the black hole in the center of the Milky-way Galaxy is more than a few million times more massive than the Sun. An international team of researchers, using the world's fastest computer, the GRAPE-6 system in Japan, were engaged in a series of simulations of star clusters that resembled MGG11. They used the GRAPE-6 to perform simulations with two independently developed computer programs (Starlab and NBODY4 developed by Sverre Aarseth in Cambridge), both of which give the same qualitative result. The simulations ware initiated by high resolution observations of the star cluster MGG11 by McCrady et al (2003, ApJ 596, 240) using the Hubble Space Telescope (HST) and Keck, and by Harashima et al (2001) using the giant Subaru telescope. Chandra X-ray image of the central region of the starburst galaxy M82. The GRAPE's detailed, star-by-star simulations represent the state of the art in cluster modeling. For the first time using the GRAPE, researchers perform simulations of the evolution of young and dense star clusters with up to 600000 stars; they calculate the orbital trajectory and the evolution of each star individually. Using this unique tool, the team found they could reproduce the observed characteristics of the star cluster MGG11. As a bonus, however, the star cluster produces a black hole with a mass between 800 and 3000 times the mass of the Sun. The black hole is produced within 4 million years which is in an early phase in the evolution of the star cluster. During this phase the stellar density in the center becomes so high that physical collisions between the stars become frequent. If the stellar densities exceed a million times the density in the neighborhood of the Sun, collision start to dominate the further evolution of the star cluster. In this over-dense cluster center, stars experience repeated collisions with each other, resulting in a collision runaway in which a single stars grows to enormous mass. After the central fuel of this star is exhausted, it collapses to a black hole of about 1000 times the mass of the Sun. New results of these detailed computer simulations, published in Nature show that the star cluster in which the X-ray source resides has characteristics such that a black hole of 800-3000 times the mass of the Sun can form within a very short time. The calculations therewith provide compelling evidence for the process which produces intermediate mass black holes and at the same time provide an explanation for the bright X-ray source observed in the cluster. The GRAPE team's members are Simon Portegies Zwart, from the University of Amsterdam in the Netherlands; Holger Baumgardt, from RIKEN in Tokyo; Piet Hut, of the Institute for Advanced Study in Princeton, N.J.; Jun Makino from Tokyo University; Steve McMillan, from Drexel University in Philadelphia.
The GRAPE group's results appear in the April 15, 2004, issue of Nature.
08.07.2004 Black holes and branes in string theory
A black hole is an object that is described by a spacetime geometry that is a solution to the Einstein equation. In string theory at large distance scales, solutions to the Einstein equation are only modified by very small corrections. But it has been discovered through string duality relations that spacetime geometry is not a fundamental concept in string theory, and at small distance scales or when the forces are very strong, there is an alternate description of the same physical system that appears to be very different. A special type of black hole that is very important in string theory is called a BPS black hole. A BPS black hole has both charge (electric and/or magnetic) and mass, and the mass and the charges satisfy an equality that leads to unbroken supersymmetry in the spacetime near the black hole. This supersymmetry is very important because it results in the disappearance of messy quantum corrections, so that precise answers about the physics near the black hole horizon can be found by simple calculations. The string theories contain objects called p-branes and D-branes. Since a point can be thought of as a zero-brane, a natural generalization of a black hole is a black p-brane. And there are also BPS black p-branes. But there's also a relationship between black p-branes and D-branes. At large values of the charge, spacetime geometry is a good description of a black p-brane system. But when the charge is small, the system can be described by a bunch of weakly interacting D-branes. In this weakly coupled D-brane limit, with the BPS condition satisfied, it is possible to calculate the number of available quantum states. This answer depends on the charges of the D-branes in the system. When we go back to the geometrical limit of the equivalent black hole of p-brane system with the same charges and masses, we find that the entropy of the D-brane system matches the entropy as calculated from the black hole or p-brane event horizon area. This was a fantastic result for string theory. But can we now say that D-branes provide the fundamental quantum microstates of a black hole that underlie black hole thermodynamics ? The D-brane calculation is only easily performed for the supersymmetric BPS black objects. Most black holes in the Universe probably have very little if any electric or magnetic charge, and are very far from being BPS objects. It's still a challenge to compute the black hole entropy for such an object using D-branes.
20.07.2004 Hawking cambia idea sui buchi neri
Il
fisico dà ragione al collega teorico John
Preskill. Il celebre fisico Stephen Hawking ha ammesso
che, dopo tutto, c'è la possibilità
che dai buchi neri
possa sfuggire qualche tipo di informazione. Da qualche tempo
l'idea si era fatta strada fra gli astrofisici, ma il fatto che sia stata accettata
anche da uno dei pionieri della teoria dei buchi neri negli
anni settanta costituisce una
svolta importante. Per molti potrà sembrare
una sorpresa, ma il suo modo di
fare scienza è proprio questo: proporre
una tesi e difenderla ad oltranza, fino a quando non viene superata da un ragionamento
migliore. Hawking perde una scommessa portata avanti da lungo
tempo con John Preskill, fisico teorico del California
Institute of Technology di Pasadena. Hawking riteneva
che qualsiasi cosa venisse inghiottita da un buco nero
fosse nascosta per sempre all'universo esterno. Preskill
affermava invece che l'informazione
portata da un oggetto non viene distrutta quando questo precipita in una stella
collassata, e che può essere recuperata. La tesi originale di Hawking
si basava sulla teoria generale della relatività di Einstein,
che però è contraddetta a scale molto piccole dalla teoria
quantistica. Hawking presenterà il suo tentativo di combinare
la teoria
quantistica con la relatività
generale in una nuova e potente teoria della gravitazione
quantistica alla 17esima
conferenza internazionale sulla relatività generale e la gravitazione
(GR17)
che si terrà a Dublino dal 18
al 23 luglio. [Vedi
anche: Topological
quantum memory, John Preskill, Caltech
(Realplayer)]
20.09.2003
GAMMA RAY BURST
La ricerca continua
Nel 1967 alcuni satelliti militari americani, progettati per controllare l'attività nucleare nemica, rilevarono delle improvvise e grandiose esplosioni nello spazio. Era la prima volta che si osservava un fenomeno del genere. Cinque anni più tardi un gruppo di astrofisici del Los Alamos National Laboratory (USA), in un ormai celebre articolo scientifico, rivelarono la natura cosmica di quei lampi, che presero il nome di "Gamma Ray Burst" (GRB). A 30 anni da quella eccezionale scoperta, il centro di ricerca statunitense ha riunito a Santa Fe (Usa) dal 9 al 12 settembre esperti di GRB di tutto il mondo per fare il punto delle conoscenze. Negli ultimi mesi, infatti, le ricerche hanno fatto passi da gigante e ora si aspetta il lancio dei satelliti Swift (maggio 2004) e Agile (2005), che studieranno da vicino quello che è ancora uno dei fenomeni più affascinanti e misteriosi dell'Universo. I GRB sono lampi di raggi gamma che rilasciano una quantità enorme di energia in un tempo brevissimo, che va da meno di un secondo a qualche minuto. La loro origine è rimasta oscura fino a non molti anni fa, quando furono disponibili i dati provenienti dai nuovi satelliti, come l'americano Compton Gamma Ray Observatory (1991) e, in particolare, l'italiano BeppoSAX (1996). Questo strumento segnò la svolta nello studio dei GRB, permettendo per la prima volta di associare questi fenomeni a delle galassie e stabilendo così la loro distanza, migliaia di milioni di anni luce. Questo risultato fu possibile grazie alla rivelazione dei cosiddetti 'afterglow' in banda X, una sorta di eco dell'esplosione sotto forma di un'emissione più debole che può durare anche mesi, degradando verso radiazioni meno energetiche, dall'ottico fino alle onde radio. Ma come nasce un GRB ? Nel corso degli anni i ricercatori hanno proposto una grande quantità di modelli, ma si è ormai giunti a uno scenario generale accettato dalla maggioranza della comunità scientifica: il cosiddetto modello a 'fireball' (palla di fuoco). Questo consiste di tre fasi. La prima è costituita dall'esplosione vera e propria, probabilmente legata al collasso di una stella in un buco nero e alla conseguente espulsione di un getto di materia a velocità prossime a quella della luce. La seconda fase avviene quando le varie parti del getto collidono tra di loro, producendo l'emissione gamma osservata. Funziona un pò come un tamponamento tra vetture che vanno nella stessa direzione. Infine, c'è la fase dell'afterglow, quando tutta la materia impatta il gas interstellare. E' come se tutte i veicoli che si sono tamponati prima si schiantassero poi contro un muro (riprendendo la metafora automobilistica). La fase che noi scienziati comprendono meno è la prima, ovvero la causa vera e propria dell'esplosione. Questo è, infatti, uno degli argomenti su cui a Santa Fe si è discusso di più. In particolare, un'intera sessione è stata dedicata a una recente scoperta che potrebbe aprire qualche spiraglio verso la comprensione del processo all'origine dei GRB. Il 29 marzo 2003 il satellite americano HETE-II (High Energy Transient Explorer) ha osservato un GRB particolarmente brillante, denominato 030329, come si usa convenzionalmente fare a partire dalla data. Nel giro di 90 minuti, un telescopio ottico in Australia è riuscito a identificare l'afterglow associato al GRB. In meno di 24 ore, da un altro telescopio, in Cile, si è ricavato uno spettro ad alta risoluzione dell'oggetto, a partire dal quale si è determinata la distanza del GRB, ovvero 2.650 milioni di anni luce. Ma la scoperta più importante è venuta nei mesi successivi, quando, durante il continuo controllo dell'afterglow da parte dei telescopi, i caratteristici segni di una supernova sono emersi dall'emissione totale. Questi dati hanno dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che l'esplosione di un GRB è associata a quella di una supernova e che, almeno in alcuni casi, i due avvenimenti sono simultane. Inoltre, ci ha fatto capire che le supernovae associate ai GRB non sono normali, ma estremamente energetiche e associate a stelle particolari. Si tratta delle cosiddette 'hypernovae', rari eventi legati all'esplosione di stelle di massa molto elevata e denominate di 'Wolf-Rayet'. Grazie a questi eccitanti risultati, lo studio dei GRB sta vivendo un momento di grande progresso, ma sono ancora tanti i punti oscuri della teoria. Le speranze sono riposte nella nuova generazione di satelliti, anch'essa presentata al congresso. Nel maggio 2004 verrà lanciato Swift, una missione dedicata allo studio dei GRB che li scoprirà e ne seguirà l'evoluzione nei primi giorni con un'accuratezza mai raggiunta prima. Ci sarà poi il satellite italiano Agile (nel 2005), che studierà l'emissione ad alta energia. Come a dire: sono passati 30 anni, ma i GRB hanno ancora tanto da svelare.
Most distant X-ray jet found provides
clues to big bang
NASA NEWS RELEASE
Posted: November
17, 2003
The most distant jet ever observed was discovered in an image of a quasar made by NASA's Chandra X-ray Observatory. Extending more than 100,000 light-years from the supermassive black hole powering the quasar, the jet of high-energy particles provides astronomers with information about the intensity of the cosmic microwave background radiation 12 billion years ago.
(Vedi figura qui sopra !)-The Chandra image of the quasar GB1508+5714 (inset) reveals a jet of high-energy particles that extends more than 100,000 light years from the supermassive black hole powering the quasar. At a distance of 12 billion light years from Earth, this is the most distant jet ever detected.
The discovery of this jet was a surprise to the astronomers, according to team members. Astronomers had previously known the distant quasar GB1508+5714 to be a powerful X-ray source, but there had been no indication in previous images of any complex structure or a jet. A report on this research is in the November 20 Astrophysical Journal Letters. Prior to this discovery, the most distant confirmed X-ray jet corresponded to a time about 3 billion years after the big bang. Quasars are thought to be galaxies that harbor an active central supermassive black hole fueled by infalling gas and stars. This accretion process is often observed to be accompanied by the generation of powerful high-energy jets. As the electrons in the jet fly away from the quasar at near the speed of light, they move through the sea of cosmic background radiation left over from the hot early phase of the universe. When a fast-moving electron collides with one of these background photons, it can boost the photon's energy up into the X-ray band. The X-ray brightness of the jet depends on the power in the electron beam and the intensity of the background radiation. Everyone assumes that the background radiation will change in a predictable way with time, but it is important to have this check on the predictions. This jet is hopefully just the first in a large sample of these distant objects that can be used to tell us how the intensity of the cosmic microwave background changed over time. In fact, if this interpretation is correct, then discovery of this jet is consistent with our previous prediction that X-ray jets can be detected at arbitrarily large distances! Chandra originally observed GB 1508+5714 with the purpose of studying the X-ray emission from the dust located between the Earth and the far-flung quasar. The jet was found by Siemiginowska and her colleagues when they examined the data once it became available publicly in the Chandra archive. This led another astronomer to then carefully look at radio observations of the object. Indeed, archived Very Large Array data confirmed the existence of the jet associated with the quasar GB 1508+5714. A paper on the radio observations of GB 1509+5714 has been accepted by Astrophysical Journal Letters from Teddy Cheung of Brandeis University in Waltham, Mass. Another group of astronomers led by Weimen Yuan of the University of Cambridge, United Kingdom, independently reported the discovery of the extended emission in GB 1508+5714 in X-rays. In a paper to be published in an upcoming issue of the Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, the authors note that significant energy is being deposited in the outer regions of the host galaxy at a very early stage. This energy input could have a profound effect on the evolution of the galaxy by triggering the formation of stars, or inhibiting the growth of the galaxy through accretion of matter from intergalactic space. NASA's Marshall Space Flight Center, Huntsville, Ala., manages the Chandra program for the Office of Space Science, NASA Headquarters, Washington. Northrop Grumman of Redondo Beach, Calif., formerly TRW, Inc., was the prime development contractor for the observatory. The Smithsonian Astrophysical Observatory controls science and flight operations from the Chandra X-ray Center in Cambridge, Mass.
Celestial illumination: X-ray
glow from an exploded star
CHANDRA X-RAY CENTER NEWS RELEASE
Posted: December 20, 2003
NASA's Chandra X-ray Observatory has imaged the glowing shell created by the destruction of a massive star. X-rays from Chandra (blue), combined with optical (green) and radio (red) data, reveal new details in the supernova remnant known as N63A, located in the nearby galaxy of Large Magellanic Cloud.
Credit: X-ray: NASA/CXC/Rutgers/J.Warren et al.; Optical: NASA/STScI/U. Ill/Y.Chu; Radio: ATCA/U. Ill/J.Dickel et al.
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The X-ray glow is from material heated to about ten million degrees Celsius by a shock wave generated by the supernova explosion. The age of the remnant is estimated to be in the range of 2,000 to 5,000 years. To get the full story of N63A, Jessica Warren and John P.Hughes of Rutgers University, and Patrick Slane of the Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics also employed data from other wavelengths. Optical and radio emissions are brightest in the central region of the remnant, which appears as a triangular-shaped "hole" in the X-ray image. The hole is produced by the absorption of X-rays in a dense cloud of cooler gas on the side of the remnant nearest Earth. A comparison of the X-ray image with the radio and optical images suggests that the shock wave is engulfing this massive cloud of dust and gas, and we see only the edge of the cloud nearest Earth. Collisions of such as this are thought to trigger the formation of a new generation of stars. The fluffy crescent-shaped X-ray features that appear around the edge of the remnant are thought to be fragments of high-speed matter shot out from the star when it exploded, like shrapnel from a bomb. In the only other supernova remnant (the Vela supernova remnant) where such features have been observed, the crescent shapes are clearly produced by ejecta fragments. An alternative explanation is that they were produced when the shock wave swept over less-massive clouds located several light years away from the site of the explosion. Chandra observed N63A on October 16, 2000 for more than 11 hours. These results were published in the Astrophysical Journal Letters in January 20, 2003. NASA's Marshall Space Flight Center, Huntsville, Ala., manages the Chandra program for the Office of Space Science, NASA Headquarters, Washington. Northrop Grumman of Redondo Beach, Calif., formerly TRW, Inc., was the prime development contractor for the observatory. The Smithsonian Astrophysical Observatory controls science and flight operations from the Chandra X-ray Center in Cambridge, Mass.
27.01.2004 X-ray Echo: Astronomers Catch Remnants of Cosmic Shout
In space, no one can hear you scream, but only if you're human. Stars, on the other hand, can send out a shout that reverberates across the universe. British astronomers have detected the remains of such an event, a distant powerful gamma ray burst that sent out a booming X-ray echo in the form of two concentric radiation rings propagating through space. It's the first time astronomers have seen an X-ray echo from a gamma ray burst. We were quite fortunate with this GRB. We caught it pretty fast. Gamma ray bursts, or GRBs, are the most powerful explosions in the universe, although much of their origin remains a mystery to astronomers. They can last up to a few minutes or less than a second, and while some occur in tandem with a supernova explosion, only those stars capable of collapsing into a black hole seem to be able to make a GRB.
X-rays through an interstellar fog
Vaughan's team recorded the pair of rings emanating from gamma ray burst GRB 031203 six hours after it exploded, which took just 30 seconds. The echo is a delayed effect caused by X-rays that were scattered as they passed through interstellar dust on their way out into space. As X-ray photons scattered, they illuminated nearby dust particles much like the headlights of a car illuminates fog. The expansion effect, however, is really an optical illusion especially since it looks to observers as if it's occurring at about 1,500 times the speed of light. It's an optical trick of light, though quite fun. The echo rings only appear to expand because the X-rays scattered by dust further from GRB 031303 take longer to reach Earth than those X-rays scattered closer to the line of sight. There appear to be two rings because the light is passing through two separate sheets of interstellar dust. Astronomers can use the X-ray echo effect to locate exactly where those sheets of interstellar dust sit, which can help determine where stars, or even planets, may eventually form. Vaughan said his team is still processing data but believes the nearest dust sheet to Earth is about 2,900 light-years away in the Gum nebula, a large bubble of ionized gas formed from repeated supernova explosions. The second dust sheet sits about 4,500 light-years away. One light-year is the distance light travels in a year, about six trillion miles, or 9.5 trillion kilometers.
It's all about the view
When it comes to detecting an X-ray echo like that seen in Vaughan's study, it's all about location. In the past, astronomers have seen similar echoes in the visible light range during supernova explosions. Some observer's have even detected slight X-ray echoes from binary star systems, but the stars in those systems are so bright they nearly drown our their halos. But things seemed to come together for GRB 031203. The gamma ray burst was originally detected by the European Space Agency's (ESA) Integral satellite, an instrument built to find GRBs, on Dec. 3, 2003. The find was then relayed to astronomers on Earth via a GRB alert network and six hours later Vaughan and his colleagues used ESA's XMM-Newton X-ray satellite to study the after-effects of GRB 031203. While the strongest, and most direct, emissions from a GRB are from gamma rays - hence the name gamma ray burst - the delayed X-ray echo is also useful because give astronomers an idea of the X-ray brightness of GRB 031203 when it exploded. "XMM-Newton's measurements are thus crucial to better understand the nature of the burst," explained Fred Jansen, project scientist for XMM-Newton, in a written statement. The more details we gather of the burst, the more we learn how black holes are made. By chance, astronomers said, the GRB 031203 happened to go off within the plane of the Earth's own Milky Way galaxy, which puts much interstellar dust in the its light path toward Earth. The alignment gave Vaughan's team a clear view of the fading 'afterglow' X-ray emissions of the GRB's post-explosion core, as well as the echo rings. A combination of rapid observing and the direction that this thing went off meant we stood a good chance of detecting it. But the chances of us finding another [GRB] like this are slim.
A Swift approach to GRB
On the average, researchers with both the Integral and XMM-Newton satellites follow up on about one gamma ray burst a month. The explosions themselves occur on an almost daily basis, but only those GRBs whose gamma rays are pointed directly at Earth can be detected. Later this year, NASA's Goddard Space Flight Center is set to launch its Swift spacecraft, a dedicated GRB observatory that will be able to home in on a burst up to 90 seconds after detection. Once a GRB is identified, Swift should start taking measurements with three onboard instruments, which together cover the X-ray, gamma ray and optical wavelengths. When Swift is launched, it's going to be chasing something like a GRB every other day. Which should increase our chances of seeing more X-ray rings. The Swift mission is an international collaboration and part of NASA's medium explorer (MIDEX) program. The spacecraft is expected to launch in May 2004 and detect more than 200 gamma ray bursts during its projected two-year lifespan.
X-ray shout echoing
through space recorded by satellite
EUROPEAN SPACE AGENCY NEWS RELEASE
Posted: January 29, 2004
The European Space Agency's X-ray observatory, XMM-Newton, has imaged a spectacular set of rings which appear to expand, with a speed a thousand times faster than that of light, around the point in the sky where a powerful gamma-ray explosion took place in early December. This is the first time that such a fascinating event, called an 'echo', is seen in X-ray wavelengths. This echo forms when the powerful radiation of a gamma-ray burst, coming from far away, crosses a slab of dust in our Galaxy and is scattered by it, like the beam of a lighthouse in clouds. Using the expanding rings to precisely pin-point the location of this dust, astronomers can identify places where new stars and planets are likely to form.
XMM-Newton's X-ray EPIC camera shows the expanding rings caused by a flash of X-rays scattered by dust in our Galaxy. Credits: ESA, S.Vaughan (University of Leicester).
On December 3, 2003 ESA's observatory, Integral, detected a burst of gamma rays, lasting about 30 seconds, from the direction of a distant galaxy. Within minutes of the detection, thanks to a sophisticated alert network, many observatories around the world were pointing their instruments at this mysterious source in the sky, named GRB 031203, in the attempt to decipher its nature. Also ESA's X-ray observatory, XMM-Newton, joined the hunt and observed the source in detail, using its on-board European Photon Imaging Camera (EPIC). The fading X-ray emission from GRB 031203 - called the 'afterglow' - is clearly seen in XMM-Newton's images. But much more stunning are the two rings, centred on the afterglow, which appear to expand thousand times faster than the speed of light. These rings are what astronomers call an 'echo'. They form when the X-rays from the distant gamma-ray burst shine on a layer of dust in our own Galaxy. The dust scatters some of the X-rays, causing XMM-Newton to observe these rings, much in the same way as fog scatters the light from a car's headlights. Although the afterglow is the brightest feature seen in XMM-Newton's images, the expanding echo is much more spectacular. It is like a shout in a cathedral. The shout of the gamma-ray burst is louder, but the Galactic reverberation, seen as the rings, is much more beautiful. The rings seem to expand because the X-rays scattered by dust farther from the direction of GRB 031203 take longer to reach us than those hitting the dust closer to the line of sight. However, nothing can move faster than light. This is precisely what we expect because of the finite speed of light. The rate of expansion that we see is just a visual effect. There are two thin sheets of dust between the source of the gamma-ray burst and Earth, one closer to us creating the wider ring and one further away where the smaller ring is formed. Since they know precisely at which speed the X-ray light travels in space, the team in Leicester have determined accurately the distance to the dust sheets by measuring the size of the expanding rings. The nearest dust sheet is located 2900 light years away and is probably part of the Gum nebula, a bubble of hot gas resulting from many supernova explosions. The other dust layer is about 4500 light years away. Understanding how dust is distributed in our Galaxy is important because dust favours the collapse of cool gas clouds, which can then form stars and planets. Knowing where dust is located helps astronomers to determine where star and planet formation is likely to occur. Expanding X-ray dust scattering rings, such as those around GRB 031203, have never been seen before. Slower-moving rings, caused by a similar effect, have been seen in visible light around a very few exploding stars, mostly supernovae. The expanding rings also provide much needed information on the gamma-ray burst itself. Gamma-ray bursts are the most powerful explosive events in the Universe, but astronomers are still trying to understand the mystery that surrounds their origin. Some occur with the supernova explosion of a massive star when it has used up all of its fuel, although only stars which have lost their outer layers and which collapse to make a black hole seem able to make a gamma-ray burst. The delayed X-rays from the echo of GRB 031203 are very useful because they tell astronomers how bright the burst was in the X-ray spectrum when it went off on 3 December. The only direct data available from that moment are those obtained by ESA's Integral observatory in the gamma-ray range. XMM-Newton's measurements are thus crucial to better understand the nature of the burst. The more details we gather of the burst, the more we can learn on how black holes are made. Today, ESA's Integral and XMM-Newton observatories provide astronomers with their most powerful facilities for studying gamma-ray bursts. In 2004 a new gamma-ray satellite, called 'Swift', will be launched as part of a collaboration between the USA, United Kingdom and Italy. Swift will add to the flotilla of satellites providing fast and accurate locations of gamma-ray bursts on the sky, which can then be followed with XMM-Newton. This will provide even more opportunities for new discoveries in this cutting-edge field. XMM-Newton can detect more X-ray sources than any previous satellite and is helping to solve many cosmic mysteries of the violent Universe, from black holes to the formation of galaxies. It was launched on 10 December 1999, using an Ariane-5 rocket from French Guiana. It is expected to return data for a decade. XMM-Newton's high-tech design uses over 170 wafer-thin cylindrical mirrors spread over three telescopes. Its orbit takes it almost a third of the way to the Moon, so that astronomers can enjoy long, uninterrupted views of celestial objects. :-)
DIGRESSIONE...
01.10.2003 Raggi gamma ed estinzioni di massa
Presentata una possibile spiegazione per la scomparsa di molte specie alla fine del periodo Ordoviciano. Circa 440 milioni di anni fa, un lampo di raggi gamma nelle vicinanze del sistema solare potrebbe aver contribuito all'estinzione di gran parte della vita sulla Terra. Lo sostengono alcuni astronomi e paleontologi statunitensi, guidati da Adrian Melott dell'Università del Kansas di Lawrence, secondo i quali le caratteristiche dei fossili di trilobiti della fine del periodo Ordoviciano sono consistenti con l'alterazione prodotta nell'ambiente da un'esplosione cosmica di questo tipo distante poche migliaia di anni luce. A quell'epoca, scomparvero più di 100 famiglie di invertebrati marini: si trattò della seconda estinzione di massa più devastante nella storia del nostro pianeta. La possibilità che la vita sulla Terra possa essere influenzata da eventi cosmici è riconosciuta da tempo. È stato ipotizzato che gli impatti di giganteschi asteroidi possano essere stati la causa degli incendi globali e dei raffreddamenti climatici all'origine di eventi come l'estinzione dei dinosauri, 65 milioni di anni fa. I ricercatori hanno anche suggerito che le supernove, esplosioni di vecchie stelle, siano in grado di investire il nostro pianeta con radiazioni letali nel caso che si verifichino entro una distanza di 100 anni luce. Ma le supernove sono ben poca cosa, se paragonate con le esplosioni cosmiche note come lampi di raggi gamma. La maggior parte di questi proviene da oltre la nostra galassia, ma sono visibili anche a immense distanze in quanto estremamente luminosi e potenti, pur durando pochi secondi. Probabilmente sono collegati alle supernove: getti o ammassi di materia espulsa da una stella che collassa potrebbero produrre un lampo di raggi gamma nella collisione con il gas fra le stelle.
A.L. Melott et al. Did a gamma-ray burst initiate the late Ordovician mass extinction ?. Preprint, (2003).
FINE DIGRESSIONE
21.03.2003 Ritratto di un lampo (ciò che si supponeva 6 mesi fa)
Il satellite della NASA HETE (High Energy Transient Explorer) ha catturato le più dettagliate immagini mai ottenute di un "gamma-ray burst". Ossia, di uno tra i più misteriosi eventi che si manifestano nel cosmo. Ne ha dato notizia, su Nature, un team di astronomi guidati da Derek Fox del California Institute of Technology, i quali hanno osservato che il fenomeno è stato dieci o cento volte più potente di quanto ci si attendesse. Un gamma-ray burst è un lampo di raggi gamma (onde elettromagnetiche ad altissima energia) le cui sorgenti hanno una durata generalmente minore di un centinaio di secondi. Le informazioni rintracciabili sulle sorgenti di lampi gamma si basano sulle cosiddette postluminescenze, forme di radiazioni luminose che seguono al lampo e di energia inferiore rispetto a esso, la cui durata può variare da pochi giorni ad alcune settimane dopo l'evento esplosivo. Dopo le "istantanee" che HETE ha scattato al lampo denominato GRB021004, più di 50 telescopi in tutto il mondo hanno rivolto il loro occhio alla porzione di cielo attraversata dalla conseguente postluminescenza. La quale, sorprendentemente, ha mostrato di guadagnare energia nella prima mezz'ora della sua esistenza. Questo, secondo i ricercatori, lascia supporre che i gamma-ray burst possano essere in generale molto più potenti di quanto si sospettasse. Quanto alla loro natura, lo studio di GRB021004 sembra confermare l'ipotesi fino ad oggi più accreditata, secondo cui i lampi provengono da stelle che stanno collassando in buchi neri.
New view of Milky Way
in gamma rays
EUROPEAN SPACE AGENCY NEWS RELEASE
Posted: November 11, 2003
ESA's gamma-ray observatory Integral is making excellent progress, mapping the Galaxy at key gamma-ray wavelengths. It is now poised to give astronomers their truest picture yet of recent changes in the Milky Way's chemical composition. At the same time, it has confirmed an 'antimatter' mystery at the centre of the galaxy.
A portion of Integral's gamma-ray map of the galaxy. The yellow dots correspond to bright known gamma-rays sources, whilst blue areas indicate regions of low emission. Credit: ESA/SPI team.
Since its formation from a cloud of hydrogen and helium gas, around 12,000 million years ago, the Milky Way has gradually been enriched with heavier chemical elements. This has allowed planets and, indeed, life on Earth to form. Today, one of those heavier elements - radioactive aluminium - is spread throughout the Galaxy and, as it decays into magnesium, gives out gamma rays with a wavelength known as the '1809 keV line.' Integral has been mapping this emission with the aim of understanding exactly what is producing all this aluminium. In particular, Integral is looking at the aluminium 'hot spots' that dot the Galaxy to determine whether these are caused by individual celestial objects or the chance alignment of many objects. Astronomers believe that the most likely sources of the aluminium are supernovae (exploding high-mass stars) and, since the decay time of the aluminium is around one million years, Integral's map shows how many stars have died in recent celestial history. Other possible sources of the aluminium include 'red giant' stars or hot blue stars that give out the element naturally. To decide between these options, Integral is also mapping radioactive iron, which is only produced in supernovae. Theories suggest that, during a supernova blast, aluminium and iron should be produced together in the same region of the exploding star. Thus, if the iron's distribution coincides with that of the aluminium, it will prove that the overwhelming majority of aluminium comes indeed from supernovae. These measurements are difficult and have not been possible so far, since the gamma-ray signature of radioactive iron is about six times fainter than that of the aluminium. However, as ESA's powerful Integral observatory accumulates more data in the course of the next year, it will finally be possible to reveal the signature of radioactive iron. This test will tell astronomers whether their theories of how elements form are correct. In addition to these maps, Integral is also looking deeply into the centre of the Galaxy, to make the most detailed map ever of 'antimatter' there. Antimatter is like a mirror image to normal matter and is produced during extremely energetic atomic processes: for example, the radioactive decay of aluminium. Its signature is known as the '511 keV line.' Even though Integral's observations are not yet complete, they show that there is too much antimatter in the centre of the Galaxy to be coming from aluminium decay alone. They also show clearly that there must be many sources of antimatter because it is not concentrated around a single point. There are many possible sources for this antimatter. As well as supernovae, old red stars and hot blue stars, there are jets from neutron stars and black holes, stellar flares, gamma-ray bursts and interaction between cosmic rays and the dusty gas clouds of interstellar space. We have collected excellent data in the first few months of activity but we can and will do much more in the next year. Integral's accuracy and sensitivity have already exceeded our expectations and, in the month t come, we could get the answers to some of astronomy's most intriguing questions. These and other preliminary results, plus a thorough description of the Integral spacecraft and mission are published this month in a dedicated issue of the journal Astronomy and Astrophysics. At its 105th meeting on October 6, 2003, ESA's Science Programme Committee unanimously decided to extend the Integral mission until December 2008. The International Gamma Ray Astrophysics Laboratory (InteGRAL) is the first space observatory that can simultaneously observe celestial objects in gamma rays, X-rays and visible light. Integral was launched on a Russian Proton rocket on October 17, 2002 into a highly elliptical orbit around Earth. Its principal targets include regions of the galaxy where chemical elements are being produced and compact objects, such as black holes. The SPI spectrometer on board Integral measures the energy of incoming gamma rays with extraordinary accuracy. It is more sensitive to faint radiation than any previous gamma ray instrument and allows the precise nature of gamma ray sources to be determined. SPI's Principal Investigators are: J.-P. Roques, (CESR Toulouse, France), V. Schoenfelder (MPE Garching, Germany).
First supernovae seeded universe with stuff of life
HARVARD-SMITHSONIAN
CENTER FOR ASTROPHYSICS NEWS RELEASE
Posted: September
18, 2003
The early universe was a barren wasteland of hydrogen, helium, and a touch of lithium, containing none of the elements necessary for life as we know it. From those primordial gases were born giant stars 200 times as massive as the Sun, burning their fuel at such a prodigious rate that they lived for only about 3 million years before exploding.
(Vedi
figura qui sopra)-In
the early universe, small protogalaxies clustered together into vast filamentary
structures. Within these glowing galactic building blocks, supernovae exploded
like firecrackers as the first, "greatest generation"
of stars rapidly used up their fuel and died. Credit:
Christine Lafon (CfA), Volker Springel (Max
Planck Institute for Astrophysics), and Lars Hernquist (CfA).
Those explosions spewed elements like carbon, oxygen
and iron into the void at tremendous speeds. New simulations
by astrophysicists Volker
Bromm (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics),
Naoki Yoshida
(National
Astronomical Observatory of Japan)
and Lars Hernquist (Cfa)
show that the first, "greatest generation" of stars
spread incredible amounts of such heavy elements across thousands of light-years
of space, thereby seeding the cosmos with the stuff of life. This research
will be published in an upcoming issue of The
Astrophysical Journal Letters. We were surprised by how violent
the first supernova explosions were. A universe that was
in a pristine state of tranquility was rapidly and irreversibly transformed
by a colossal input of energy and heavy elements, setting the stage for the
long cosmic evolution that eventually led to life and intelligent beings like
us. Approximately 200 million years after the Big
Bang, the universe underwent a dramatic burst of star formation.
Those first stars were massive and fast-burning, quickly fusing their hydrogen
fuel into heavier elements like carbon and oxygen.
Nearing the end of their lives, desperate for
energy, those stars burned carbon and
oxygen to form
heavier and heavier elements until reaching the end of the line with
iron. Since iron cannot be fused to create energy,
the first stars then exploded as supernovae, blasting the elements that they
had formed into space. Sach of those first giant stars converted about half
of its mass into heavy elements, much of it iron. As a result, each supernova
hurled up to 100 solar masses of iron into the interstellar
medium. The death throes of each star added to the interstellar bounty. Hence,
by the remarkably young age of 275 million years, the universe
was substantially seeded with metals. That seeding
process was aided by the structure of the infant universe, where small protogalaxies
less than one-millionth the mass of the Milky Way crammed together like people
on a crowded subway car. The small sizes of and distances
between those protogalaxies allowed an individual supernova to rapidly seed
a significant volume of space. Supercomputer
simulations by Bromm, Yoshida,
and Hernquist showed that the most energetic supernova explosions
sent out shock waves that flung heavy elements up to 3,000 light-years
away. Those shock waves swept huge amounts of
gas into intergalactic space, leaving behind hot "bubbles"
and triggered new rounds of star formation.
Today this is a fascinating theory, based on
our best understanding of how the first stars worked. In a
few years the James Webb Space
Telescope, the successor to the Hubble
Space Telescope, we should be able to
see these first supernovae and
test Volker's ideas. Stay tuned
! Lars Hernquist notes that the second generation of stars
contained heavy elements from the first generation - seeds from which rocky
planets like Earth could grow. Without that first, 'greatest generation'
of stars, our world would not exist. Headquartered in Cambridge, Mass.,
the Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics
is a joint collaboration between the Smithsonian Astrophysical Observatory
and the Harvard College Observatory. CfA
scientists, organized into six research divisions, study the origin, evolution
and ultimate fate of the universe.
Relics from the End of the Dark Ages: Formation of the First Globular Clusters
(*)-Audio requires RealPlayer by RealNetworks.
(*)-Begin Web-Cam and audio for the whole talk: high bandwidth or medium bandwidth.
(*)-Or, begin audio only for the whole talk: high bandwidth or low bandwidth. (Or download the whole audio file.)
Volker Bromm (CFA)
24.09.2003 Waiting for a supernova
HUBBLE EUROPEAN SPACE
AGENCY INFORMATION CENTRE RELEASE
Posted: September 24,
2003
(Vedi figura qui sopra)-Credit: European Space Agency and Stephen Smartt (University of Cambridge)
A team of European astronomers is using the NASA/ESA Hubble Space Telescope to look back in time. They have imaged the spiral galaxy NGC 3982 and hundreds of other galaxies in the hope that one of the millions of stars in these images will some day explode as a supernova. They can then look back and pinpoint the exact star that has exploded. Only two such supernova 'mother stars' have ever been identified. The fantastic resolution of the Hubble Space Telescope allows individual massive stars in other galaxies to be detected. A team from Cambridge and Trieste :-) have used Hubble and ESO's Very Large Telescope to image NGC 3982 and several hundred other nearby galaxies in the hope that a few of the stars in these images will explode as supernovae in the future. When a star of more than 10 times the mass of our Sun reaches the end of its nuclear fuel reserve, it can no longer produce enough energy to keep it from collapsing under its own immense weight. The core of the star collapses, and the outer layers are ejected in a fast-moving shock wave.
Spiral Galaxy NGC 3982 (= H IV.62), type SAB(r)b (Sb), in Ursa Major
Right Ascension | 11 : 56.5 (h:m) |
---|---|
Declination | +55 : 08 (deg:m) |
Distance | 60000 (kly) |
Visual brightness | 11.8 (mag) |
Apparent dimension | 2.3x2.0 (arc min) |
These supernova explosions are at the heart of our understanding of the evolution of galaxies and the formation of the chemical elements in the Universe. Yet astronomers have been able to identify only two stars that later exploded as supernovae with any confidence. Supernovae have many different characteristics and understanding exactly which type of star produces which kind of supernova is a fundamental challenge. To find these supernova 'mother stars', the team has undertaken this intensive study of the nearby Universe and is now playing a waiting game. It appears that typical spiral galaxies produce one supernova roughly every 100 years and so the team has to study a large number of galaxies to stand a chance of being lucky enough to catch a star before it destroys itself and becomes either a neutron star or a black hole. By using the most powerful telescopes both in space and on the ground to take images at different optical and infrared wavelengths, the temperature, luminosity, radius and mass of the stars that later explode can be estimated. This will allow astronomers to see exactly which types of stars produce supernovae and to test if their theories for the origins of these cosmic explosions are correct. The beautiful galaxy NGC 3982 is a typical spiral galaxy and looks just as our own galaxy, the Milky Way, would if we could view it face on. It harbours a huge black hole at its core and has massive regions of star formation in the bright blue knots in the spiral arms. Supernovae are most likely to be found within these energetic regions. This colour image is composed of three different exposures with Hubble's Wide Field and Planetary Camera 2 [Wide Field and Planetary Camera 2 (FLASH-MX)] through a wide blue filter (450 seconds), a wide green filter (55000 seconds) and a wide red filter (25000 seconds). The team is composed of Stephen J.Smartt, Justyn R.Maund, Gerry F.Gilmore (all University of Cambridge) and Massimo Manzelle (Trieste Observatory).
30.01.2004 La progenitrice di una supernova
La scoperta conferma gli attuali modelli di evoluzione stellare. Grazie a un colpo di fortuna, alcuni astronomi hanno identificato la stella che la scorsa primavera è esplosa dando origine a una distante supernova. La scoperta conferma perfettamente la teoria prevalente, secondo cui il tipo di supernova più comune nell'universo è prodotto dagli spasmi della morte di stelle rosse supergiganti fredde. Tuttavia, la stella appena scoperta è sorprendentemente piccola. L'unico modo per verificare le teorie sulle supernove è quello di scoprire che cosa le ha fatte esplodere. Noi astrofisici cerchiamo di farlo esaminando vecchie fotografie alla ricerca delle stelle nell'esatta posizione della supernova. Questo però non è mai stato possibile nella nostra galassia, la Via Lattea, dove non si verifica una supernova da secoli, mentre le stelle progenitrici delle supernove più distanti sono visibili a malapena nelle fotografie più vecchie. Come conseguenza, finora esistono soltanto due supernove di cui si è trovato il progenitore. La supernova 2003gd, al contrario, è stata una comunissima esplosione di tipo II, che si ritiene essere dovuta al collassamento del nucleo di una stella massiva che ha esaurito il combustibile nucleare. Era stata scoperta il 12 giugno 2003 nella galassia a spirale nota come M74, a circa 30 milioni di anni luce nella costellazione dei Pesci. Ora un team guidato da Stephen Smartt dell'Università di Cambridge ha identificato la stella che le ha dato origine. Gli scienziati hanno scoperto che, per pura coincidenza, M74 era stata fotografata in ogni dettaglio meno di un anno prima dell'esplosione sia dal telescopio spaziale Hubble sia dal telescopio Gemini North di Mauna Kea, alle Hawaii. In un articolo pubblicato sul numero del 23 gennaio della rivista "Science", gli astronomi spiegano che la stella progenitrice di SN 2003gd era una stella supergigante arancione-rossa, circa otto volte più pesante e 20.000 volte più luminosa del nostro Sole. La scoperta conferma direttamente i modelli di evoluzione stellare, anche se per una supernova la stella presenta una massa molto modesta.
29.07.2004 Supernova Launched Microquasar on Space Trip
Map of radio emissions from a microquasar, believed to be powered by a black hole swallowing a companion star.
Astronomers say a supernova explosion blasted a microquasar on a whirlwind trip that carried it 130 light-years away from its star cluster home about 1.7 million years ago. By backtracking the microquasar's 17-mile (23-kilometer) per second voyage through space, astronomers connected it to a parent star cluster some 7,500 light-years away from Earth in the constellation Cassiopeia. One light-year is the distance light travels in a year, about 6 trillion miles (9 trillion kilometers). The find is the first time researchers have been able to pin down the origins of a fast-moving microquasar. Microquasars are miniature versions of their bigger, brighter quasar cousins usually found at the center of galaxies. Like their larger counterparts, microquasars emit X-rays and spew jets of subatomic particles, and are thought to be fed by a black hole or neutron star stripping material away from its stellar companion. Astronomers connected their microquasar, LSI +61 303, to the star cluster by analyzing its component parts, a normal star about 14 times as massive as the Sun and an object that is either a black hole or dense neutron star weighing about two solar masses. The characteristics of the normal star, researchers said, matched those of the parent star cluster, known as IC 1805. Studying this system and hopefully others like it that may be found will help us to understand both the evolution of stars before they explode as supernovae and the physics of the supernova explosions themselves. The research will appear in the Aug. 1 issue of the journal Astronomy & Astrophysics.
NOTE(1): microquasar: An object of stellar mass that displays in miniature some of the properties of quasars, including strong emission across a broad range of wavelengths from radio wave to X-ray, rapid variability in X-rays, and radio jets. A microquasar consists of a binary system in which a normal star orbits around, and loses matter to, a nearby compact object, either a black hole or a neutron star. The lost matter enters a fast-spinning accretion disk, is heated to millions of degrees, and then either falls onto the compact object or is ejected as a bipolar flow. A dozen or so microquasars have been found in the Milky Way Galaxy. One of them, known as GRS 1915+105, lies 40,000 light-years away in Aquila and was discovered in 1994 by the GRANAT X-ray satellite. It consists of an ordinary star with about the same mass as the Sun orbiting around the heaviest stellar black hole found to date, with a mass of 14 Msun. In its year of discovery, it was observed to shoot out material with one-third the mass of the Moon in opposite directions at 92% of the speed of light. Another microquasar, LS 5039, is much closer, at a distance of only 9,100 light-years, has twin radio-bright jets, each about 2.6 billion km long, but is surprisingly dim in X-rays, suggesting that future searches might reveal many more such X-ray-dim objects. If so, it may be that microquasars are a substantial, if not dominant, source of high-energy particles and radiation in the Galaxy.
NOTE(2): X-ray binaries: X-ray binaries are a class of binary stars that are very luminous in X-rays. The X-rays are produced by matter falling from one component (usually a relatively normal star) to the other component, which is a neutron star or a black hole. The infalling matter releases gravitational potential energy, up to several tens of per cent of its rest mass as X-rays. (Hydrogen fusion releases about 0.7 per cent of rest mass).
Scientists watch neutron star
explosion in real time
NASA-GSFC NEWS RELEASE
Posted: February 23, 2004
A neutron star halfway across the Milky Way galaxy is ready for its close-up. A rare and massive explosion on this star illuminated the region and allowed scientists to view details never seen before, virtually bringing the scientists to the action occurring just a few miles above the star's surface.
An artist's concept shows the rare explosion on a neutron star, which is the dead core of a massive star. Credit: NASA/Dana Berry.
Scientists at NASA and the Canadian Institute for Theoretical Astrophysics (CITA) report their findings in the current issue of Astrophysical Journal Letters. The action was captured second-by-second in movie-like fashion through a process called spectroscopy with NASA's Rossi X-ray Timing Explorer. A neutron star is the dense, core remains of an exploded star at least eight times more massive than the Sun. The neutron star contains about a sun's worth of mass packed in a sphere only about 10 miles (16 kilometers) in diameter. Often neutron stars are in binary (two-star) systems. Gas from the nearby companion star can funnel towards the neutron star, attracted by the star's strong gravity. The gas spirals toward the neutron star like water going down a drain, forming what scientists call an accretion disk. This is the first time we have been able to watch the inner regions of an accretion disk, in this case literally a few miles from the neutron star's surface, change its structure in real time. Accretion disks are known to flow around many objects in the universe, from newly forming stars to the giant black holes in distant quasars. Details of how such a disk flows could only be inferred up to now.
An artist's concept of the neutron star surface before the explosion. Credit: NASA/Dana Berry
Under normal conditions, accretion disks appear far too minute to resolve with even the most powerful telescopes. The explosion occurred on a neutron star named 4U 1820-30, 25,000 light years from Earth. It poured out more energy in three hours than the sun does in 100 years. The region was illuminated in such a way, the scientists could see details as fine as the accretion disk buckling from the explosion and then slowly recovering its original form after approximately 1,000 seconds. Such explosions are the result of accretion. As matter from the companion star crashes down on the neutron star, it builds up a 10 to 100 yard layer of material comprised mostly of helium. The fusion of the helium into carbon and other heavier elements releases enormous energy and powers a strong burst of X-ray light, far more energetic than visible light. Such bursts can occur several times a day on a neutron star and last for about 10 seconds. Ballantyne and his colleague, Dr. Tod Strohmayer of NASA's Goddard Space Flight Center in Greenbelt, Md., observed a "superburst". These are much more rare than ordinary, helium-powered bursts and release 1000 times more energy. Scientists say superbursts are caused by a buildup of nuclear ash in the form of carbon from the helium fusion. Current thinking suggests it takes several years for the carbon ash to build up to such an extent that it begins to fuse.
An artist's concept reveals what the surface might look like during the explosion. Credit: NASA/Dana Berry.
The superburst was so bright and long, it acted like a spotlight beamed from the neutron star surface onto the innermost region of the accretion disk. The X-ray light from the burst illuminated iron atoms in the accretion disk, a process called fluorescence. The Rossi Explorer captured the characteristic signature of the iron fluorescence, its spectrum. This, in turn, provided information about the iron's temperature, velocity and location around the neutron star. The Rossi Explorer can get a good measurement of the fluorescence spectrum of the iron atoms every few seconds. Adding up all this information, we get a picture of how this accretion disk is being deformed by the thermonuclear blast. This is the best look we can hope to get, because the resolution needed to actually see this action as an image, instead of spectra, would be a billion times greater than what the Hubble Space Telescope offers. The scientists said the bursting neutron stars serve as a laboratory to study accretion disks, which are seen (but in less detail) throughout the universe around nearby stellar black holes and exceedingly distant quasar galaxies. Stellar black holes with accretion disks do not produce X-ray bursts.
19.09.2004 Dense Matters: Astronomers Peek Inside Neutron Star
Astronomers have snatched a peek at the innards of a neutron star, combining a series of observations to pin down the type of matter squeezed into the ultra-dense stellar ball. The approach is expected to enable future astronomers to gain glimpses of the stuff inside other neutron stars and boost their understanding of matter, energy and the fundamental particles that make up the universe. Neutron stars are a sort of cosmic lab in a sense that the material at their centers is so dense it can't be reproduced on Earth. We can't get a piece of this material and examine it ourselves. About the size of a city, a neutron star is the remnant of an exploded star whose matter is so compressed, the protons and electrons within its atoms fuse into neutrons. A teaspoon of the dense stuff would weigh about a billion tons on Earth. Understanding the internal structure of a neutron star would allow scientists to determine the object's basic properties. Strohmayer's star [Strohmayer, Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics], part of a star system called EXO 0748-676, sits in the southern sky constellation Volans (the Flying Fish) about 30,000 light-years away from Earth. One light-year is the distance light travels in a year, or roughly 6 trillion miles (10 trillion kilometers). The neutron star has a radius of about 7 miles (11.5 kilometers) and a mass about 1.75 times of the Sun. It is also part of a binary system; it strips gas from a companion star and then blows the material outward in repetitive thermonuclear explosions. Strohmayer, an astrophysicist at NASA's Goddard Space Flight Center in Greenbelt, Maryland, studied the neutron star with colleague and graduate student Adam Villarreal of the University of Arizona. The pair presented their research before the High Energy Astrophysics Division of the American Astronomical Society during a meeting last week in New Orleans.
Peering inside
The relationship between the size and heft of the EXO 0748-676 neutron star was a critical tool for researchers trying to determine is matter makeup. Knowing the mass and radius of these objects tells about the properties of matter inside the star, adding that the relationship between the two quantities can describe a star's internal pressure and density. It tells you how the particles interact, the forces between fundamental particles and how much you can compress material. But determining the dimensions of a neutron star is challenging. Measuring the radii of these stars is difficult because these things are very small. We can't image them directly. Neutron stars in binary systems like EXO 0748-676 steal matter from their companions, then belch it out in explosions at frequencies related to their spin rates. The stellar burps can be detected by X-ray instruments. Strohmayer and Villarreal used a relationship between their star's spin rate -- 45 times per second -- and the Doppler shift of its emissions to determine its radius, then plugged that number into a mass-radius ratio already known for the object to generate the mass. The result is a detailed description of the state of matter inside a neutron star, where material is packed so tightly the neutrons swirl about in a frictionless superfluid. But the star is apparently not yet compressed to the point that its neutrons are smashed and their quarks -- even tinier subentities -- liberated into a so-called quark star. At this point, it's too much to say a quark star is absolutely ruled out, but we've squeezed out a lot of the parameters.
A wealth of data
One of the foundations for Strohmayer's approach was the availability of two orbiting X-ray facilities, each flush with observations of the EXO 0748-676 system. Strohmayer and Villarreal used the space-based Rossi X-ray Timing Explorer to determine their neutron star's spin frequency, and archived data from the European Space Agency's XMM-Newton satellite for other measurements. It was partly used as a calibration source, where [researchers] stared at it for quite some time. It takes a lot of data to make these measurements, and there have even been more recent observations on the star that researchers are still working with. This neutron star spins quite slowly compared to similar objects -- which can range from 200 to 600 revolutions per second. The leisurely 45-times-per second spin rate made it easier to capture the neutron star's emissions and split it into a spectra, much like visible light is separated in a prism. Analysis of a spectra yields insight into the material that emitted the various wavelengths. Strohmayer hopes to refine and extend the method. We hope to do that and perhaps expand the number of neutron stars per spin frequency. But I think we can do a little better with [the current star's radius], so we'll do a little fine tuning.
DIGRESSIONE
EXOTIC INNARDS OF A NEUTRON STAR REVEALED IN A SERIES OF EXPLOSIONS
November 06, 2002
Amid the fury of 28 thermonuclear blasts on a neutron star's surface, scientists using the European Space Agency's (ESA) XMM-Newton X-ray satellite have obtained a key measurement revealing the nature of matter inside these enigmatic objects. The result, capturing for the first time the ratio between such an ultra-dense star's mass and radius in an extreme gravity environment, is featured in the November 7 issue of Nature. Dr. Jean Cottam of NASA's Goddard Space Flight Center in Greenbelt, Md., leads this international effort. The neutron star -- the core remains of a star once bigger than the Sun yet now small enough to fit within the Washington Beltway -- contains densely packed matter under forces that perhaps existed at the moment of the Big Bang but which cannot be duplicated on Earth. The contents offer a crucial test for theories describing the fundamental nature of matter and energy. Cottam and her team probed the neutron star's interior by measuring for the first time how light passing through the star's half-inch atmosphere is warped by extreme gravity, a phenomenon called the gravitational redshift. The extent of the gravitational redshift, as predicted by Einstein, depends directly on the neutron star's mass and radius. The mass-to-radius ratio, in turn, determines the density and nature of the star's internal matter, called the equation of state. It is only during these bursts that the region is suddenly flooded with light and we were able to detect within that light the imprint, or signature, of material under extreme gravitational forces. The neutron star is part of a binary star system named EXO 0748-676, located in the constellation Volans, or Flying Fish, about 30,000 light-years away in the Milky Way galaxy, visible in southern skies with a large backyard telescope. Scientists estimate that neutron stars contain the mass of about 1.4 Suns compacted into about a 10-mile-wide sphere (16 kilometers). At such density, all the space is squeezed out of the atoms inside the neutron star, and protons and electrons squeeze into neutrons, leaving a neutron superfluid, a liquid that flows without friction. By understanding the precise ratio of mass to radius, and thus pressure to density, scientists can determine the nature of this superfluid and speculate on the presence of exotic matter and forces within -- the type of phenomena that particle physicists search for in earthbound particle accelerators. Today's announcement states that EXO 0748-676's mass-to-radius ratio is 0.152 solar masses per kilometer, based on a gravitational redshift measurement of 0.35. This provides the first observational evidence that neutron stars are indeed made of tightly packed neutrons, as predicted by theory estimating mass-radius, density-pressure ratios. Unlike the Sun, with an interior well understood, neutron stars have been like a black box. We have bored our first small hole into a neutron star. Now theorists will have a go at the little sample we have offered them. We have now established a means to probe the bizarre interior of a 10-mile-wide chunk of neutrons thousands of light-years away -- based on gravitational redshift. With the fantastic light-collecting potential of XMM-Newton, we can measure the mass-to-radius ratios of other neutron stars, perhaps uncovering a quark star. In a quark star, which is denser than a neutron star and has a different mass-to-radius ratio, neutrons are squeezed so tightly they liberate the subatomic quark particles and gluons that are the building blocks of atomic matter. To obtain its measurement, the team needed the fantastic radiance provided by thermonuclear bursts, which illuminate matter very close to the neutron star surface where gravity is strongest. The team spotted the 28 bursts during a series of XMM-Newton observations of the neutron star totaling 93 hours. There are dozens of known binary systems with neutron stars, like EXO 0748-676, where such bursting is seen several times a day, the result of gas pouring onto the neutron star from its companion star. ESA's XMM-Newton was launched in December 1999. NASA helped fund mission development and supports guest observatory time. Goddard Space Flight Center hosts the U.S. guest visitor-support center. Jean Cottam joins Goddard through a grant from the National Research Council.
FINE DIGRESSIONE
12.09.2004 L'equazione di stato di una stella di neutroni
La stella del sistema EXO 0748-676 ha una massa quasi doppia di quella del Sole. Un team di astrofisici ha ottenuto la miglior misurazione mai effettuata delle dimensioni e della massa di una stella di neutroni, un oggetto estremamente denso che contiene la materia più strana e rara dell'universo. Il risultato potrebbe condurre a una miglior comprensione dei mattoncini da costruzione della natura - protoni, neutroni e i loro quark costituenti - quando vengono compressi a una densità migliaia di miliardi di volte superiore a quella della Terra. Tod Strohmayer del Goddard Space Flight Center della NASA e Adam Villareal dell'Università dell'Arizona hanno presentato i propri risultati a un convegno dell'American Astronomical Society a New Orleans. I ricercatori stimano che la stella di neutroni studiata sia quasi 1,8 volte più massiva del Sole - leggermente più di quanto ci si aspettava - con un raggio di circa 11,5 chilometri. L'oggetto fa parte del sistema stellare binario EXO 0748-676, situato a circa 30.000 anni luce di distanza nella costellazione del pesce volante (Volans). Gli scienziati hanno usato i dati del Rossi X-ray Timing Explorer della NASA per misurare la velocità di rotazione della stella di neutroni. La velocità costituiva il fattore incognito necessario per stimare la dimensione e la massa totale della stella. I risultati sono in accordo con le stime basate su osservazioni di un satellite dell'ESA nel 2002. Il rapporto fra massa e raggio definisce le relazioni fra densità interna e pressione nella stella di neutroni, la cosiddetta equazione di stato. Da tempo gli astrofisici cercavano di calcolare l'equazione di stato della materia delle stelle di neutroni. Questi nuovi risultati si avvicinano a questo obiettivo e ci consentiranno di determinare che tipo di materia esiste all'interno della stella, in modo da mettere alla prova le teorie che descrivono la natura fondamentale della materia e dell'energia e la forza delle interazioni nucleari.
24.09.2003 Una conferma per l'energia oscura
La luce delle supernove di tipo 1A mostra che l'espansione dell'universo non sta rallentando. Le misure delle esplosioni di 11 stelle sparse per tutto l'Universo visibile, effettuate con il telescopio spaziale Hubble, confermano precedenti studi, basati su misure da Terra, che avevano fornito le prime prove che l'espansione dell'universo non sta rallentando, ma sta accelerando sempre di più. Il nuovo studio, disponibile online e di prossima pubblicazione sulla rivista "Astrophysical Journal", potrebbe anche fornire nuove interessanti informazioni sulla natura della misteriosa forza repulsiva, chiamata "energia oscura", che potrebbe essere la causa di questo fenomeno. Per quanto riguarda il destino finale dell'Universo, la conclusione più immediata è che nei prossimi miliardi di anni diventerà sempre più rarefatto, freddo e noioso. Sono state misurate le curve di luce e gli spettri di un particolare tipo di esplosioni stellari, quelle delle supernove di tipo 1A, che si verificano in sistemi stellari binari formati da una stella normale e da una nana bianca. La nana bianca attrae materia dalla sua compagna fino a raggiungere una dimensione critica, dopo di che si consuma in una gigantesca esplosione termonucleare. Dalla luminosità di una supernova di tipo 1A è possibile stimare la sua distanza, anche se si trova lontana miliardi di anni luce. In questo modo, abbiamo potuto misurare la velocità alla quale l'universo si espande. Il fatto che le supernove siano più fioche e vecchie di quanto ci si attendeva basandosi sul loro redshift indica che l'Universo si sta espandendo a una velocità crescente. La nostra scoperta, fatta indipendentemente anche da un altro gruppo, l'High-Z Supernova Research Team, rafforza le scoperte iniziali di cinque anni fa: l'espansione dell'universo non sta affatto rallentando come ci si poteva attendere, ma sta accelerando.
05.07.2004 Studiare l'energia oscura in laboratorio
Le giunzioni di Josephson riveleranno se c'è un legame con l'energia del vuoto [VEDI anche: SQUID]. Le proprietà della misteriosa "energia oscura" sarebbero misurabili anche in laboratorio. Un esperimento relativamente semplice, basato sui dispositivi superconduttori noti come giunzioni di Josephson, potrebbe mostrare se tutta o parte dell'energia oscura nell'Universo è dovuta alle fluttuazioni quantistiche del vuoto. L'ipotesi è stata descritta in un articolo di Christian Beck della Queen Mary University di Londra e Michael Mackey della McGill University di Montreal, disponibile online: arxiv.org/abs/astro-ph/0406504. Secondo i fisici quantistici, il vuoto non sarebbe affatto tale come si ritiene nella fisica classica, ma sarebbe caratterizzato da fluttuazioni di "punto zero". Queste fluttuazioni sono una conseguenza del principio di indeterminazione e forniscono al vuoto una struttura che si manifesta in molti modi differenti, per esempio con l'effetto Casimir. Numerose osservazioni astrofisiche hanno suggerito che almeno il 73 per cento dell'Universo è costituito da energia oscura, una forza gravitazionale repulsiva che provoca un'accelerazione dell'espansione dell'Universo. L'energia del vuoto è uno dei candidati per spiegare cosa sia l'energia oscura, ma la quantità di energia nel vuoto prevista dalla teoria è di circa 120 ordini di grandezza superiore a quella indicata dalle osservazioni. Nel 1982, Roger Koch e colleghi del Lawrence Berkeley National Laboratory avevano misurato lo spettro di frequenze delle fluttuazioni di corrente in circuiti contenenti giunzioni di Josephson. Secondo Beck e Mackey, le fluttuazioni di punto zero misurate da Koch raffreddando il sistema e riducendo al minimo le vibrazioni termiche implicano una densità non nulla per l'energia del vuoto. Questo valore NON può eccedere il valore della densità di energia oscura nell'Universo. I due scienziati prevedono che futuri esperimenti con una nuova generazione di gunzioni di Josephson, in grado di lavorare a frequenze più elevate, potranno mostrare se l'energia oscura è effettivamente legata all'energia del vuoto.
Einstein
may have been right about dark energy after all
SPACE TELESCOPE SCIENCE INSTITUTE NEWS RELEASE
Posted: February 21, 2004
The good news from NASA's Hubble Space Telescope is that Einstein was right - maybe. A strange form of energy called "dark energy" is looking a little more like the repulsive force that Einstein theorized in an attempt to balance the universe against its own gravity. Even if Einstein turns out to be wrong, the universe's dark energy probably won't destroy the universe any sooner than about 30 billion years from now, say Hubble researchers.
These are images of three of the most distant supernovae known, discovered using the Hubble Space Telescope as a supernova search engine. Credit: NASA and A Riess (STScI).
Right now we're about twice as confident than before that Einstein's cosmological constant is real, or at least dark energy does not appear to be changing fast enough (if at all) to cause an end to the universe anytime soon. Riess used Hubble to find nature's own "weapons of mass destruction" -very distant- supernovae that exploded when the universe was less than half its current age. The apparent brightness of a certain type of supernova gives cosmologists a way to measure the expansion rate of the universe at different times in the past. A.Riess and his team joined efforts with the Great Observatories Origins Deep Survey (GOODS) program, the largest deep galaxy survey attempted by Hubble to date, to turn the Space Telescope into a supernova search engine on an unprecedented scale. In the process, they discovered 42 new supernovae in the GOODS area, including 6 of the 7 most distant known. Cosmologists understand almost nothing about dark energy even though it appears to comprise about 70 percent of the universe. They are desperately seeking to uncover its two most fundamental properties: its strength and its permanence. In a paper to be published in the Astrophysical Journal, A.Riess and his collaborators have made the first meaningful measurement of the second property, its permanence. Currently, there are two leading interpretations for the dark energy, as well as many more exotic possibilities. It could be an energy percolating from empty space as Einstein's theorized "cosmological constant," an interpretation which predicts that dark energy is unchanging and of a prescribed strength. An alternative possibility is that dark energy is associated with a changing energy field dubbed "quintessence". This field would be causing the current acceleration - a milder version of the inflationary episode from which the early universe emerged.
This illustration shows possible fates of the universe. Credit: NASA and A. Feild (STScI).
When astronomers first realized the universe was accelerating, the conventional wisdom was that it would expand forever. However, until we better understand the nature of dark energy -its properties- other scenarios for the fate of the universe are possible. If the repulsion from dark energy is or becomes stronger than Einstein's prediction, the universe may be torn apart by a future "Big Rip," during which the universe expands so violently that first the galaxies, then the stars, then planets, and finally atoms come unglued in a catastrophic end of time. Currently this idea is very speculative, but being pursued by theorists. At the other extreme, a variable dark energy might fade away and then flip in force such that it pulls the universe together rather then pushing it apart. This would lead to a "big crunch" where the universe ultimately implodes. This looks like the least likely scenario at present Understanding dark energy and determining the universe's ultimate fate will require further observations. Hubble and future space telescopes capable of looking more than halfway across the universe will be needed to achieve the necessary precision. The determination of the properties of dark energy has become the key goal of astronomy and physics today. The Space Telescope Science Institute (STScI) is operated by the Association of Universities for Research in Astronomy, Inc. (AURA), for NASA, under contract with the Goddard Space Flight Center, Greenbelt, MD. The Hubble Space Telescope is a project of international cooperation between NASA and the European Space Agency (ESA).
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