MAPPA della PAGINA: LA BIOASTRONOMIA... Agg. 20.09.2004
L'astronomia del futuro: la BIOASTRONOMIA
Si può affermare che il Congresso di Bioastronomia, organizzato dal CNR e tenutosi a Capri nel Luglio 1996, a cui hanno partecipato i tre premi Nobel, Christian de Duve (Biologia), Manfred Eigen (Chimica) e Charles Townes (Fisica), ha aperto nuove frontiere per l'Astronomia moderna. Infatti la Bioastronomia, in cui convogliano tutte le ricerche interessate all'origine, all'evoluzione e all'espansione della vita nell'Universo, è l'unico campo scientifico multidisciplinare il cui filone di ricerca risulta inesauribile dovendosi confrontare con dei temi che costituiscono gli elementi di un mosaico che forse non verrà mai ultimato. Gli ultimi cinque anni sono stati estremamente fruttiferi per la ricerca delle origini in quanto si sono susseguiti eventi celesti e scoperte che hanno portato alla conferma di ipotesi avanzate per molti anni, ma mai confermate. Nel Luglio del 1994, una cometa, la Shoemaker-Levy, spaccatasi in 21 pezzi per effetto del campo gravitazionale gioviano, è piombata nell'emisfero meridionale di Giove dando luogo ad uno spettacolo astronomico che ha la probabilità di ripetersi forse fra un milione di anni. I 21 nuclei con diametri variabili fra 500 metri e un chilometro sono esplosi nel giro di 7 giorni ad una profondità di circa 30 km nell'atmosfera gioviana, liberando un'energia equivalente a 100 milioni di megatoni di TNT (Hiroshima 15 chilotoni) ovvero una potenza d'urto di 10000 volte superiore a quella di tutto l'arsenale nucleare terrestre. Al pianeta Giove, la cui massa è 318 volte quella terrestre e la cui atmosfera è in prevalenza costituita da metano, ammoniaca ed idrocarburi vari, questi impatti non hanno creato dissesti planetari. Ma le tracce lasciate dalle esplosioni ci hanno permesso di stabilire per la prima volta ciò che succederebbe sul nostro pianeta in seguito ad un impatto catastrofico da parte di una cometa o di un asteroide. La cometa, essendo un agglomerato poroso di ghiacci e di polvere, difficilmente riuscirebbe a "bucare" l'atmosfera terrestre (e ciò lo abbiamo visto su Giove), ma esplodendo in seguito all'attrito con i gas atmosferici libererebbe tanta energia cinetica da surriscaldare tutta l'atmosfera di circa 200 gradi. Ciò porterebbe inevitabilmente all'estinzione di tutte le specie viventi sulla crosta terrestre, mentre sopravviverebbero quelle oceaniche. Ciò è successo molte volte nel passato, anche se non si è ancora certi se l'estinzione verificatasi nel cretaceo terziario, 65 milioni di anni fa, sia stata dovuta a comete o asteroidi. Sembra che le estinzioni dovute a eventi catastrofici sul nostro pianeta siano un fenomeno periodico, con una periodicità intorno ai 26 milioni di anni. Si è cercato di dare una spiegazione a tale fenomeno supponendo che circa 100 miliardi di comete siano in orbita di parcheggio a circa 50000 unità astronomiche dal Sole nella cosiddetta nube di Oort, un conglomerato sferico di comete che circonda il Sistema Solare fin dalla sua origine, circa 4,6 miliardi di anni fa. Per ragioni sconosciute, quali il passaggio periodico di una stella compagna del Sole o il passaggio del Sistema Solare nel suo moto di rivoluzione intorno al centro della Galassia attraverso una nube interstellare, sciami di comete vengono catapultate all'interno del Sistema Solare stesso, bombardando i pianeti e provocando cataclismi cosmici. In ogni caso le osservazioni effettuate su Giove hanno permesso di capire non solo gli effetti catastrofici delle comete, ma anche il loro fondamentale contributo bioastronomico. Infatti sembra ormai assodato che senza l'apporto da parte delle comete sul nostro pianeta di acqua e di molecole organiche prebiotiche, la vita non si sarebbe potuta evolvere. Infatti, fra 4,5 e 4 miliardi di anni fa, sciami di comete provenienti prevalentemente dal Sistema Solare esterno in via di assestamento hanno depositato sul nostro pianeta tutta l'acqua necessaria alla formazione degli oceani e tutti i composti del carbonio necessari allo sviluppo di aminoacidi, acidi nucleici, proteine, RNA e quindi alla vita. Il più grande quesito della Bioastronomia (o dell'Esobiologia) rimane quello del passaggio da materia organica inerte a materia organica vivente, cioè autoriproducente. I famosi esperimenti di Urey e Miller negli anni '50 hanno dimostrato che una soluzione liquida di molecole organiche semplici si trasforma in catene di aminoacidi nel giro di pochi secondi se sottoposta a scariche elettriche o ad altre forme di alta energia. I risultati di Giove hanno dimostrato, anche grazie alla scoperta dell'acqua e dell'effetto MASER (Microwave Amplification by Stimulated Emission of Radiation) ad essa associato scoperta da noi effettuata con il radiotelescopio del CNR di Medicina, Bologna (C.Batalli Cosmovici, M.Manzelle, S.Montebugnoli, A.Orfei) che sia l'acqua sia le molecole organiche non vengono distrutte durante gli impatti cometari, bensì arricchiscono e trasformano la chimica originaria dell'atmosfera planetaria.
Scoperta
della linea MASER
durante l'impatto del frammento "E"
della cometa Shoemaker-Levy con Giove.
1)-la ricerca di eventuali forme prebiotiche o biotiche presenti o estinte su altri pianeti solari tramite l'esplorazione spaziale automatica ed umana,
2)-la ricerca di pianeti extrasolari che potrebbero ospitare la vita,
3)-la ricerca radioastronomica di forme intelligenti tecnologicamente evolute e, quindi, in grado di comunicare via radio.
Per il primo punto, Marte, Europa e Titano sono i pianeti e i satelliti solari più interessanti e per i quali sono in corso o in via di progettazione missioni spaziali automatiche. Marte è il candidato numero uno, non solo per la sua maggiore somiglianza alla Terra, ma anche per via del quesito lasciato aperto dalla scomparsa dell'acqua dalla sua superficie e dal ritrovamento di un piccolo meteorite proveniente da esso e caduto nell'Antartide 13000 anni fa. L'analisi di questo meteorite, denominato AL84001, ha rilevato forme ovulari e vermiformi della grandezza di pochi milionesimi di millimetro che, a detta degli scienziati della NASA, possono essere derivate da passate attività biologiche sul pianeta rosso. Tale ipotesi è stata fortemente contestata dai britannici che hanno invece tentato di dimostrare trattarsi di cristallizzazioni di idrocarburi policiclici aromatici (PAH) come quelli rinvenuti in molti meteoriti non marziani. La risposta definitiva potrà essere fornita soltanto dalle molteplici missioni verso Marte -attualmente in atto- che caratterizzeranno la ricerca spaziale dei prossimi vent'anni. L'interesse destato della recente scoperta indiretta dell'acqua su Europa, dedotta delle fotografie geologiche del satellite, ottenute a grande risoluzione dalla sonda Galileo, farà sì che la NASA invii una sonda sul satellite in grado di verificare in situ la consistenza di queste osservazioni. Verso Titano invece è già in viaggio la sonda Cassini che nel luglio 2004 farà scendere tramite paracadute un minilaboratorio nell'atmosfera e sulla superficie del pianeta in grado di eseguire una dettagliata analisi chimica e rendere nota la capacità evolutiva del satellite che sembra trovarsi allo stato in cui si trovava la Terra 3-4 miliardi di anni fa. NOTA: With Cassini-Huyygens finally on its seven-year route toward the vast Saturnian system, scientists could finally enjoy the main course. Starting in July 2004, one of the most sophisticated spacecraft ever sent into space will bring them a nine-course meal: a feast of images and data that will answer many questions about this mysterious corner of our solar system. Bisogna qui ricordare che le prime specie viventi (procarioti) fossilizzate trovate in Australia datano 3.6 miliardi di anni. Per il secondo punto, la scoperta indiretta tramite misure di effetto Doppler radiale di circa 110 pianeti extrasolari rende ottimistica la probabilità della scoperta di altri centinaia di nuovi pianeti nei prossimi anni.
DIGRESSIONE...
19.02.2004 Alla scoperta di Titano
La luna di Saturno potrebbe rivelarsi un laboratorio ideale di oceanografia e meteorologia. Dopo un viaggio interplanetario durato 7 anni, a luglio la navetta Cassini della NASA raggiungerà Saturno e comincerà quella che promette di essere una delle missioni più interessanti nella storia dell'esplorazione planetaria. Nel frattempo, dopo anni di lavoro, gli scienziati hanno appena completato i progetti per le osservazioni di Cassini della luna più grande di Saturno, Titano. La navetta lancerà la sonda Huygens dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA), che atterrerà su Titano nel gennaio 2005. La luna, grande quasi come la metà della Terra, è l'unica nel sistema solare ad avere un'atmosfera così spessa. Lo smog ha finora impedito agli scienziati l'osservazione accurata della sua superficie. Titano è un mondo per noi completamente nuovo e probabilmente le prime scoperte ci obbligheranno a modificare alcuni piani. Si pensa che, a causa dell'abbondanza di metano nella sua atmosfera, sulla luna possano esistere idrocarburi liquidi. Le mappe infrarosse prese dal telescopio spaziale Hubble mostrano regioni più luminose e altre più scure sulla superficie di Titano, quest'ultime sono probabilmente dovute a etano e metano liquido. Titano sarà un eccezionale laboratorio per studi di oceanografia e meteorologia.
NOTA: These images show SIMULATED views from the Cassini spacecraft, from several useful points of view which will vary depending on what's happening in the mission. Click on an image to see a full-screen view. These images are updated as circumstances warrant, at least once a day.
Cassini
spacecraft examines high winds on Saturn
NASA/JPL NEWS RELEASE
Posted: March 28, 2004
Credit: NASA/JPL/Space Science Institute
Wind-blown clouds and haze high in Saturn's atmosphere are captured in a movie made from images taken by the Cassini narrow angle camera between Feb. 15 and Feb. 19, 2004. The bright areas in these images represent high haze and clouds near the top of Saturn's troposphere. Cassini has three filters designed to sense different heights of clouds and haze in the planet's atmosphere. Any light detected by cameras using the 889-nanometer filter is reflected very high in the atmosphere, before the light is absorbed. This is the first movie ever made showing Saturn in these near-infrared wavelengths. The images were made using a filter sensitive to a narrow range of wavelengths centered at 889-nanometers, where methane in Saturn's atmosphere absorbs sunlight. In the movie, atmospheric motions can be seen most clearly in the equatorial region and at other southern latitudes. Saturn's equatorial region seems disturbed in the same way that it has been for the past decade, as revealed by observations from NASA's Hubble Space Telescope (HST). Researchers have speculated that the bright cloud patterns there are associated with water-moist convection arising from a deeper atmospheric level where water condenses on Saturn, and rising to levels at or above the visible cloud tops. Close analysis of future data by scientists on the Cassini-Huygens mission should help determine whether this is the case. Saturn's rings are extremely overexposed in these images. Because the range of wavelengths for this spectral filter is narrow, and because most of this light is absorbed by Saturn. The disc of Saturn is inherently faint and the exposures required are quite long (22 seconds). The rings do not strongly absorb at these wavelengths, so they reflect more light and are overexposed compared to the atmosphere. Orbiting moons in the images were manually removed during processing. The movie, consisting of 30 stacked images, spans five days and captures five complete but non-consecutive Saturn rotations. The direction of motion is from left to right. Each 10.6-hour Saturn rotation is evenly sampled by six images. After each rotation sequence, the planet can be seen to grow slightly in the field of view. Cassini was 65.6 million kilometers (40.7 million miles) from Saturn when the images, reduced in scale by a factor of two onboard the spacecraft, were taken. The resulting image scale is approximately 786 kilometers (420 miles) per pixel. The Cassini-Huygens mission is a cooperative project of NASA, the European Space Agency (ESA) and the Italian Space Agency (ASI). The Jet Propulsion Laboratory, a division of the California Institute of Technology in Pasadena, manages the Cassini-Huygens mission for NASA's Office of Space Science, Washington, D.C. The imaging team is based at the Space Science Institute, Boulder, Colorado.
SOI Arrival Geometry
On July 1, 2004 the Cassini spacecraft will arrive at Saturn. This will mark the end of the spacecraft's journey through the Solar System as well as the beginning of its tour of Saturn, its rings, moons, and magnetosphere. Cassini will approach Saturn from below the ring plane. The spacecraft will cross through the large gap between the F-Ring and G-Ring. At this time Cassini will be 158,500 kilometers (98,508 miles) from Saturn's center. This crossing will occur one hour and 52 minutes prior to the spacecraft's closest approach to Saturn. The main engine burn begins shortly after Cassini has crossed above the rings. The burn will begin on July 1, 2004 at 01:12 Coordinated Universal Time (UTC). What does this mean to us on Earth ? The burn is scheduled to last 97 minutes, ending on July 1, 2004 at 02:48 UTC. In order to slow the spacecraft significantly enough to be captured by Saturn's gravity, Cassini's main engine will be turned to face the direction of travel. The resulting thrust from the engine will act as a braking device, which will slow down the spacecraft as it enters Saturn's orbit. The entire burn will last approximately 97 minutes, placing Cassini in a highly elliptical initial orbit. Cassini's closest approach to Saturn during the entire four-year tour will occur during this burn. The spacecraft's distance from Saturn will be 0.3 Saturn Radii (18,000 kilometers or 11,187 miles). Cassini will continue to coast above the rings for approximately one hour and 44 minutes before its descent back through the ring plane. The Saturn Orbit Insertion (SOI) burn is critical to the success of the mission at Saturn. The spacecraft's close proximity to the planet and its rings provide a unique opportunity for an in-depth study of the planet, by utilizing the appropriate instruments onboard the spacecraft to conduct studies in waves, particles and imaging data.
Cassini's
latest image shows bands of clouds and lace
CICLOPS/SPACE SCIENCE NEWS RELEASE
Posted: May 14, 2004
Credit: NASA/JPL/Space Science Institute
As Cassini nears its rendezvous with Saturn, new detail in the banded clouds of the planet's atmosphere are becoming visible. Cassini began the journey to the ringed world of Saturn nearly seven years ago and is now less than two months away from orbit insertion on June 30. Cassini's narrow-angle camera took this image on April 16, 2004, when the spacecraft was 38.5 million kilometers (23.9 million miles) from Saturn. Dark regions are generally areas free of high clouds, and bright areas are places with high, thick clouds which shield the view of the darker areas below. A dark spot is visible at the south pole, which is remarkable to scientists because it is so small and centered. The spot could be affected by Saturn's magnetic field, which is nearly aligned with the planet's rotation axis, unlike the magnetic fields of Jupiter and Earth. From south to north, other notable features are the two white spots just above the dark spot toward the right, and the large dark oblong-shaped feature that extends across the middle. The darker band beneath the oblong-shaped feature has begun to show a lacy pattern of lighter-colored, high altitude clouds, indicative of turbulent atmospheric conditions. The cloud bands move at different speeds, and their irregularities may be due to either the different motions between them or to disturbances below the visible cloud layer. Such disturbances might be powered by the planet's internal heat; Saturn radiates more energy than it receives from the Sun. The moon Mimas (396 kilometers, 245 miles across) is visible to the left of the south pole. Saturn currently has 31 known moons. Since launch, 13 new moons have been discovered by ground-based telescopes. Cassini will get a closer look and may discover new moons, perhaps embedded within the planet's magnificent rings.This image was taken using a filter sensitive to light near 727 nanometers, one of the near-infrared absorption bands of methane gas, which is one of the ingredients in Saturn's atmosphere. The image scale is approximately 231 kilometers (144 miles) per pixel. Contrast has been enhanced to aid visibility of features in the atmosphere. The Cassini-Huygens mission is a cooperative project of NASA, the European Space Agency and the Italian Space Agency. The Jet Propulsion Laboratory, a division of the California Institute of Technology in Pasadena, manages the Cassini-Huygens mission for NASA's Office of Space Science, Washington, D.C. The Cassini orbiter and its two onboard cameras were designed, developed and assembled at JPL. The imaging team is based at the Space Science Institute, Boulder, Colo.
06.04.2004 Navigando su Titano
Grazie ad un modello informatico appena ultimato, l'Agenzia Spaziale Europea (ESA)) ha ora un'idea di quali condizioni troverà ad attenderla la missione Cassini/Huygens, realizzata in collaborazione con la NASA, che in gennaio approderà sulla superficie di Titano, la più grande della lune di Saturno. Anche se sulla questione dura da 25 anni un dibattito astronomico, da Titano dovrebbe arrivare la prima conferma di un vero e proprio oceano extraterrestre. La sua superficie pare infatti coperta al 75 per cento da metano liquido, secondo molte osservazioni radar. Il metano è un gas sulla Terra, ma alle basse temperature di Titano (180 gradi sotto zero) si trova in forma liquida. Due ricercatori dell'ESA, John Zarnecki e Nadeem Ghafoor, hanno messo a punto un modello al computer per simulare il destino della sonda al momento dell'"ammaraggio" sul metano. Secondo questo modello, Huygens verrà sballottato da onde gigantesche ma lentissime, a causa del debole campo gravitazionale della luna. Inoltre, si troverà a navigare in un ambiente di uniforme colore arancione, e potrebbe incontrare grandi iceberg in prossimità dele coste.
Photo: NASA/JPL/Space Science Institute
Cassini has sighted Prometheus and Pandora, the two F-ring-shepherding moons whose unpredictable orbits both fascinate scientists and wreak havoc on the F ring. Prometheus (102 kilometers, or 63 miles across) is visible left of center in the image, inside the F ring. Pandora (84 kilometers, or 52 miles across) appears above center, outside the ring. The dark shadow cast by the planet stretches more than halfway across the A ring, the outermost main ring. The mottled pattern appearing in the dark regions of the image is 'noise' in the signal recorded by the camera system, which has subsequently been magnified by the image processing. The F ring is a narrow, ribbon-like structure, with a width seen in this geometry equivalent to a few kilometers. The two small, irregularly shaped moons exert a gravitational influence on particles that make up the F ring, confining it and possibly leading to the formation of clumps, strands and other structures observed there. Pandora prevents the F ring from spreading outward and Prometheus prevents it from spreading inward. However, their interaction with the ring is complex and not fully understood. The shepherds are also known to be responsible for many of the observed structures in Saturn's A ring. The moons, which were discovered in images returned by the Voyager 1 spacecraft in 1980, are in chaotic orbits--their orbits can change unpredictably when the moons get very close to each other. This strange behavior was first noticed in ground-based and Hubble Space Telescope (HST) observations in 1995, when the rings were seen nearly edge-on from Earth and the usual glare of the rings was reduced, making the satellites more readily visible than usual. The positions of both satellites at that time were different than expected based on Voyager data. One of the goals for the Cassini-Huygens mission is to derive more precise orbits for Prometheus and Pandora. Seeing how their orbits change over the duration of the mission will help to determine their masses, which in turn will help constrain models of their interiors and provide a more complete understanding of their effect on the rings. This narrow angle camera image was snapped through the broadband green spectral filter, centered at 568 nanometers, on March 10, 2004, when the spacecraft was 55.5 million kilometers (34.5 million miles) from the planet. Image scale is approximately 333 kilometers (207 miles) per pixel. Contrast has been greatly enhanced, and the image has been magnified to aid visibility of the moons as well as structure in the rings. The Cassini-Huygens mission is a cooperative project of NASA, the European Space Agency and the Italian Space Agency. The Jet Propulsion Laboratory, a division of the California Institute of Technology in Pasadena, manages the Cassini-Huygens mission for NASA's Office of Space Science, Washington, D.C. The imaging team is based at the Space Science Institute, Boulder, Colo.
Cassini
to examine Saturn's mysterious 'black' moon
NASA-AMES NEWS RELEASE
Posted: June
9, 2004
A NASA Ames planetary scientist is part of the science team that will study the data and images returned this week from the closest-ever flyby of Saturn's moon Phoebe. The spectral data and images obtained from the June 11 flyby will help scientists determine the icy moon's surface composition and properties.
The Cassini spacecraft
is closing in fast on its first target of observation in the Saturn
system: the small, mysterious moon Phoebe, only 220
kilometers (137
miles) across. Left to right, the three
views were captured between June 4 and June
7, from distances ranging from 2.6 million
miles to 1.5 million miles.
Credit: NASA/JPL/Space
Science Institute.
This is a unique opportunity. We've never had a close-up look at an irregular,
low-reflective moon of any planet before, so we are prepared to be surprised.
Dr. Dale Cruikshank, co-investigator for the Cassini
Visual and Infrared Mapping
Spectrometer (VIMS),
an instrument that will measure the chemical signatures of Phoebe's surface,
will study the VIMS high-resolution spectral data to
determine the distribution of recently observed water
ice on Phoebe's surface. He also will use the
data to determine the ability of Phoebe's surface to reflect light (known
as its 'albedo') and the source of Phoebe's mysterious dark color. This
odd moon of Saturn has a little ice and a lot of black material on its surface,
but beyond that, we know very little. Phoebe's surface color appears almost
black when observed by powerful telescopes, scientists say. The moon, which
is about 130 miles in diameter, reflects only 6 percent
of the sunlight it receives. Because of its dark color, and because Phoebe's
orbit is irregular (elliptical,
outside the plane of Saturn's equator and retrograde),
scientists think the moon is probably a captured object, possibly a comet,
asteroid or Kuiper Belt Object
(KBO).
KBOs are lumps of ice, rock and black material in the outer
solar system that were never drawn together by gravity to form a planet.
They are of great interest to scientists because they are believed to be
primordial, which means they probably date back to the formation of the
solar system some 4.6 billion years ago. About half of the comets that occasionally
come near the Earth and sun are KBOs. One theory of Phoebe's
mysterious dark color, which also is shared by the forward face of Iapatus,
another nearby Saturn moon, is that it is due to the abundance
of an organic material called tholin. Tholin is a sticky, waxy, dark red
residue whose tiny particles cause the brownish haze of Saturn's
largest moon, Titan. The tholin that may cover Phoebe
is thought by Cruikshank and others to be abiotic, which
means it is not made from living organisms. Scientists hypothesize the tholin
is a natural by-product of the organic chemistry of the
carbonaceous materials that make up Phoebe.
Comet dust is an example of abiotic organic material. Since its discovery
in 1898, Phoebe
has been of interest to astronomers because it is so different from Saturn's
other large moons. If Cassini
finds that its surface is really made of
carbonaceous organic material,
scientists can use that information to learn
about our solar system's formation
and early history. Phoebe's surface material
may even include amino acids, the building blocks of life. On June
11, the Cassini orbiter will fly within
about 1,200 miles of Phoebe. Data and
images will be returned on June 12.
Cruikshank specializes in icy bodies in the outer solar system and the composition of small satellites, including all the satellites of Saturn. The principal investigator of the VIMS team is Dr. Robert H. Brown of the University of Arizona, Tucson, Ariz. The Cassini-Huygens mission is a cooperative project of NASA, the European Space Agency (ESA) and the Italian Space Agency (ASI). The Jet Propulsion Laboratory (JPL), a division of the California Institute of Technology in Pasadena, manages the Cassini-Huygens mission for NASA's Office of Space Science, Washington. JPL designed, developed and assembled the Cassini orbiter.
16.06.2004 Come si sono formati gli ANELLI di SATURNO
Animation: Saturn's E ring during one Saturnian year (our numerical model). The shadow of Saturn on its inner dense rings shows the direction of the incident sunlight. Particles of three sizes are presented: 1.00 microns (green), 1.04 microns (blue), 1.24 microns (red). The ring components, constituted by the grains of nearly identical sizes, show quite different spatial distribution!
Prima della risposta diretta è opportuno fare una piccola digressione storica. È noto che fu Galileo il primo ad accorgersi, nel 1610, che Saturno era accompagnato da due "gobbe" ai lati opposti del pianeta medesimo, mentre fu C.Huygens che, dopo le sue osservazioni di un sottile braccio da entrambi i lati del disco planetario (1655) e la successiva scomparsa e ricomparsa dello stesso nell'anno successivo, annunciò che si trattava di un anello sottile, piano, non fissato al pianeta ed inclinato rispetto all'eclittica. Nel 1675 G.D.Cassini si rese conto che l'anello era doppio, con una lacuna oscura tra i due (Divisione di Cassini) e, nel 1837, J.Encke scoprì una seconda lacuna (Divisione di Encke) all'interno dell'anello A (il più esterno). L'anno seguente G.Galle scoprì l'anello C all'interno del B. Nel 1895 J.E.Keeler dimostrò che gli anelli possiedono una rotazione differenziale, nel senso che le parti interne ruotano più velocemente di quelle esterne. Non poteva quindi trattarsi di un singolo anello rigido ma, piuttosto, di una miriade di particelle che orbitano singolarmente attorno al pianeta seguendo le leggi di Keplero. A partire dagli anni '60 del secolo scorso sono poi stati via via scoperti altri anelli più deboli (D, E, F e G). In epoca moderna si è inoltre dimostrato che gli anelli sono molto sottili, con spessori che variano da 0,5 a 4 km, mentre la natura corpuscolare dei componenti è stata verificata in occasione di alcune occultazioni stellari, quando si è accertato che la luce delle stelle interessate dal fenomeno non scompariva del tutto. Successivi studi spettroscopici della luce riflessa hanno anche consentito di verificare che le particelle componenti, con diametri compresi fra pochi millimetri ed alcuni metri, sono formate da ghiaccio o sono comunque ricoperte di ghiaccio. Le teorie sulla formazione degli anelli sono essenzialmente due. La prima assume che le particelle si siano condensate laddove si trovavano al tempo in cui si formarono Saturno e gli altri suoi satelliti. Nella seconda si ritiene che essi potrebbero essere il risultato della frantumazione di uno o più corpi di dimensioni maggiori ad opera delle forze mareali esercitate dal pianeta e dai satelliti più massicci, oppure in conseguenza di continue collisioni tra corpi adiacenti. Di certo si sa che Saturno e gli altri grandi pianeti esterni del sistema solare cominciarono a formarsi all'interno di dischi di polvere mediante cattura dei corpi di dimensioni maggiori per cui, alla fine, rimasero ad orbitare solo i frammenti più piccoli che si disposero secondo un sottile strato ruotante. Prova ne è che sono stati scoperti anelli anche attorno a Giove, Urano e Nettuno. Dopo le missioni delle sonde interplanetarie Voyager si è anche compreso che divisioni e lacune si possono essere formate per risonanza orbitale con oggetti massicci che rivolvono all'interno della regione degli anelli. Questa nuova teoria è stata sostenuta dalla scoperta di nuovi satelliti, tra cui i cosiddetti "satelliti pastore" (1980 S26 e 1980 S27), posti all'interno degli anelli medesimi.
NOTA: Risonanza:
la risonanza orbitale è un effetto che si manifesta
quando il rapporto tra i periodi di rivoluzione di due corpi è esprimibile
come frazione di numeri interi e piccoli. La divisione di Cassini,
ad esempio, è in risonanza 2/1 col satellite Mimas,
nel senso che ogni due rivoluzioni di una particella nella divisione corrispondono
ad una rivoluzione di Mimas ed i due corpi interessati si trovano nella
stessa posizione rispetto al Sole. Il ripetersi delle perturbazioni
conseguenti tali fenomeni porta ad un progressivo svuotamento di materiale
nella lacuna medesima, come in realtà si osserva. [Vedi
anche: Saturn
3D Space Tour 1.0 Screensavers].
Odd-looking moon Mimas photographed
by Cassini
CASSINI PHOTO RELEASE
Posted: July 26, 2004
Soon after orbital insertion, Cassini returned its best look yet at heavily cratered Mimas (398 kilometers, 247 miles across). The enormous crater at the top of this image, named Herschel, is about 130 kilometers (80 miles) wide and 10 kilometers (6 miles) deep. [See: Saturn]
Credit: NASA/JPL/Space Science Institute
The image was taken in visible light with the narrow angle camera on July 3, 2004, from a distance of 1.7 million kilometers (1 million miles) from Mimas and at a Sun-Mimas-spacecraft, or phase, angle of about 102 degrees. The image scale is 10 kilometers (6 miles) per pixel. It has been magnified here by a factor of 2 to aid visibility.
24.09.2003 General relativity passes Cassini test
06.06.2004 Cassini-Huygens si avvicina a Saturno
Il suo viaggio di sette anni è quasi terminato. Lanciata nell'ottobre 1997, la missione Cassini-Huygens sta attualmente procedendo verso Saturno. Mentre la sonda Huygens dell'ESA sarà la prima ad atterrare sulla superficie di una luna nel sistema solare esterno, la navetta Cassini della NASA continuerà a esplorare Saturno e i suoi anelli. Dopo un viaggio di quasi sette anni e quattro manovre in cui ha sfruttato la spinta gravitazionale di altri corpi celesti, la navetta entrerà in orbita attorno a Saturno il 30 giugno, raggiungendo così il suo punto più vicino al pianeta. La sonda Huygens si distaccherà dalla nave madre il 25 dicembre, e atterrerà su Titano nel gennaio dell'anno prossimo. Queste imminenti fasi della missione, una cooperazione fra la NASA, l'Agenzia Spaziale Europea (ESA) e l'Agenzia Spaziale Italiana (ASI), sono state presentate il 3 giugno in una conferenza stampa presso i quartieri generali della NASA, a Washington.
Here is an edited timeline of critical events in the SOI maneuver for the evening of June 30 through the morning of July 1 (all times in EDT)...
19.04.2004 Il lancio di Gravity Probe B
La navetta misurerà gli effetti della rotazione terrestre sullo spazio-tempo. La NASA lancerà il 19 aprile 2004 Gravity Probe B, una navetta spaziale per mettere alla prova la teoria generale della relatività di Einstein. La sonda, che ospita a bordo i più precisi giroscopi mai fabbricati, avrebbe dovuto essere stata lanciata il 17 aprile, ma gli ultimi di una lunga serie di piccoli difetti tecnici hanno costretto a un nuovo rinvio. La NASA ha previsto una finestra di lancio di un solo secondo per inviare la sonda in un'orbita polare allineata con precisione a una stella di riferimento. Qualsiasi ritardo costringerà l'agenzia spaziale a rinviare ulteriormente il lancio. I giroscopi, un milione di volte più precisi dei migliori che si trovano sulla Terra, misureranno come il nostro pianeta in rotazione agisce sul tessuto dello spazio-tempo. Sono convinto che questo esperimento finirà su tutti i libri di scuola. La missione ha già un record, quello di aver avuto bisogno di più tempo per partire: la NASA ha iniziato a finanziarla infatti dal marzo 1964. Nel 1976 un'altra missione chiamata Gravity Probe A aveva inviato un orologio atomico a 10.000 chilometri di distanza nello spazio, confermando la previsione teorica che la gravità rallenta lo scorrere del tempo. Gravity Probe B intende misurare invece un effetto più debole, la curvatura dello spazio-tempo dovuta alla gravità e al momento angolare di un corpo che ruota.[Argomento correlato: General relativity passes Cassini test].
NOTA: (08.06.2004)- Una sonda NASA per la Relatività Generale: Vademecum. Con una finestra di lancio di un secondo al giorno (ripeto, solo un secondo al giorno per un'operazione complessa come la scintiilla iniziale del lancio di una missione spaziale), la NASA deve aver tirato un sospiro di sollievo quando, qualche settimana fa, è finalmente partita la missione Gravity Probe B. Per questa sonda, l'avverbio "finalmente" è davvero accurato, perché si tratta del progetto sperimentale più antico della NASA, che arriva direttamente dall’alba dell’era spaziale. Fu proposto dal gruppo di Stanford nel 1961, lo stesso anno di Gagarin, quando la NASA ne aveva appena tre. Il progetto era centrato sulla verifica della teoria della relatività generale, proposta da Einstein nel 1915, con la sua previsione degli effetti di curvatura dello spazio-tempo e del trascinamento del sistema di riferimento. La curvatura dello spazio-tempo è stata poi misurata con grande precisione. Per esempio da GP-A, un volo suborbitale del 1976 durato solo due ore, ma con a bordo un orologio atomico supersensibile. Adesso, GP-B ha la possibilità della verifica sperimentale del frame-dragging, previsto dalla relatività generale. E la rotazione della massa di un corpo, per esempio la Terra, che trascina il sistema di riferimento di misura del satellite. È un effetto piccolissimo: per GP-B si calcolano 41 millisecondi d'arco di deviazione nella direzione del giroscopio di bordo. Il cuore di tutto è proprio il giroscopio, fatto di quattro sferette di quarzo raffreddate e fatte ruotare a 10.000 giri al minuto con getti di elio liquido. I quattro rotori, grandi come palline da ping pong, sono la miglior approssimazione di una perfetta sfera geometrica mai costruita dall'uomo. Il risultato è una stabilità di puntamento di un milione di volte migliore dei migliori sistemi inerziali di navigazione. Ecco tra l'altro già pronta una ricaduta di grande interesse applicativo: un sistema di mantenimento della direzione di navigazione un milione di volte più preciso di quelli attualmente disponibili. Un modo elegante di far fruttare gli studi sulla relatività generale, e anche di spiegare a contribuenti e politici l'importanza della ricerca fondamentale: persino se riguarda qualcosa di terribilmente astratto come, appunto, la relatività. Tra meno di due anni avremo i primi risultati di GP-B su una questione di fisica fondamentale, finalmente affrontata dalla NASA. D'altronde la comunità scientifica americana aveva molto bisogno di un segnale da parte dell'agenzia spaziale. Sono momenti difficili per i colleghi statunitensi. Nelle mani di un'Amministrazione che non brilla per attenzione alla cultura, vedono con preoccupazione la crescita scientifica del resto del mondo, a cominciare dall'Asia, ma anche dall'Europa. Già da qualche tempo, per esempio, la produzione di articoli scientifici europei ha superato quella degli Stati Uniti. La stampa americana dà molto rilievo alla possibile perdita di competitività e di primato della scienza made in USA. Naturalmente, va a credito del sistema scientifico americano il fatto che il problema sia reso pubblico e affrontato in modo costruttivo, e noi scienziati dello spazio europei abbiamo il dovere di essere sullo stesso piano, cercando di costruire una piattaforma di collaborazione con gli Stati Uniti, una volta tanto su un piano di parità. Dal punto di vista dell'ESA, la proposta è di immaginare una pianificazione scientifica comune, partendo dalle due comunità scientifiche. Costruire, cioè, bottom-up un futuro dell’esplorazione dello spazio che presenti a ESA e NASA, e quindi ai governi statunitensi ed europei, un piano omogeneo, evitando sovrapposizioni o, peggio, scontri diretti. Dal nostro punto di vista, lo presenteremo ai ministri dell’Unione Europea tra meno di un anno, nel contesto di un nuovo piano per la scienza in ESA. Anzi, di un nuovo piano per tutta l'agenzia. Il momento è certo favorevole all'Europa, con l'allargamento a 25 paesi e con gli espliciti riferimenti allo spazio nella Costituzione ormai prossima.
28.04.2004 Directionality in Space-Time
Troubled by the shortcomings of existing tests of general relativity, Leonard Schiff in 1960 proposed the use of orbiting gyroscopes to check unexamined directional effects in general relativity. Gravity Probe B is designed to reveal -- and check with high precision -- two extraordinary consequences of general relativity, as seen by gyroscopes. What is a gyroscope ? The first, invented in 1852 by the French physicist J.B.L. Foucault, was an instrument for studying the Earth's rotation by means of a freely suspended flywheel. Since then gyroscopes have found many applications, especially in navigation, and many types exist. The ones for Gravity Probe B are not flywheels but electrically supported spheres, spinning in a vacuum. Others utilize the spins of atomic nuclei, circulating sound waves, even circulating laser beams. In all gyroscopes the underlying principle is that rotating systems, free from disturbing forces, should stay pointing in the same direction in space. But what does "the same direction in space" mean ? For Newton the answer was easy. Space and time were absolutes. A perfect gyroscope set spinning and pointed at a star would stay aligned forever. Not so for Einstein. Space-time is warped -- and may even be set in motion by moving matter. A gyroscope orbiting the Earth finds two distinct space-time processes -- frame-dragging and the geodetic effect -- gradually changing its direction of spin.
Frame-dragging: Measuring the Rotation of Space-time
In 1918, two years after Einstein formulated general relativity, W.Lense and H.Thirring calculated that according to the theory a rotating massive body should slowly drag space and time around with it! Startling and far-reaching as Lense & Thirring's discovery was, any verification of frame-dragging seemed hopeless. Nothing happened until 1959 when Leonard Schiff of Stanford University (and independently George Pugh of the Defense Department) considered orbiting gyroscopes. On Schiff's calculations a gyroscope in polar orbit at 400 miles should turn with the Earth through an angle amounting after one year to 42 milliarc-seconds. This vitally important frame-dragging effect has never been seen. Gravity Probe B will measure it to a precision of 1% or better. Pugh's paper, "Proposal for a Satellite test of the Coriolis Prediction of General Relativity", 1959, Pentagon Weapons System Evaluation Group (WSEG) memo #11, was never published in any public source until the year 2003. Its first public appearance is in the text "Nonlinear Gravitodynamics: The Lense - Thirring Effect" by Remo Ruffini (Editor), Costantino Sigismondi (Editor), World Scientific Publishing Company, May 2003, pp 414-426. Schiff's calculations were published in 1960 in his paper "Motion of a Gyroscope according to Einstein's theory of Gravitation", L.I. Schiff, from the Proc. Nat. Acad Sci. 46, pp. 871-882 (1960); also Phys. rev. Lett. 4, pp. 215-219(1960).
The Geodetic Effect: Measuring the Curvature of Space-time
According to Einstein the Earth warps space-time. A second, much larger change in spin direction, the geodetic effect, follows from the gyroscope's motion through this space-time curvature. The phenomenon was foreshadowed in 1916 by W. de Sitter who predicted a minute relativistic correction to the complicated motions of the Earth-Moon system around the Sun -- an effect finally detected in 1988 through an elaborate combination of lunar ranging and radio interferometry data. For a gyroscope the predicted effect is a rotation in the orbit-plane of 6,600 milliarc-seconds per year -- quite a large angle by relativistic standards. Gravity Probe B will measure the change to 1 part in 10,000 or better, the most precise qualitative check yet of any effect predicted by general relativity.
Gravity Probe B: A Different Kind of Experiment
The Gravity Probe B experiment comprises four gyroscopes and a reference telescope sighted on HR8703 (also known as IM Pegasus), a binary star in the constellation Pegasus. In polar orbit, with the gyro spin directions also pointing toward HR8703, the frame-dragging and geodetic effects come out at right angles, each gyroscope measuring both. What do the two measurements signify, and how does Gravity Probe B differ from all previous tests of general relativity, positive or negative ? First, Gravity Probe B contrasts with earlier tests (redshift measurements apart) in being a physics experiment, not a disentangling of complex phenomena in stars or the solar system. Events are under the experimenters' control; disturbing effects are eliminated rather than calculated out; exact calibration checks can be performed on orbit to authenticate the results. Second, Gravity Probe B supplies two new, very precise tests of relativistic effects on massive bodies. Relativity experiments form three groups, based respectively on clocks, electromagnetic waves [A region of space in which electrical and magnetic forces exist and are described by a field. It has two components, magnetic, and electric. These can be at widely varying levels relative to each other. Natural phenomena involving electomagnetic fields include light, radio waves, TV signals. The image below represents the electromagnetic field lines emanating from a rotating planet or star.], and massive bodies. Amazingly, except for the possible radiation drag in the binary pulsar, there is still only one secure positive result with massive bodies -- perihelion precession. Yet such tests are crucial in exploring the differences between Einstein's and Newton's dynamics. Compare, for example, starlight deflection with the geodetic precession of a gyroscope, two effects often bracketed together since both check the curvature of space-time. Starlight deflection follows from the electromagnetic theory of light plus a special limiting case of Einstein's equations. The gyroscope effects, both frame-dragging and geodetic, follow from the conservation laws for massive spinning bodies derived from Einstein's full field equations -- a critical element in the theory. Third, most important, Gravity Probe B investigates the gravitational action of moving matter. Matter moving through space-time can be thought of as creating a new force -- gravitomagnetism [In general relativity, those components of the gravitational field that are analogous to the magnetic-field components of the electromagnetic field.] -- which John Wheeler, dean of relativists, describes as being "as different from ordinary gravity as magnetism is from electricity." The frame-dragging measurement detects this force and fixes its scale. Commenting on its unverified status, Wheeler has said "It is hard to imagine a science so exposed for lack of evidence on a force so fundamental to the scheme of physics."
Frame-dragging and Grand Unification
The frame-dragging effect, small as it is for the Earth, reaches far. It may underlie processes that generate vast amounts of power in distant quasars; it may clarify a strange physical hypothesis called Mach's principle [The principle that the motion of a particle is only meaningful when referred to the rest of the matter in the universe; this motion is determined by the distribution of this matter and is not an intrinsic property of an absolute space.]. Above all, it may throw light on grand unification. Grand unification is the greatest challenge confronting theoretical physicists today. Gravitation, the strong nuclear forces, and the partially unified electro-weak forces must be connected, but how ? Even the issues remain speculative but several clues suggest that general relativity may require amendment, and that the amendment, in the words of Nobel laureate C.N.Yang "somehow entangles spin and rotation." Says Yang: "Einstein's general relativity theory, though profoundly beautiful, is likely to be amended [...]. That the amendment may not disturb the usual tests is easy to imagine, since the usual tests do not relate to spin[i.e. frame-dragging]. The Stanford experiment is especially interesting in that it focuses on the spin. I would not be surprised at all if it gives a result in disagreement with Einstein's theory."
FINE DIGRESSIONE
NOTA: Extrasolar Detection Methods. These new worlds were discovered not by viewing them through a telescope but by their affect on their parent star. This NOTE serves to explain the doppler detection method as clearly and concisely possible. If we tried to observe these planets directly astronomers would need a telescope with a mirror at least 100 meters across. The reason for this is because these stars' out shine their respective planets like a firefly next to a nuclear blast.. This apparent difficulty and monumental engineering feat was circumvented through elementary physics. Every object pulls on every other object gravitationally equally and in the opposite direction.
Gravity, Ring Around the Rosey and Perturbing Planets
Using this principle, Marcy & Butler determined that as a planet orbited its Sun the resulting graviational attraction between the two bodies would result in the star's position to be perturbed or wobble (much like when as a child you would hold your friend's hand and play Ring Around the Rosey and the two of you would stagger around some common point in the school yard). By measuring this perturbation over several years, it was calcualted as to how big and how far away a planet would have to be to generate such a wobble.
The below animated GIF illustrates the planet's orbital affect on the position of its parent star.
(Note: affect is greatly exagerated and the green cross is the center of mass of the system)
The Doppler Effect and Starlight
This perturbation can be measured by measuring its parent star's spectrum. The light from a star can be broken down into its constituent colors and analyzed. This 'broken down' light or spectrum contains dark and light lines which are specific to the elements, ions and molecules which make up the star. This chemical fingerprint of the star can be accurately measured and using the Doppler Effect provide clues to the characteristics of the perturbing planets. The Doppler Effect is the physical effect of waves created by a moving source that causes them to be compressed when approaching an observer and spread out when the wave has past the observer (like the change in the pitch of a train's whistle as it comes into and then leaves the station). This Doppler Shift applies to light also. Light that is captured when the star wobbles toward the earth looks more blue and redder when it is moves away from the earth. By measuring the movement of the spectral lines over a period of time the orbital period of the planet can be determined. The resulting size of the displacement then allows the mass of the planet to be calculated.
The below animated GIFs illustrate the Doppler Shift of starlight caused by a perturbing planet.
The grey lines are the hypothetical spectra from a stationary source.
The red lines are due to the star wobbling away from the earth.
The blue lines are due to the star wobbling toward the earth.
Problems
Unlike this animation actual star systems are not oriented at 90 and 180 degrees to our own system and do not afford us an optimal viewpoint to observe their mechanics. This observational fact lends itself to what is called the "sin i" problem where i represents the inclination of the observed system to our own and sin is a trigonometric function sine. Currently we do not know what inclination these new solar systems have to our own system so our calculations on the planets masses are only estimates down to a minimum value deliminated by sin i.
Conclusion
This indirect method has shown us that planets do exist outside our solar system and that these other worlds about distant suns are new destinations on the celestial map.
Most recently updated 17 December 2003 Masses and Orbital Characteristics of All Known Extrasolar Planets Compiled by California and Carnegie Planet Search ICRS 2000.0 coordinates* M sin i Per a K Mstar -------------+---------- (Mjup) (d) (AU) e (m/s) (suns) R.A. | Dec -----------------------------------------------------------------+---------- 0 hd73256 1.85 2.548 0.037 0.04 267.0 1.05 | 8 36 23.0 | -30 02 15 1 hd83443 0.41 2.985 0.04 0.05 58.0 0.79 | 9 37 11.8 | -43 16 19 2 hd46375 0.25 3.024 0.04 0.04 34.5 1.00 | 6 33 12.6 | 5 27 47 3 hd179949 0.98 3.093 0.04 0.00 118.0 1.24 | 19 15 33.2 | -24 10 45 4 hd187123 0.51 3.097 0.04 0.02 68.0 1.06 | 19 46 58.1 | 34 25 10 5 tauboo 4.13 3.312 0.05 0.01 471.4 1.30 | 13 47 16.0 | 17 27 24 6 bd-103166 0.48 3.488 0.05 0.07 59.9 1.10 | 10 58 28.8 | -10 46 13 7 hd75289 0.44 3.509 0.05 0.01 53.5 1.15 | 8 47 41.0 | -41 44 14 8 hd209458 0.67 3.525 0.05 0.11 86.5 1.05 | 22 3 10.8 | 18 53 4 9 hd76700 0.19 3.971 0.05 0.13 25.0 1.00 | 8 53 55.0 | -66 48 4 10 51peg 0.46 4.231 0.05 0.01 55.0 1.06 | 22 57 27.9 | 20 46 7 11 upsandb 0.69 4.617 0.059 0.01 70.2 1.30 | 1 36 48.0 | 41 24 23 12 hd49674 0.11 4.950 0.06 0.17 13.1 1.00 | 6 51 30.5 | 40 52 5 13 hd68988 1.92 6.276 0.07 0.15 189.7 1.20 | 8 18 22.0 | 61 27 38 14 hd168746 0.23 6.403 0.065 0.08 27.0 0.92 | 18 21 49.8 | -11 55 21 15 hd217107 1.30 7.126 0.07 0.14 140.2 0.98 | 22 58 15.5 | -2 23 43 16 hd162020 14.4 8.428 0.074 0.28 813.0 0.70 | 17 50 38.4 | -40 19 6 17 hd130322 1.02 10.720 0.088 0.04 115.0 0.89 | 14 47 32.8 | -0 16 52 18 hd108147 0.40 10.890 0.104 0.40 27.3 1.20 | 12 25 46.0 | -64 1 22 19 hd38529b 0.78 14.310 0.129 0.28 54.7 1.39 | 5 46 35.0 | 1 10 7 20 55cncb 0.84 14.653 0.115 0.02 72.2 1.03 | 8 52 36.1 | 28 19 53 21 gj86 4.01 15.766 0.11 0.04 375.9 0.86 | 2 10 25.6 | -50 49 28 22 hd195019 3.57 18.203 0.14 0.02 271.4 1.02 | 20 28 18.6 | 18 46 10 23 hd6434 0.48 22.090 0.15 0.30 37.0 0.99 | 1 4 40.2 | -39 29 18.0 24 hd192263 0.75 24.330 0.15 0.03 50.5 0.79 | 20 13 59.9 | 0 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18.0 | -5 22 1 40 hd1237 3.45 133.800 0.505 0.51 164.0 0.96 | 0 16 12.7 | -79 51 4 41 hd37124b 0.72 153.000 0.54 0.10 28.8 0.91 | 5 37 2.5 | 20 43 50 42 hd73526 2.98 184.108 0.65 0.44 114.8 1.02 | 8 37 17.0 | -41 19 10 43 hd104985 6.3 198.200 0.78 0.03 0.0 1.50 | 12 5 15.1 | 76 54 21 44 hd82943c 0.88 221.600 0.728 0.54 34.0 1.05 | 9 34 50.7 | -12 7 45 45 hd8574 2.04 228.180 0.77 0.31 64.0 1.10 | 1 25 12.4 | 28 34 2 46 hd169830 2.94 229.900 0.82 0.35 83.0 1.40 | 18 27 49.5 | -29 49 1 47 upsandc 1.89 241.500 0.829 0.28 53.9 1.30 | 1 36 48.0 | 41 24 23 48 hd202206 17.5 256.003 0.83 0.43 564.8 0.90 | 21 14 57.8 | -20 47 21 49 hd89744 7.99 256.605 0.89 0.67 275.3 1.40 | 10 22 10.7 | 41 13 48 50 hd134987 1.55 258.499 0.81 0.25 49.3 1.05 | 15 13 28.6 | -25 18 34 51 hd12661b 2.3 263.000 0.82 0.33 75.0 1.07 | 2 4 34.4 | 25 24 53 52 hd150706 1.0 264.900 0.82 0.38 33.0 0.98 | 16 31 18.0 | 79 47 23 53 hd40979 3.32 267.200 0.811 0.23 108.0 1.08 | 6 4 29.9 | 44 15 39 54 hd17051 1.94 311.288 0.91 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Su alcuni di questi sono stati analizzati spettroscopicamente e hanno rilevato presenze di Ossigeno, Ozono e Acqua. Infine, per il terzo punto, quello più "fantascientifico", ormai dal 1959 gli Americani hanno dato il via al progetto SETI (Search for ExtraTerrestrial Intelligence), che si ripropone l'ascolto tramite i radiotelescopi di eventuali segnali radio intelligenti provenienti da sistemi solari simili al nostro. Tale progetto si avvale oggi delle raffinatissime tecnologie che usano spettrometri dotati di 164 milioni di canali in grado di analizzare tutta la volta celeste ed eliminare il rumore di fondo proveniente da sorgenti artificiali terrestri e da sorgenti naturali cosmiche. Anche il radiotelescopio di Medicina, dotato recentemente di uno spettrometro da 4 milioni di canali, sarà in grado a breve termine di partecipare a questo ambizioso progetto insieme a USA, Australia e Francia. In Italia vi sono attualmente 26 gruppi di astrofisici, chimici e biochimici, biologi e geologi che aderiscono con le loro competenze e le loro strutture al progetto nazionale di Bioastromonia, non ancora finanziato dal CNR. Si spera in un prossimo futuro e nell'ambito della nuova riforma di avere l'opportunità di entrare a far parte in maniera competitiva della comunità bioastronomica internazionale.
NOTA: Sorgente MASER dell'acqua. L'emissione MASER da oggetti astronomici, scoperta nel 1965, è un potente mezzo per testare le condizioni fisiche e chimiche del gas presente nelle regioni di formazione stellare, oppure nei dintorni di stelle molto luminose ed evolute. Il termine MASER è l'acronimo di "Microwave Amplification by Stimulated Emission of Radiation", ossia "amplificazione di radiazione a microonde per mezzo di emissione stimolata di radiazione".
Cerchiamo di capirne il funzionamento ...
In primo luogo, una piccola premessa: la luce, che comunemente viene considerata un'onda elettromagnetica, in realtà si comporta anche come se fosse composta da un flusso di particelle (o pacchetti di energia), chiamate fotoni. Gli atomi e le molecole possono assorbire o emettere radiazione (luce) solamente in quantità discrete, corrispondenti a fotoni di varia energia. Perché ? L'energia posseduta da un atomo o da una molecola è quantizzata, nel senso che può assumere, solo e soltanto, determinati valori discreti. A ciascun valore di energia corrisponde uno specifico stato quantico dell'atomo o della molecola. Di conseguenza, un atomo (o una molecola) assorbe o irradia energia, sotto forma di fotoni, solo quando cambia stato quantico, cioè quando compie un "salto" da un livello energetico ad un altro. Ciò accade quando l'energia del fotone, assorbito o emesso, corrisponde alla differenza di energia esistente tra due stati permessi dell'atomo (o della molecola). Nel primo caso, quando il fotone viene assorbito, causando una transizione dell'atomo (o della molecola) verso un livello energetico più alto (eccitato), si parla di assorbimento stimolato. Nel secondo caso, quando il fotone viene emesso, causando una transizione dell'atomo (o della molecola) verso un livello energetico più basso, si parla di emissione stimolata. Quando la luce incide su un sistema di atomi o di molecole, generalmente vi è un assorbimento complessivo di energia poiché, alle temperature ordinarie, vi sono più atomi (o molecole) nello stato energetico più basso (lo stato fondamentale) che negli stati eccitati. Tuttavia, se si riesce a realizzare una situazione... non ordinaria, in cui ci sono più atomi (o molecole) nello stato eccitato che nello stato fondamentale (è la cosiddetta inversione di popolazione), allora il numero di fotoni emessi è maggiore del numero di fotoni assorbiti, pertanto in questo caso la luce incidente determina un'emissione complessiva di energia. L'inversione di popolazione è il principio base coinvolto nel funzionamento di un MASER. Affinché possa verificarsi, occorre avere una "pompa" che riesca a rifornire continuamente il livello eccitato del sistema di atomi o di molecole preso in esame.
Perché si parla di processo di amplificazione maser ?
Il fotone incidente, che stimola l'emissione di un altro fotone (avente la stessa energia del primo) da parte dell'atomo (o molecola) eccitato, non viene assorbito dall'atomo (o dalla molecola), per cui, dopo l'emissione stimolata, vi saranno due fotoni, quello incidente e quello emesso, con la stessa energia. Questi fotoni, a loro volta, potranno stimolare altri atomi (o molecole) a emettere fotoni in un processo di amplificazione a catena, limitato esclusivamente dal numero di atomi (o molecole) presenti nello stato eccitato, e quindi dall'efficienza (e dall'estensione) spaziale della "pompa".
Cosa s'intende per maser dell'acqua ?
La presenza di molecole d'acqua negli spazi cosmici è stata rivelata grazie a un'intensa attività MASER ad esse associata. In altre parole grazie a un meccanismo in grado di amplificare fortemente la radiazione emessa da queste molecole alle frequenze radio. (Per inciso: quando la molecola dell'acqua si trova allo stato gassoso, ha la possibilità di ruotare intorno al suo baricentro. Le energie coinvolte sono, ancora una volta, quantizzate, nel senso che possono assumere soltanto determinati valori discreti. Di conseguenza, sono possibili transizioni, con assorbimento o emissione di energia, tra i vari livelli energetici rotazionali permessi. Una delle transizioni rotazionali della molecola dell'acqua avviene alla frequenza di 22 GigaHertz.).Un'azione MASER associata alla presenza di acqua è stata scoperta in molte nubi molecolari giganti (regioni in cui è in corso un'attiva genesi di stelle) e nelle atmosfere delle stelle più vecchie. In altre parole, i MASER dell'acqua si trovano sempre e solo nelle vicinanze di intense sorgenti di energia, quali sono le stelle di recente formazione, molto calde e luminose, oppure le stelle luminose, ma fredde, nelle fasi finali della loro evoluzione. La radiazione proveniente da queste stelle vicine non fa che alimentare la "pompa" del MASER, e quindi rifornire continuamente il livello eccitato delle molecole d'acqua presenti nelle nubi di materia interstellare. Ciò fa si che i MASER siano ottimi indicatori di stelle giovani, immerse in nubi di gas molecolari e polvere, quindi invisibili a occhio nudo, e di stelle vecchie con atmosfere molto estese e grande perdita di massa. È stata scoperta un'azione MASER anche in presenza di altre molecole: il radicale ossidrile (OH), il monossido di silicio (SiO), il metanolo (CH3OH).
30.10.2003 Immagini dirette di pianeti extrasolari
La nuova tecnica renderà possibili anche studi spettroscopici delle atmosfere. Alcuni astronomi sostengono che l'osservazione diretta di pianeti extrasolari potrebbe essere più facile di quanto si pensi. Le prove dell'esistenza di pianeti orbitanti intorno a stelle vicine sono fornite soprattutto dall'osservazione di minuscoli spostamenti Doppler negli spettri stellari quando uno o più pianeti esercita una forza di attrazione sulla stella. In alcuni casi, il passaggio di un pianeta davanti a una stella può essere rivelato da un piccolo oscuramento dell'emissione stellare. Ma questi sono tutti metodi indiretti. Gli ostacoli all'osservazione diretta dei pianeti sono dovuti al fatto che spesso la luminosità della stella sovrasta completamente il pianeta. Un metodo per superare questa difficoltà è quello di usare l'interferometria di azzeramento. A differenza dell'interferometria ordinaria, dove le onde luminose provenienti da due o più telescopi vengono sommate in modo che l'osservazione risultante sia equivalente a quella fatta con un singolo telescopio con un diametro molto maggiore, nell'interferometria di azzeramento il segnale composito dell'oggetto distante non viene massimizzato bensì minimizzato. Facendo così, è possibile che un oggetto più debole, come un pianeta, emerga di colpo da quello che prima era un bagliore indistinto. William Danchi e colleghi del Goddard Space Flight Center della NASA hanno effettuato studi estensivi su questa tecnica, cercando di comprendere in particolare come l'incremento della precisione dei rivelatori usati aumenti il grado di azzeramento dell'immagine della stella per poter osservare meglio i pianeti più piccoli o quelli più vicini alla stella. Con la corretta configurazione dei rivelatori la risoluzione spaziale dell'interferometro totale può risultare minore di quanto si prevedeva: una caratteristica importante per l'eventuale costruzione di un osservatorio orbitante nello spazio. Lo studio è stato pubblicato sul numero del primo novembre 2003 della rivista "Astrophysical Journal Letters".
27.03.2004 Quanto può essere realizzabile usare l'interferometria ottica per la rivelazione di pianeti di tipo terrestre ?
I modelli di evoluzione del sistema solare, riproducendo le caratteristiche dei pianeti gassosi come Giove e Saturno, non sono applicabili alla maggior parte dei pianeti extrasolari finora individuati. Nella figura sottostante si osserva, infatti, un grafico avente in ascissa la distanza dei pianeti finora scoperti (in unità astronomiche). In ordinata ci sono le stelle attorno a cui i pianeti sono stati scoperti e ciascun pianeta è etichettato con la sua presunta massa. Ricordo che Giove è un pianeta gassoso circa 320 volte più massiccio della Terra, distante mediamente dal Sole oltre 770 milioni di Km, ovvero, oltre 5 UA. Una semplice osservazione sulla figura è che molti pianeti massicci si trovano a distanze più piccole dalla stella rispetto a quanto succeda nel nostro sistema solare, con i conseguenti problemi nelle fasi evolutive, basti pensare ad esempio alle forze mareali. Ciò ha, tra l'altro, condotto a ripensare i modelli di evoluzione dei sistemi stellari, con tempi scala enormemente più piccoli di quanto previsto in precedenza, anche per sistemi meno “compressi” come il nostro.
La spiegazione del fenomeno delle osservazioni di pianeti gioviani su orbite piccole sembra essere duplice:
1)-da una parte potrebbe esserci una sorta di bias osservativo, nel senso che pianeti vicini e massicci hanno un effetto tale da rendere più facili le osservazioni sullo spostamento doppler, aumentando la probabilità che un sistema di questo tipo sia osservato rispetto a uno di tipo solare. Infatti la rotazione è molto rapida, quindi su qualsiasi osservabile di tipo spettrale o fotometrico è possibile fare misure ripetute su intervalli di tempo brevi, cosa invece molto difficile con pianeti lontati dalla stella, quando anche l'effetto fosse tale da essere osservabile;
2)-dall'altra parte, si sono sviluppate teorie dinamiche per spiegare comunque la presenza dei pianeti di tipo Hot jupiter su orbite vicine. Sono stati individuati fin dalla metà degli anni 90 meccanismi dinamici il cui risultato è la migrazione da orbite più esterne: accoppiamento pianeta-disco circumstellare (migrazione con o senza l'apertura di un gap nel disco protoplanetario, Lin, Bodenheimer e Richardson, Nature 380, 606, 1996), scattering gravitazionale di un sistema di 3 o più pianeti gioviani (Weidenschilling e Manzelle, Nature 384, 619, 1996), scattering di planetesimi nelle fasi finali dell'evoluzione della nebula (Murray e altri, Science 279, 69, 1998).
Per dar ragione del primo, occorre solo aspettare che le capacità osservative siano tali da avere una statistica significativa anche per sistemi con pianeti lontani, per cui si vedrà quali sistemi siano più frequenti in realtà; per il secondo, la presenza di altri pianeti negli stessi sistemi migliorerà la rispondenza tra i sistemi reali e i modelli. Allo stato attuale infatti sia l'interazione gas pianeta che lo scattering fra corpi massicci non riescono a spiegare completamente il fenomeno. La prima porterebbe il pianeta a cadere nella stella o a subire le forze mareali, il secondo necessita di condizioni al contorno difficili da realizzare. Dunque probabilmente il modello deve tener conto di tutti e tre i meccanismi. Per quanto riguarda la seconda, l'interferometria, in generale, combina la radiazione raccolta da due o più rivelatori (nel nostro caso telescopi) posti a una distanza qualsiasi. Sovrapponendo in modo opportuno i segnali ricevuti, sfruttando il fenomeno dell'interferenza è possibile aumentare di molto il potere risolutivo, in quanto esso aumenta con le dimensioni del rivelatore, e la sovrapposizione fa si che l'effetto sia quello di un telescopio di dimensioni pari alla distanza tra i rivelatori utilizzati. Allargando la base dell'interferometro, si migliora la risoluzione angolare, riuscendo a distinguere la luce emessa da sorgenti molto vicine tra loro. L'altra grandezza che entra in gioco nella capacità risolutiva è la lunghezza d'onda del segnale raccolto.
L'uso dell'interferometria stellare ottica e infrarossa per la rivelazione dei pianeti è una delle principali linee di sviluppo per l'osservazione dello spazio, soprattutto grazie alla possibilità dell'interferometria dallo spazio, con telescopi in orbita e quindi basi molto estese. La ricerca dei pianeti di tipo terrestre è sicuramente per la NASA e per l'ESA un settore chiave nella ricerca spaziale, sia per le osservazioni da terra con ottica adattativa (Large Binocular Telescope e VLTI) che per le osservazioni dallo spazio (SIM, TPF e Darwin). Diverse missioni sono in progetto (con date di partenza, per quelle spaziali, tra il 2009 e il 2015) aventi tra gli scopi principali la ricerca di pianeti terrestri attorno alle stelle più vicine, richiedendo una accuratezza astrometrica molto elevata, per misure fino all'ordine di 1 ua, facendo il paio con l'interferometria IR che dovrebbe addirittura studiare le condizioni su quei pianeti. Quindi non solo è realizzabile un interferometro ottico per lo studio dei pianeti extrasolari, ma è proprio il metodo che si sta cercando di sviluppare con il fine di riuscire a risolvere oggetti piccoli come i pianeti, per questo sono state anche sviluppate alcune tecniche come il nulling che usa una tecnica coronografica. Per avere una panoramica completa sull'interferometria ottica è possibile seguire questo LINK.
The
New Worlds Atlas
(Shockwave)
is a continuously updated database of all planets
that have been discovered around stars other than the Sun.
55 Cancri System (RealPlayer). Geoff Marcy, professor of astronomy at the University of California, Berkeley, and a Principal Investigator with NASA's Space Interferometry Mission, recalls his first planet discovery.
Oxygen,
carbon discovered in exoplanet atmosphere
HUBBLE EUROPEAN SPACE AGENCY INFORMATION
CENTRE
Posted: February 2, 2004
The well-known extrasolar planet HD 209458b, provisionally nicknamed Osiris, has surprised astronomers again. Oxygen and carbon have been found in its atmosphere, evaporating at such an immense rate that the existence of a new class of extrasolar planets - 'the chthonian planets' or 'dead' cores of completely evaporated gas giants - has been proposed.
An artist's impression shows an extended ellipsoidal envelope of oxygen and carbon discovered around the extrasolar planet HD 209458b. Credit: European Space Agency and Alfred Vidal-Madjar (Institut d'Astrophysique de Paris, CNRS, France).
Oxygen and carbon have been detected in the atmosphere of a planet beyond our Solar System for the first time. Scientists using the NASA/ESA Hubble Space Telescope (HST) have observed the famous extrasolar planet HD 209458b passing in front of its parent star, and found oxygen and carbon surrounding the planet in an extended ellipsoidal envelope - the shape of a rugby-ball. These atoms are swept up from the lower atmosphere with the flow of the escaping atmospheric atomic hydrogen, like dust in a supersonic whirlwind. The team led by Alfred Vidal-Madjar (Institut d'Astrophysique de Paris, CNRS, France) reports this discovery in a forthcoming issue of Astrophysical Journal Letters. The planet, called HD 209458b, may sound familiar. It is already an extrasolar planet with an astounding list of firsts: the first extrasolar planet discovered transiting its sun, the first with an atmosphere, the first observed to have an evaporating hydrogen atmosphere (in 2003 by the same team of scientists) and now the first to have an atmosphere containing oxygen and carbon. Furthermore the 'blow-off' effect observed by the team during their October and November 2003 observations with Hubble had never been seen before. In honour of such a distinguished catalogue this extraordinary extrasolar planet has provisionally been dubbed "Osiris". Osiris is the Egyptian god who lost part of his body - like HD 209458b - after his brother killed and cut him into pieces to prevent his return to life. Oxygen is one of the possible indicators of life that is often looked for in experiments searching for extraterrestrial life (such as those onboard the Viking probes and the Spirit and Opportunity rovers). Naturally this sounds exciting - the possibility of life on Osiris - but it is not a big surprise as oxygen is also present in the giant planets of our Solar System, like Jupiter and Saturn.. What, on the other hand was surprising was to find the carbon and oxygen atoms surrounding the planet in an extended envelope. Although carbon and oxygen have been observed on Jupiter and Saturn, it is always in combined form as methane and water deep in the atmosphere. In HD 209458b the chemicals are broken down into the basic elements. But on Jupiter or Saturn, even as elements, they would still remain invisible low in the atmosphere. The fact that they are visible in the upper atmosphere of HD 209458b confirms that atmospheric 'blow off' is occurring. The scorched Osiris orbits 'only' 7 million kilometres from its yellow Sun-like star and its surface is heated to about 1,000 degrees Celsius. Whereas hydrogen is a very light element - the lightest in fact - oxygen and carbon are much heavier in comparison. This has enabled scientists to conclude that this phenomenon is more efficient than simple evaporation. The gas is essentially ripped away at a speed of more than 35,000 km/hour. We speculate that even heavier elements such as iron are blown off at this stage as well. The whole evaporation mechanism is so distinctive that there is reason to propose the existence of a new class of extrasolar planets - the chthonian planets, a reference to the Greek God Khtôn, used for Greek deities from the hot infernal underworld (also used in the French word autochton). The chthonian planets are thought to be the solid remnant cores of 'evaporated gas giants', orbiting even closer to their parent star than Osiris. The detection of these planets should soon be within reach of current telescopes both on the ground and in space. The discovery of the fierce evaporation process is, according to the scientists, "highly unusual", but may indirectly confirm theories of our own Earth's childhood. This is a unique case in which such a hydrodynamic escape is directly observed. It has been speculated that Venus, Earth and Mars may have lost their entire original atmospheres during the early part of their lives. Their present atmospheres have their origins in asteroid and cometary impacts and outgassing from the planet interiors.
FACTS ABOUT HD 209458b
THE ATMOSPHERE
FACTS ABOUT THE PARENT STAR
HISTORY OF HD 209458b
THE TEAM
A. Vidal-Madjar, lead author of the discovery paper, J.-M. Desert, A. Lecavelier des Etangs, G. Hebrard (all from Institut d'Astrophysique de Paris, France), G. Ballester (University of Arizona, United States), D. Ehrenreich, R. Ferlet (both from Institut d'Astrophysique de Paris, CNRS, France), J. C. McConnell (York University, Toronto, Canada), M. Mayor (Geneve Observatory, Switzerland) and C.D. Parkinson (Caltech/JPL, USA).
THE OBSERVATIONS
The team observed four transits of the planet in front of the star with Hubble in October and November 2003 (with Director's Discretionary Time). The observations of structure and chemical make-up of the atmosphere were made in ultraviolet light, using Hubble's spectrograph STIS. Hubble's position above the atmosphere makes it the only telescope that can currently perform these types of ultraviolet studies.
THE FUTURE
The search and the study of extrasolar planets is the aim of several of ESA'sscientific missions.
Traduzione e rissunto: Un'atmosfera extrasolare: [Oxygen, carbon discovered in exoplanet atmosphere]. Un'interessante idrodinamica circonda un lontano pianeta di tipo gioviano. Un team internazionale di astronomi ha individuato per la prima volta ossigeno e carbonio nell'atmosfera di un pianeta al di fuori del nostro sistema solare. L'idrogeno gassoso che scorre via dal pianeta quasi alla velocità del suono sta attirando i più pesanti ossigeno e carbonio dallo strato inferiore dell'atmosfera come polvere in un vortice. Gli atomi di ossigeno e carbonio circondano il pianeta in un involucro esteso, il che conferma agli scienziati di trovarsi di fronte per la prima volta a un pianeta che sta "soffiando via" la propria atmosfera. Alcuni addirittura sostengono che anche Venere e la Terra, in tempi primordiali, possano aver perso le proprie atmosfere originali in seguito allo stesso tipo di fenomeno idrodinamico. Il pianeta è caldo e di tipo gioviano, a circa 150 anni luce di distanza da noi, in orbita attorno alla stella HD 209458 nella costellazione di Pegasus. È unico fra i pianeti extrasolari, in quanto la sua orbita passa davanti a una stella abbastanza vicina e luminosa da essere osservata. Il pianeta compie una rivoluzione completa attorno alla propria stella ogni 3 giorni e mezzo, in parte eclissandola per circa tre ore. Gli astronomi, guidati da Alfred Vidal-Madjar dell'Istituto di Astrofisica di Parigi del CNRS hanno usato il telescopio spaziale Hubble per osservare il pianeta, battezzato HD 209458b, in ottobre e novembre 2003. La scoperta verrà descritta in un articolo di prossima pubblicazione sulla rivista "Astrophysical Journal Letters".
14.06.2004 Azoto al di fuori del sistema solare
La scoperta potrebbe fornire indizi sulla formazione di stelle e pianeti. Usando il satellite FUSE (Far Ultraviolet Spectroscopic Explorer) della NASA, alcuni astronomi della Johns Hopkins University di Baltimora hanno individuato per la prima volta azoto molecolare nello spazio interstellare. La scoperta, che fornisce i primi indizi dettagliati su come il quinto elemento più abbondante nell'universo si comporta in un ambiente al di fuori del sistema solare, potrebbe migliorare la comprensione non solo delle regioni fra le stelle, ma anche dell'origine della vita sulla Terra. Rivelare la presenza di azoto molecolare è fondamentale per lo studio della chimica interstellare. E poiché le stelle e i pianeti si formano a partire dal mezzo interstellare, questa scoperta potrebbe darci anche nuovi indizi sulla loro formazione. L'azoto è l'elemento prevalente nell'atmosfera della Terra. La sua forma molecolare, N2, consiste in due atomi di azoto combinati. Il team di ricercatori guidato da David Knauth -primo autore di un articolo pubblicato sul numero del 10 giugno della rivista "Nature"- e dal collega B.G.Andersson ha condotto ricerche in questo campo sin dagli anni settanta, con il satellite Copernicus. Ora FUSE, almeno diecimila volte più sensibile di Copernicus, ha consentito agli astronomi di sondare le dense nubi interstellari dove ci si attendeva che l'azoto molecolare svolgesse un ruolo dominante.
Nearest,
youngest star with planet nursery found
UNIVERSITY OF CALIFORNIA AT BERKELEY NEWS
RELEASE
Posted: February 28, 2004
Astronomers at the University of California, Berkeley, have discovered the nearest and youngest star with a visible disk of dust that may be a nursery for planets. The dim red dwarf star is a mere 33 light years away, close enough that the Hubble Space Telescope (HST) or ground-based telescopes with adaptive optics to sharpen the image should be able to see whether the dust disk contains clumps of matter that might turn into planets.
The dust disk surrounding the red dwarf star AU Mic, seen in optical scattered light. The central dark region is produced by an occulting spot suspended by four wires, masking the star. The dust disk observed near the boundary with the black mask approximately corresponds to the Kuiper Belt of asteroids in our solar system. Credit: Paul Kalas/UC Berkeley, courtesy of Science Magazine.
Circumstellar disks are signposts for planet formation, and this is the nearest and youngest star where we directly observe light reflected from the dust produced by extrasolar comets and asteroids, the objects that could possibly form planets by accretion. We're waiting for the summer and fall observing season to go back to the telescopes and study the properties of the disk in greater detail. But we expect everyone else to do the same thing - there will be lots of follow-up. A paper announcing the discovery will be published online in Science Express this week, and will appear in the printed edition of the journal in March. The young M-type star, AU Microscopium (AU Mic), is about half the mass of the sun but only about 12 million years old, compared to the 4.6 billion year age of the sun. The team of astronomers found the star while searching for dust disks around stars emitting more than expected amounts of infrared radiation, indicative of a warm, glowing dust cloud. The image of AU Mic, obtained last October with the University of Hawaii's 2.2-meter telescope atop Mauna Kea, shows an edge-on disk of dust stretching about 210 astronomical units from the central star - about seven times farther from the star than Neptune is from the sun. One astronomical unit, or AU, is the average distance from the Earth to the Sun, about 93 million miles. When we see scattered infrared light around a star, the inference is that this is caused by dust grains replenished by comets and asteroid collisions. Because 85 percent of all stars are M-type red dwarfs, the star provides clues to how the majority of planetary systems form and evolve. Other nearby stars, such as Gliese 876 at 16 light years and epsilon-Eridani at 10 light years, wobble, providing indirect evidence for planets. But images of debris disks around stars are rare. AU Mic is the closest dust disk directly imaged since the discovery 20 years ago of a dust disk around beta-Pictoris, a star about 2.5 times the mass of the sun and 65 light years away. Though the two stars are in opposite regions of the sky, they appear to have been formed at the same time and to be traveling together through the galaxy. These sister stars probably formed together in the same region of space in a moving group containing about 20 stars. This represents an unprecedented opportunity to study stars formed under the same conditions, but of masses slightly larger and slightly smaller than the sun. Theorists are excited, too, at the opportunity to understand how planetary systems evolve differently around high-mass stars like beta-Pictoris and low-mass stars like AU Mic. The pictures of AU Mic were obtained by blocking glare from the star with a coronagraph like that used to view the sun's outer atmosphere, or corona. The eclipsing disk on the University of Hawaii's 2.2-meter telescope blocked view of everything around the star out to about 50 AU. At this distance in our solar system, only the Kuiper Belt of asteroids and the more distant Oort cloud, the source of comets, would be visible. The sharper images from the ground or space should show structures as close as 5 AU, which means a Jupiter-like planet or lump in the dusty disk would be visible, if present. With the adaptive optics on the Lick 120-inch telescope or the Keck 10-meter telescopes, or with the Hubble Space Telescope (HST), we can improve the sharpness by 10 to 100 time. In a companion paper accepted for publication in The Astrophysical Journal, the Berkeley-Hawaii team reports indirect evidence for a relatively dust-free hole within about 17 AU of the star. This would be slightly inside the orbit of Uranus in our own Solar system. Potential evidence for the existence of planets comes from the infrared spectrum, where we notice an absence of warm dust grains. That means that grains are depleted within about 17 AU radius from the star. One mechanism to clear out the dust disk within 17 AU radius is by planet-grain encounters, where the planet removes the grains from the system. The dust missing from the inner regions of AU Mic is the telltale sign of an orbiting planet. The planet sweeps away any dust in the inner regions, keeping the dust in the outer region at bay. Aside from further observations with the 2.2-meter telescope in Hawaii, Kalas and his colleagues plan to use the Spitzer Space Telescope, an infrared observatory launched last August by the National Aeronautics and Space Administration (NASA), to conduct a more sensitive search for gas. The research was supported by the NASA Origins Program and the National Science Foundation's Center for Adaptive Optics.
Cosmic
magnifying glass reveals distant planet
NASA/JPL NEWS RELEASE
Posted: April 15, 2004
"Of course, there is no hope of observing this phenomenon directly[...]" – Albert Einstein (1936)
Like Sherlock Holmes holding a magnifying glass to unveil hidden clues, modern day astronomers used cosmic magnifying effects to reveal a planet orbiting a distant star. This marks the first discovery of a planet around a star beyond Earth's solar system using gravitational microlensing. A star or planet can act as a cosmic lens to magnify and brighten a more distant star lined up behind it. The gravitational field of the foreground star bends and focuses light, like a glass lens bending and focusing starlight in a telescope. Albert Einstein predicted this effect in his theory of general relativity and confirmed it with our Sun.
An artist's rendering of the planet, believed to be one-and-a- half times larger than Jupiter, orbiting a red dwarf, its parent star. Credit: NASA/JPL.
The real strength of microlensing is its ability to detect low-mass planets. The discovery was made possible through cooperation between two international research teams: Microlensing Observations in Astrophysics (MOA) and Optical Gravitational Lensing Experiment (OGLE). Well-equipped amateur astronomers might use this technique to follow up future discoveries and help confirm planets around other stars. The newly discovered star-planet system is 17,000 light years away, in the constellation Sagittarius. The planet, orbiting a red dwarf parent star, is most likely one-and-a-half times bigger than Jupiter. The planet and star are three times farther apart than Earth and the Sun. Together, they magnify a farther, background star some 24,000 light years away, near the Milky Way center. In most prior microlensing observations, scientists saw a typical brightening pattern, or light curve, indicating a star's gravitational pull was affecting light from an object behind it. The latest observations revealed extra spikes of brightness, indicating the existence of two massive objects. By analyzing the precise shape of the light curve, Bond and his team determined one smaller object is only 0.4 percent the mass of a second, larger object. They concluded the smaller object must be a planet orbiting its parent star. Dr. Bohdan Paczynski of Princeton University, Princeton, N.J., an OGLE team member, first proposed using gravitational microlensing to detect dark matter in 1986. In 1991, Paczynski and his student, Shude Mao, proposed using microlensing to detect extrasolar planets. Two years later, three groups reported the first detection of gravitational microlensing by stars. Earlier claims of planet discoveries with microlensing are not regarded as definitive, since they had too few observations of the apparent planetary brightness variations.
The following image is part of the data used to make the discovery of a planet around another star. The picture comes from the 1.3-meter (4.3-foot) Warsaw telescope at Las Campanas Observatory, Chile. Credit: NASA/JPL.
I'm thrilled to see the prediction come true with this first definite planet detection through gravitational microlensing. Paczynski and his colleagues believe observations over the next few years may lead to the discovery of Neptune-sized, and even Earth-sized planets around distant stars. Microlensing can easily detect extrasolar planets, because a planet dramatically affects the brightness of a background star. Because the effect works only in rare instances, when two stars are perfectly aligned, millions of stars must be monitored. Recent advances in cameras and image analysis have made this task manageable. Such developments include the new large field-of-view OGLE-III camera, the MOA-II 1.8 meter (70.8 inch) telescope, being built, and cooperation between microlensing teams. It's time-critical to catch stars while they are aligned, so we must share our data as quickly as possible. Polish/American project, operates at Las Campanas Observatory in Chile, run by the Carnegie Institution of Washington, and includes the world's largest microlensing survey on the 1.3 meter (51-inch) Warsaw Telescope. NASA and the National Science Foundation fund the Optical Gravitational Lensing Experiment (OGLE) in the U.S. The Polish State Committee for Scientific Research and Foundation for Polish Science funds it in Poland. Microlensing Observations in Astrophysics is primarily a New Zealand/Japanese group, with collaborators in the United Kingdom and U.S. New Zealand's Marsden Fund, NASA and National Science Foundation, Japan's Ministry of Education, Culture, Sports, Science, and Technology, and the Japan Society support it for the Promotion of Science. [See also: SuperMACHO]
NOTE: One application of gravitational microlensing is the search for planets orbiting distant stars. The radial velocity technique has proved to be successful for detecting gas-giant planets like Jupiter orbiting nearby stars, especially ‘hot Jupiters’ orbiting close to their parent stars. Extra-solar planets orbiting the lens star of a gravitational microlensing event can betray their presence through perturbations to the light curve (Gould & Loeb, ApJ Vol. 396, p. 104; Bennett & Rhie, ApJ Vol. 472, p. 660). This technique of searching for planets is complementary to the radial velocity technique, as it is sensitive to less massive planets than Jupiter orbiting at larger distances than those of the hot Jupiters. Also, it is sensitive to planets in distant regions of the Galaxy. The technique is illustrated below for an event of high magnification. Planets orbiting the lens star in a well-aligned microlensing event can reveal their presence by perturbations to the Einstein ring. Terrestrial planets may be detected if they lie between about 0.8 and 1.3 Eintein ring radii from the lens star. Heavier planets may be detected over a broader range of separations. As the Einstein ring radius is typically about 2 AU, the method probes an important region. Well-aligned events such as that illustrated above yield high magnification. Planets may also be detected in events of low magnification. See astro-ph/0204478 for further details. A possible example of a planetary perturbation that occurred in event MACHO 98-BLG-35 is shown below. The peak magnification for the event was approximately 80. The perturbation in the light curve corresponds to a planet with mass (0.4-1.5) MEarth at a projected orbital separation of approximately 2 AU. Further details are at astro-ph/0102184.
Light curve of microlens event MACHO 98-BLG-35 showing a possible planetary perturbation caused by a terrestrial planet.
FACILITY: Simulates a 3D view of the triple system, illustrates the microlensing concept, and shows the lensing event as it would have appeared at micro-arcsecond resolution -- and in reality...
03.06.2004 Il pianeta più giovane
Il nuovo mondo si trova nella costellazione del Toro. Il telescopio Spitzer della NASA ha trovato attorno a una stella distante le prove dell'esistenza di un pianeta che potrebbe essere vecchio meno di un milione di anni. L'osservatorio spaziale a infrarossi stava studiando cinque stelle nella costellazione del Toro, a circa 420 anni-luce di distanza dalla Terra. Tutte le stelle sono circondate da dischi di polvere nei quali si presume che si formino nuovi pianeti a partire dal materiale di accrescimento. Attorno alla stella CoKu Tau 5, Spitzer ha individuato uno schiarimento nel disco che potrebbe essere stato provocato dalla comparsa di un nuovo mondo. La scoperta ha entusiasmato gli scienziati della NASA. Il telescopio spaziale Spitzer, costato due miliardi di dollari e lanciato lo scorso agosto, non è in grado di osservare direttamente oggetti delle dimensioni di un pianeta, ma i suoi rivelatori nell'infrarosso possono penetrare le nubi di polvere che circondano le stelle molto giovani per sondare le regioni dove si formano i pianeti. In queste zone, Spitzer ha individuato quantità significative di materia organica ghiacciata. Si tratta di materiali quali particelle di polvere ricoperte d'acqua, metanolo e biossido di carbonio, che potrebbero aiutare a comprendere l'origine di corpi ghiacciati come le comete.
Two
extremely hot exoplanets caught in transit
EUROPEAN SOUTHERN OBSERVATORY NEWS RELEASE
Posted: May 7, 2004
A European team of astronomers are announcing the discovery and study of two new extra-solar planets (exoplanets). They belong to the OGLE transit candidate objects and could be characterized in detail. This trebles the number of exoplanets discovered by the transit method; three such objects are now known. The observations were performed in March 2004 with the FLAMES multi-fiber spectrograph on the 8.2-m VLT Kueyen telescope at the ESO Paranal Observatory (Chile). They enabled the astronomers to measure accurate radial velocities for forty-one stars for which a temporary brightness "dip" had been detected by the OGLE survey. This effect might be the signature of the transit in front of the star of an orbiting planet, but may also be caused by a small stellar companion. For two of the stars (OGLE-TR-113 and OGLE-TR-132), the measured velocity changes revealed the presence of planetary-mass companions in extremely short-period orbits. This result confirms the existence of a new class of giant planets, designated "very hot Jupiters" because of their size and very high surface temperature. They are extremely close to their host stars, orbiting them in less than 2 (Earth) days.
The transit method for detecting exoplanets will be "demonstrated" for a wide public on June 8, 2004, when planet Venus passes in front of the solar disc.
Discovering other Worlds
During the past decade, astronomers have learned that our Solar System is not unique, as more than 120 giant planets orbiting other stars were discovered by radial-velocity surveys. However, the radial-velocity technique is not the only tool for the detection of exoplanets. When a planet happens to pass in front of its parent star (as seen from the Earth), it blocks a small fraction of the star's light from our view. The larger the planet is, relative to the star, the larger is the fraction of the light that is blocked. It is exactly the same effect when Venus transits the Solar disc on June 8, 2004. In the past centuries such events were used to estimate the Sun-Earth distance, with extremely useful implications for astrophysics and celestial mechanics. Nowadays, planetary transits are gaining renewed importance. Several surveys are attempting to find the faint signatures of other worlds, by means of stellar photometric measurements, searching for the periodic dimming of a star as a planet passes in front of its disc. One of these, the OGLE survey, was originally devised to detect microlensing events by monitoring the brightness of a very large number of stars at regular intervals. For the past four years, it has also included a search for periodical shallow "dips" of the brightness of stars, caused by the regular transit of small orbiting objects (small stars, brown dwarfs or Jupiter-size planets). The OGLE team has since announced 137 "planetary transit candidates" from their survey of about 155,000 stars in two southern sky fields, one in the direction of the Galactic Centre, the other within the Carina constellation.
Resolving the nature of the OGLE transits
The OGLE transit candidates were detected by the presence of a periodic decrease of a few percent in brightness of the observed stars. The radius of a Jupiter-size planet is about 10 times smaller than that of a solar-type star, i.e. it covers about 1/100 of the surface of that star and hence it blocks about 1 percent of the stellar light during the transit. The presence of a transit event alone, however, does not reveal the nature of the transiting body. This is because a low-mass star or a brown dwarf, as well as the variable brightness of a background eclipsing binary system seen in the same direction, may result in brightness variations that simulate the ones produced by an orbiting giant planet. However, the nature of the transiting object may be established by radial-velocity observations of the parent star. The size of the velocity variations (the amplitude) are directly related to the mass of the companion object and therefore allow to discriminate between stars and planets as the cause of the observed brightness "dip". In this way, photometric transit searches and radial-velocity measurements combine to become a very powerful technique to detect new exoplanets. Moreover, it is particularly useful for elucidating their characteristics. While the detection of a planet by the radial velocity method only yields a lower estimate of its mass, the measurement of the transit makes it possible to determine the exact mass, radius, and density of the planet. The follow-up radial-velocity observations of the 137 OGLE transit candidates is not an easy task as the stars are comparatively faint (visual magnitudes around 16). This can only be done by using a telescope in the 8-10m class with a high-resolution spectrograph.
The nature of the two new exoplanets
A European team of astronomers therefore made use of the 8.2-m VLT Kueyen telescope. In March 2004, they followed 41 OGLE "top transit candidate stars" during 8 half-nights. They profited from the multiplex capacity of the FLAMES/UVES fiber link facility that permits to obtain high-resolution spectra of 8 objects simultaneously and measures stellar velocities with an accuracy of about 50 m/s.While the vast majority of OGLE transit candidates turned out to be binary stars (mostly small, cool stars transiting in front of solar-type stars), two of the objects, known as OGLE-TR-113 and OGLE-TR-132, were found to exhibit small velocity variations. When all available observations - light variations, the stellar spectrum and radial-velocity changes - were combined, the astronomers were able to determine that for these two stars, the transiting objects have masses compatible with those of a giant planet like Jupiter. Interestingly, both new planets were detected around rather remote stars in the Milky Way galaxy, in the direction of the southern constellation Carina. For OGLE-TR-113, the parent star is of F-type (slightly hotter and more massive than the Sun) and is located at a distance of about 6000 light-years. The orbiting planet is about 35% heavier and its diameter is 10% larger than that of Jupiter, the largest planet in the solar system. It orbits the star once every 1.43 days at a distance of only 3.4 million km (0.0228 AU). In the solar system, Mercury is 17 times farther away from the Sun. The surface temperature of that planet, which like Jupiter is a gaseous giant, is correspondingly higher, probably above 1800 deg C. The distance to the OGLE-TR-132 system is about 1200 light-years. This planet is about as heavy as Jupiter and about 15% larger (its size is still somewhat uncertain). It orbits a K-dwarf star (cooler and less massive than the Sun) once every 1.69 days at a distance of 4.6 million km (0.0306 AU). Also this planet must be very hot.
A new class of exoplanets
With the previously found planetary transit object OGLE-TR-56, the two new OGLE objects define a new class of exoplanets, still not detected by current radial velocity surveys: planets with extremely short periods and correspondingly small orbits. The distribution of orbital periods for "hot Jupiters" detected from radial velocity surveys seems to drop off below 3 days, and no planet had previously been found with an orbital period shorter than about 2.5 days. The existence of the three OGLE planets now shows that "very hot Jupiters" do exist, even though they may be quite rare; probably about one such object for every 2500 to 7000 stars. Astronomers are truly puzzled how planetary objects manage to end up in such small orbits, so near their central stars. Contrary to the radial velocity method which is responsible for the large majority of planet detections around normal stars, the combination of transit and radial-velocity observations makes it possible to determine the true mass, radius and thus the mean density of these planets.
Great expectations
The two new objects double the number of exoplanets with known mass and radius (the three OGLE objects plus HD209458b, which was detected by the radial velocity surveys but for which a photometric transit was later observed). The new information about the exact masses and radii is essential for understanding the internal physics of these planets. The complementarity of the transit and radial velocity techniques now opens the door towards a detailed study of the true characteristics of exoplanets. Space-based searches for planetary transits - like the COROT and KEPLER missions - together with ground-based radial velocity follow-up observations will in the future lead to the characterization of other worlds as small as our Earth.
26.05.2004 Double Vision: Two Telescopes for Hunting Earth-like Planets
After years of whittling away prospective designs for a NASA mission to search for earth-like planets around alien stars, the space agency had narrowed the choice down to two very different observatories. The first -a coronagraph- would blot out at a star's light in the hopes of seeing small orbiting planets, while the other -an interferometer- would use a fleet of infrared telescopes working in tandem to hunt for the same extrasolar quarry. But instead of choosing one instrument over the other, NASA has adopted both, giving researchers with the agency's Terrestrial Planet Finder (TPF) project twice the capability of making direct observations of an earthlike solar planet. We'd always known that it was a good thing to do both versions. And we thought, well, we'll have to make an agonizing choice sooner or later. Pursuing both space telescope configurations, a duet that project planners pared down from about 60 potential approaches, also fits in with President George W. Bush's space vision. President Bush included the development of advanced telescopes for extrasolar planet hunts in his January 14 speech, during which he also called for the retirement of the space shuttle and a return of returning humans to the Moon and on to Mars. Everybody is focusing on Mars and the lunar studies, and that's great. But this is part of the space vision too.
A complimentary combination
While the architectures of the coronagraph (TPF-C) and interferometer (TPF-I) versions of TPF are different, they can be used to compliment each other and give researchers a more comprehensive look at extrasolar planets than any seen before. It's not that twice as much data is twice as good. It's actually that twice as much data is 10 times as good. It would be difficult, using only a visible light-based instrument to determine whether an object in the sky like the newly discovered Sedna, for example, was something small and bright, or merely something large and dim of the same magnitude, researchers said. The addition of the infrared instrument, however, provides a check in the observational system. Initial designs for the space coronagraph, expected to be the first of the planet-hunting pair to launch, calls for a moderate-sized visible light telescope similar to a 13-foot by 20-foot (4-meter by 6 meter) mirror currently under study. The coronagraph would use a central disc, as well as other techniques, to blot out a star's glare, allowing the instrument to detect any planets that would otherwise be hard to spot. A tentative launch date for the coronagraph is expected sometime in 2014. Like all interferometers, the second TPF instrument, to launch by the end of 2020, will combine the light from multiple telescopes to make detailed observations of stars and planets. But unlike Earth-based interferometers - and even the planned Space Interferometry Mission (SIM) set for 2010 - which are connected by a hard and fast baseline, the TPF version is designed to be a free flying fleet of 13-foot (four-meter) telescopes that constantly shift themselves to keep the proper orientation. The ability to design and build a set of telescopes capable of flying in formation while maintaining the precision and stability necessary for proper observations is a challenge, and researchers are working with their counterparts at the European Space Agency (ESA) to meet the task. ESA is developing its own formation-flying interferometer mission, dubbed Darwin, to fly in 2014. What you get from having both missions is a much more complete understanding of the planets and a more robust search for the detection of life. In the past, the primary goal was just detecting other planets, but it's also the characterization of habitability we're interested in. Finding an Earth-sized world is not enough. The TPF effort seeks to determine the specific characteristics of any atmosphere present around a planet and develop an understanding of whether the world does or could ever have harbored life.
Avoiding supersized planets
TPF mission planners don't plan on looking where other planet hunters been successful in the past. Most of today's known extrasolar worlds are planetary behemoths, the size of Jupiter or larger, circling close to their parent stars. Because of their size and proximity to the star, such planets can be detected by the "wobble" their gravity causes on their stellar parents. But those systems appear unlikely to harbor an Earth-sized planet in a habitable orbit where liquid water could exist, researchers said. A lot of the systems that we've been finding to date with that technique are note very favorable because they have big fat planets sitting right in the habitable zone. If you have Jupiter driving around, and you're lying on the freeway, you're likely to get squished. The TPF coronagraph is expected to be a planetary pathfinder, conducting complete surveys of up to 50 stars, and partially studying another 50. But because the telescope's size is limited by launch constraints, the coronagraph does have a limit to its stellar resolution, researchers said. That, however, is where the infrared TPF interferometer will pick up the planet-hunting baton, checking the coronagraph findings and taking a close look at up to 200 stars with 500 others set aside for partial study. It would be good to get the sensitivity down to half of Earth's size.
Stepping stones to better space telescopes
Although TPF architectures are in hand, there still remains the hurdle of building both instruments and lofting them into space. The coronagraph appears to be the easier of the two telescopes in terms of design, hence its earlier launch date. But intricacies of a formation-flying interferometer are not simple challenges to surmount. ESA researchers are planning to conduct formation-flying tests with their SMART-3 technology mission in upcoming years, the results of which could prove very valuable to both the European Darwin effort and TPFas well. Even the more advanced TPF and Darwin missions will help other researchers to plan the eventual Life Finder and Planet Imager telescopes that sit perhaps 50 years in the future, he added. We're at the same stage that early astronomers were at the beginning of the 20th century, when the idea of a Hubble Telescope of James Webb Space Telescope was almost beyond conception. We're making the same first halting steps.
La composizione isotopica del carbonio è diversa da quella terrestre. Per la prima volta, alcuni ricercatori hanno scoperto, nelle particelle di polvere interplanetaria raccolte dalla stratosfera terrestre, materia organica che risale a prima della nascita del nostro sistema solare. Il materiale è stato identificato sulla base della sua composizione isotopica di carbonio, che differisce da quella del carbonio che si trova sulla Terra e in altre parti del sistema solare. Gli isotopi sono elementi che variano per il numero di neutroni e pertanto sono chimicamente simili ma fisicamente diversi. Si ritiene che, la materia organica analizzata, si sia probabilmente formata in nubi molecolari nello spazio interstellare prima della formazione del sistema solare. Le anomalie isotopiche sono state prodotte dal frazionamento chimico alle temperature estremamente basse che si trovano in queste nubi. Queste scoperte provano che ancora oggi nel sistema solare giunge materia organica presolare. Questo materiale si è conservato per più di 4,5 miliardi di anni, ed è incredibile che sia sopravvissuto così a lungo. I risultati dello studio, pubblicati sul numero del 27 febbraio 2004 della rivista "Science", potrebbero contribuire alla comprensione della formazione del sistema solare e dell'origine della materia organica sulla Terra.
NOTA: L' unità di massa atomica (amu, abbreviazione dall' inglese "atomic mass unit") è definita come 1/12 della massa dell' atomo di carbonio 12, quindi la espressione: "la massa relativa del carbonio dodici non è esattamente 12,000, ma si trova 12,011" contiene una incongruenza, perchè nega una definizione. L'equivoco nasce dal fatto che nella tavola periodica è riportata la massa media degli elementi in amu, e quindi riferita a 1/12 della massa del carbonio 12, ma la media tiene conto dei contributi degli isotopi naturali: sulla Terra la composizione isotopica del carbonio comprende circa 1.1% di carbonio 13, e percentuali molto più piccole del carbonio 14. Quindi la massa media del carbonio terrestre è 0.989*12+0.011*13 = 12.011.
29.06.2004 L'impatto di un meteorite ricreato in laboratorio
Un modello di dinamica dei fluidi può simulare gli effetti della caduta di oggetti celesti. Alcuni scienziati olandesi hanno ricreato con successo per la prima volta un impatto meteoritico su piccola scala in laboratorio. L'esperimento, progettato da Detlef Lohse e colleghi dell'Università di Twente, consisteva nel far precipitare una piccola sfera d'acciaio su una superficie di materiale granulare. I risultati (disponibili online: arXiv.org/abs/cond-mat/0406368) potrebbero fare luce sui processi che si verificano durante i veri impatti su larga scala sulla Terra e su altri pianeti del sistema solare. Per prima cosa, i ricercatori hanno preparato un letto di sabbia, spesso circa 25 centimetri, costituito da grani con un diametro medio di 50 micron. La sabbia è stata "decompattata" soffiandoci attraverso dell'aria e poi lasciandola depositare in una struttura estremamente libera, in modo che si comportasse essenzialmente come un fluido. In seguito, Lohse e colleghi hanno lasciato cadere una sfera d'acciaio con un diametro di 2,5 cm da diverse altezze e con differenti angolazioni, registrando le immagini con una telecamera digitale ad alta velocità. Il team ha osservato una serie di passaggi ben definiti: al momento dell'impatto, la sabbia viene scagliata in tutte le direzioni e forma una specie di corona. La sfera poi penetra nella sabbia e crea un vuoto che inseguito collassa sotto l'influenza di una pressione di tipo idrostatico. Successivamente questa pressione proietta grani di sabbia in aria formando dei getti. Usando simulazioni numeriche, gli scienziati hanno sviluppato una teoria per spiegare questo tipo di collasso.
THE CASE FOR LIFE ON MARS
The grandaddy of ALH84001 crystallized 4.5 by ago. Then sometime between 3.6 - 4 by ago, during the period of the late heavy bombardment which occured in the inner Solar System, the grandaddy of ALH84001 was fractured by a large impact. This is supported by the observation that ALH84001 underwent at least two shock heatings separated by a period of annealing. Presumably, the second shock event was the one which ejected ALH84001 into space 16 My ago. During the time of the first shock, Mars's Atmosphere was considerably wetter than today (as suggested by modeling and surface features) and it is postulated that water seeped into AL84001. Because the water was saturated with atmospheric carbon dioxide, carbonate materials were deposited into the fissures with the subsequent formation of the evidence:
Evidence for Biology
Four lines of attack (all indirect except for the fossils):
1)-old
carbonate globules.
Recall that the grandaddy of ALH84001 is thought to have been fractured by a large impact around 4 b years ago. Since Mars's atmosphere was thought to be considerably wetter then than today, water was able to seep into ALH84001. Because the water was saturated with atomspheric carbon dioxide, carbonate materials were deposited into the fissures forming the carbonate globules (the formation of the carbonate globules could be assisted by life). The age of the carbonate globules are thought to be 3.6 b years. Then there was a second large impact on Mars roughly 16 M years ago which ejected ALH84001 into space. Some carbonates show shock faulting due to this second impact so that we know that the carbonate are older than 16 M years.
Carbonate Age
ALH84001
is old, 4.5 b years. The carbonates it contains have carbon
isotopic ompositions which suggests that the fluid the carbon dioxide was
carried in with had the signatures of a highly fractionated Martian
atmosphere. The carbontes in ALH84001
are estimated to be 3.6 b years old, consistent with the
idea that Mars
may have been able to harbor extensive liquid water on or near its surface
for the at least 1 b years. More
recent work suggests that the carbonates may be as young as
1.4 b years. In any event, they are younger than the impact
which ejected ALH84001 into
space (based on faulting observed
in carbonates).
The interesting things are:
the carbonates may be old, 3.6 by old ===> formed on Mars a long time ago (not in Antarctica). A sticky point is that independent teams have suggested that the carbonate formed by high T metamorphic or hydrothermal processes (~700 C) (based on equilibrium phase relationships and "microprobe" chemistry) or the carbonate formed at lower T (0 - 80 C) (based on oxygen isotopic ratios). The high T is not good as biological remains would have a tough surviving the high T. McKay et al. suggest that the complex structure of the carbonate suggests that the enironment was altered as the carbonate was laid down (perhaps by biology). Comment--Finding evidence for life at 3.6 by on the Earth is not an easy job.
2)-Teardrop-shaped crystals of magnetite and iron sulfide embedded in places where the carbonate is dissolved. Certain terrestrial bacteria use such crystals as compasses to find their way. Huh. But, Mars currently has no magnetic field to speak of. What's the deal ?
3)-PAHs (polycyclic aromatic hydrocarbons)
Large, complex organic molecules which were found near the carbonate globules (which lined the fissure in ALH84001) and are consistent with the breakdown products of living organisms. These are the first organic molecules associated with Mars (recall Viking found no traces of organic compounds in the soil of Mars -- at its two sites).
Contaminants ?
1-Rate of
PAHs laid down on Greenland (based
on ice cores) would
lead to concentrations 1,000 to 1,000,000 times
lower.
2-Analysis of a heavily weathered
Antarctic meteorite did not show the presence of Terrestrial PAHs.
3-Analysis of the interiors
of two ordinary chondritic Antarctic meteorites showed no interior PAHs.
4-Studies of the outer layers
of the ALH84001 meteorite
revealed that the PAHs were interior to the fusion crust
===> did not seep in. Seems that they
made a reasonable case that the PAHS were indigenous to
ALH84001.
Biology ?
PAHs are fairly common. They are found in other meteorites, interplanetary dust, and interstellar dust--the residue of nonbiological activity. the spectrum of the PAHs is much less diverse than found in Terrestrial biological material. Maybe weathering is more complex than their tests allowed. Biology is not so clear.
4)-Elongated and Oval-shaped structures within the carbonate===> teeny fossils. Really tiny fossils; Typical Terrestrial bacteria are ~ 0.5 - 20 microns long (E.Coli, roughly 1-2 micro-meters in length, roughly 1-2 micro-meters in length); "Martians" are 20 - 100 nanometers. There are suggestions that fossils of comparable sized organisms have been found on the Earth in Eastern Washington (nanobacteria).
28.04.2004 Un meteorite da una luna di Marte
Studiata la composizione interna della roccia di Kaidun. Il meteorite che precipitò su una base militare sovietica nello Yemen, nel 1980, potrebbe essere originario di una delle lune di Marte. Sulla Terra sono stati trovati diversi meteoriti provenienti dal pianeta rosso, ma questo sarebbe il primo a essere identificato come proveniente da una delle sue lune rocciose. Andrei Ivanov, dell'Istituto Vernadsky di geochimica e chimica analitica di Mosca, in Russia, ha passato gli ultimi due decenni nel tentativo di svelare il mistero del meteorite di Kaidun, grande quanto un pugno umano, prima di determinare che potrebbe trattarsi di un frammento di Phobos, la maggiore delle due lune marziane. "Non ho trovato un candidato migliore", ha spiegato in un articolo pubblicato sulla rivista "Solar System Research" (vol. 38, p. 97). Il meteorite di Kaidun è diverso da tutti gli altri caduti sulla Terra (ne sono stati catalogati già 23.000). È composto da molti piccoli frammenti di materiale, fra i quali minerali mai visti prima. Lavorando con Michael Zolensky del Johnson Space Center della NASA a Houston, in Texas, Ivanov ha usato un microscopio elettronico per osservare la struttura cristallina della roccia spaziale e catalogare gli elementi al suo interno. Fra le stranezze, ci sono due frammenti di roccia vulcanica che si formano solo in corpi massivi come un pianeta, con un nucleo, un mantello e una crosta.
25.03.2004 Life on Mars - but 'we sent it'
There is life on Mars, a researcher has announced at a conference "Lunar and Planetary Science Conference" in Houston, Texas. Unfortunately it is just spaceship-borne contamination. I believe there is life on Mars, and it's unequivocally there, because we sent it. Of all the space probes sent to Mars, only the two Viking craft in 1976 were adequately heat sterilised. The procedures used for all missions since then, including NASA's twin rovers and Europe's Beagle 2, would have left some microbes aboard. After testing whether terrestrial organisms can survive simulated Martian conditions and the procedures used to sterilise spacecraft. There is a good chance some made it to Mars and might still be living there.
Shrinking drops
If a spacecraft's surface is made of a material that repels water, any water on the surface collects into droplets that shrink as they dry, concentrating the microbes and helping them survive. Most Earth bugs that hitch-hiked to Mars would probably perish quickly, but it is not a certainty. Images and chemical evidence from the current orbiter and rover missions suggest that briny, acidic water may have existed for a long time in Martian soil. Some kinds of acid brine could be liquid even under today's frigid conditions, so Earth organisms might just find their way to a moist environment where they could grow. They are probably not going to survive in 200 kelvin conditions and in sulphuric acid. Maybe they could. And maybe we've just done a really terrible thing.
DIGRESSIONE...
Viking 1
Viking 1 was launched from Cape Canaveral, Florida on August 20, 1975 on a TITAN 3E-CENTAUR D1 rocket. The probe went into Martian orbit on June 19, 1976, and the lander set down on the western slopes of Chryse Planitia on July 20, 1976. It soon began its programmed search for Martian micro-organisms (there is still debate as to whether the probes found life there or not), and sent back incredible color panoramas of its surroundings. One thing scientists learned was that Mars' sky was pinkish in color, not dark blue as they originally thought (the sky is pink due to sunlight reflecting off the reddish dust particles in the thin atmosphere). The lander set down among a field of red sand and boulders stretching out as far as its cameras could image.
Viking 2
Viking 2 was launched on September 9, 1975, and arrived in Martian orbit on August 7, 1976. The lander touched down on September 3, 1976 in Utopia Planitia. It accomplished essentially the same tasks as its sister lander, with the exception that its seismometer worked, recording one marsquake.
MARS EXPRESS-Beagle 2 lander
When folded up, the Beagle 2 lander resembles a very large pocket watch. This is the state in which it will pass the long journey to Mars. As soon as it comes to a halt on the Martian surface, however, Beagle 2's outer casing will open to reveal the inner workings. First, solar panels will unfold: they will catch sunlight to charge the batteries which will power the lander and its experiments throughout the mission. Next, a robotic arm will spring to life. Attached to the end of the arm will be Beagle's Payload Adjustable Workbench (PAW) where most of the experiments are situated. These include a pair of stereo cameras, a microscope, two types of spectrometer (Mössbauer and X-ray) and a torch to illuminate surfaces. The PAW also houses the corer/grinder and 'the mole', two instruments for collecting rock and soil samples for analysis. The robotic arm will stretch and rotate to give the two stereo cameras a good panoramic view of the landing site. After taking some shots, the cameras will take close up images of nearby soil and rocks as potential candidates for further analysis. When a suitable rock has been chosen, the PAW will be rotated until the grinder is in position to grind away the weathered surface. The PAW can then be repositioned for the microscope or spectrometers to analyse the freshly exposed material. When a rock looks particularly interesting, a sample will be drilled out with the corer and taken to the gas analysis package (GAP) inside the shell of the lander by means of the robotic arm. 'The mole', carried on the back of the PAW, will also collect soil samples and return them to the GAP.
Gas analysis package
This is where investigations most relevant to detecting past or present life will be conducted. The instrument has twelve ovens in which rock or soil samples can be heated gradually in the presence of oxygen. The carbon dioxide generated at each temperature will be delivered to a mass spectrometer which will measure its abundance and the ratio of carbon-12 to carbon-13. The mass spectrometer will also study other elements and look for methane in samples of atmosphere. The temperature at which the carbon dioxide is generated will reveal its nature, as different carbon bearing materials combust at different temperatures.
Environmental sensors
A variety of tiny
sensors scattered about the Beagle 2 lander
will measure different aspects of the martian environment including: atmospheric
pressure, air temperature and wind speed and direction; ultraviolet radiation;
dust fall-out and the density and pressure of the upper atmosphere during
Beagle 2's descent.
Two stereo cameras
These cameras will provide digital pictures from which a 3D model of the area within reach of the robotic arm may be constructed. As the PAW cannot be operated in real time from Earth, this 3D model will be used to guide the instruments into position alongside target rocks and soil and to provide information on the geological setting of the landing site.
Microscope
The microscope will pick out features a few thousandths of a millimetre across on rock surfaces exposed by the grinder. It will reveal the texture of the rock, which will help determine whether it is of sedimentary or volcanic origin.
The Mössbauer Spectrometer
This will investigate
the mineral composition of rocks by irradiating exposed rock surfaces and
soil with g-rays emitted by a isotopic source (cobalt-57), and then measuring
the spectrum of the g-rays reflected back. In particular, the nature of
iron minerals in the pristine interior and weathered surface of rocks will
be compared to determine the oxidising nature of the present atmosphere.
X-ray spectrometer
This will measure the elements in rocks by bombarding exposed rock surfaces with X-rays from four radioactive sources (two iron-55 and two cadmium-109). The rocks will emit lower energy X-rays characteristic of the elements present. Rock ages will be estimated using the property that the isotope potassium-40 decays to argon-40. The X-ray spectrometer will provide the potassium measurement and the GAP will measure argon trapped in rocks.
Mole
This instrument will be able to crawl up to several metres across the surface at the rate of 1 centimetre every six seconds. Once it has reached a boulder, it will burrow underground to collect samples in a cavity in its tip. Alternatively, the PAW can be positioned so that 'the mole' can burrow vertically underground to collect samples possibly 1 metre below the surface.
Corer/grinder
This is a drill bit that can either be moved over a surface to remove weathered material or be positioned in one spot to drill a core of a hopefully pristine sample.
31.08.2004 Il fallimento di Beagle 2
Il lander non è riuscito ad atterrare indenne sul pianeta rosso. Il team della missione Beagle 2 ha reso pubblico il proprio rapporto su cosa non ha funzionato nel lander che avrebbe dovuto esplorare il pianeta Marte. L'Agenzia Spaziale Europea (ESA) aveva già esaminato la questione nei mesi scorsi e aveva imputato il fallimento alla scarsa gestione dei fondi. Ma il gruppo di scienziati britannici ha invece concluso che la causa più probabile del malfunzionamento di Beagle 2 sarebbe stata l'atmosfera del pianeta, rivelatasi più sottile del previsto, tanto che la sonda non è stata in grado di frenare abbastanza da atterrare senza danni. Ricostruire gli ultimi istanti di Beagle 2 non è un compito facile. Il lander (costato oltre 60 milioni di euro) era stato progettato per aprirsi una volta raggiunta la superficie marziana, dispiegando un'antenna per inviare sulla Terra la notizia del suo arrivo. Ma dopo la separazione della sonda dalla sua navicella madre, il 19 dicembre 2003, non era stato udito alcun segnale. I satelliti orbitanti attorno al pianeta finora non hanno avvistato tracce di detriti. Per chiarire il mistero, il team guidato da Mark Sims dell'Università di Leicester ha studiato accuratamente i test precedenti al lancio, escludendo subito due delle principali teorie che imputavano il fallimento al malfunzionamento dei paracadute o degli schermi che proteggevano il lander dal calore. La risposta sta altrove. Dopo il distacco del lander, la navicella orbitante Mars Express ha rivelato che l'atmosfera marziana era molto più sottile del previsto. Ciò significa che il lander potrebbe non essere riuscito a frenare a sufficienza durante la sua discesa. Tuttavia, gli scienziati non escludono l'ipotesi di un malfunzionamento degli airbag, e ammettono che i test sugli airbag non erano stati abbastanza numerosi.
FINE DIGRESSIONE
Probe
confirms methane in the Martian atmosphere
EUROPEAN SPACE AGENCY NEWS RELEASE
Posted: March 30, 2004
During recent observations from the European Space Agency's Mars Express spacecraft in orbit around Mars, methane was detected in its atmosphere. Whilst it is too early to draw any conclusions on its origin, exciting as they may be, scientists are thinking about the next steps to take in order to understand more.
This colour image of the Hecates Tholus volcano was taken by the High Resolution Stereo Camera on Mars Express in orbit 32 on from an altitude of 275 km. Credits: ESA/DLR/FU Berlin (G. Neukum)
From the time of its arrival at Mars, the Mars Express spacecraft started producing stunning results. One of the aims of the mission is analysing in detail the chemical composition of the Martian atmosphere, known to consist of 95% percent carbon dioxide plus 5% of minor constituents. It is also from these minor constituents, which scientists expect to be oxygen, water, carbon monoxide, formaldehyde and methane, that we may get important information on the evolution of the planet and possible implications for the presence of past or present life. The presence of methane has been confirmed thanks to the observations of the Planetary Fourier Spectrometer (PFS) on board Mars Express during the past few weeks. This instrument is able to detect the presence of particular molecules by analysing their "spectral fingerprints" - the specific way each molecule absorbs the sunlight it receives. The measurements confirm so far that the amount of methane is very small - about 10 parts in a thousand million, so its production process is probably small. However, the exciting question "where does this methane come from ?" remains. Methane, unless it is continuously produced by a source, only survives in the Martian atmosphere for a few hundreds of years because it quickly oxidises to form water and carbon dioxide, both present in the Martian atmosphere. So, there must be a mechanism that refills the atmosphere with methane. The first thing to understand is how exactly the methane is distributed in the Martian atmosphere. Since the methane presence is so small, we need to take more measurements. Only then we will have enough data to make a statistical analysis and understand whether there are regions of the atmosphere where methane is more concentrated. Once this is done, scientists will try to establish a link between the planet-wide distribution of methane and possible atmospheric or surface processes that may produce it. Based on our experience on Earth, the methane production could be linked to volcanic or hydro-thermal activity on Mars. The High Resolution Stereo Camera (HRSC) on Mars Express could help us identify visible activity, if it exists, on the surface of the planet. Clearly, if it was the case, this would imply a very important consequence, as present volcanic activity had never been detected so far on Mars. Other hypotheses could also be considered. On Earth, methane is a by-product of biological activity, such as fermentation. If we have to exclude the volcanic hypothesis, we could still consider the possibility of life. In the next few weeks, the PFS and other instruments on-board Mars Express will continue gathering data on the Martian atmosphere, and by then we will be able to draw a more precise picture. Thanks to the PFS instrument, scientists are also gathering precious data about isotopes in atmospheric molecules such as water and carbon dioxide - very important to understand how the planet was formed and to add clues on the atmospheric escape. The PFS also gives important hints about water-cloud formation on the top of volcanoes, and shows the presence of active photochemical processes in the atmosphere.
First data of the Planetary Fourier Spectrometer (PFS) instrument (high-resolution spectrometer) show that the CO distribution is different in the northern and southern hemisphere of Mars.
Riassunto e traduzione... Metano su Marte
La scoperta è stata confermata dalla sonda Mars Express. Nell'atmosfera di Marte è stato trovato del metano, cosa che secondo alcuni scienziati potrebbe indicare la presenza di vita sul pianeta. La scoperta è stata effettuata da telescopi sulla Terra ed è stata recentemente confermata dagli strumenti a bordo della navetta orbitante Mars Express dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA). Il metano sopravvive per poco tempo nell'atmosfera marziana, pertanto deve essere costantemente reintegrato. Le possibili cause della sua produzione sono due: la presenza di vulcani attivi (ma finora su Marte non ne sono stati trovati) o di microbi. Gli astronomi riferiscono di aver osservato le caratteristiche spettrali del metano nell'atmosfera l'anno scorso, grazie all'Hawaii Infrared Telescope e all'osservatorio Gemini in Cile. Gli scienziati che operano il Planetary Fourier Spectrometer (FPS) di Mars Express hanno annunciato di aver fatto la stessa scoperta. Anche il telescopio più grande del mondo, il Keck delle isole Hawaii, ha osservato l'atmosfera marziana ma i suoi risultati devono ancora essere pubblicati. Nuove prove a sostegno della presenza di metano su Marte verranno presentate in aprile a un convegno di astronomia.
Spirit
finds hints of past water at Gusev site
MISSION CONTROL REPORT
Posted: April 1, 2004
Clues from a wind-scalloped volcanic rock on Mars investigated by NASA's Spirit rover suggest repeated possible exposures to water inside Gusev Crater, scientists said Thursday. Gusev is halfway around the planet from the Meridiani region where Spirit's twin, Opportunity, recently found evidence that water used to flow across the surface. This is not water that sloshed around on the surface like what appears to have happened at Meridiani. We're talking about small amounts of water, perhaps underground. The evidence is in the form of multiple coatings on the rock, as well as fractures that are filled with alteration material and perhaps little patches of alteration materia. The rock, called "Mazatzal" after mountains in Arizona, lies partially buried near the rim of the crater informally named "Bonneville" inside the much larger Gusev Crater. Its light- toned appearance grabbed scientists' attention. After Spirit's rock abrasion tool brushed two patches on the surface with wire bristles, a gray, darker layer could be seen under the tan topcoat. The rock abrasion tool ground into the surface with diamond cutting teeth on March 26. Then, after an examination of the newly exposed material, it ground deeper into the rock two days later. A lighter-gray interior lies under the darker layer, and a bright stripe cuts across both. The stripe seems to be a fracture that water has flowed through, potentially with minerals precipitating from that fluid and lining the walls of the crack. The interpretations are preliminary. Spirit's alpha particle X-ray spectrometer checked what chemical elements were close to the surface of untreated, brushed, once-drilled and twice-drilled patches. The ratio of bromine to chlorine seen inside the rock is unusually high and possibly a clue to alteration by water. The final experiment on Mazatzal was to scrub the surface with the rock abrasion tool in a pattern of five circles arranged in a ring, with a sixth circle in the center. Besides creating a rock-art daisy, this task by the engineers of New York-based Honeybee Robotics, as well as JPL, produced a brushed patch big enough to fill the field of view of Spirit's miniature thermal emission spectrometer. The tan outer surface appears to have a strikingly different mineral composition than the dark gray coating exposed by the brushing, but more time is needed to complete the analysis. The light outer coat, dark inner coat and bright veins could have resulted from three different periods of the rock being buried, altered by fluids and unburied. While scientists await transmission of additional data Spirit has collected about Mazatzal, the rover will be making its way toward the "Columbia Hills" about 2.3 kilometers (1.3 miles) away. Spirit left the rock and drove 36.5 meters (120 feet) early Thursday. Opportunity set a one-day driving record on Mars on March 27 by covering 48.9 meters (160 feet) toward a rock called "Bounce Rock" because airbag bounce marks show that the spacecraft hit it on landing day two months ago. We're looking to break that record again very soon with longer and longer drives. Before moving on across the plains of Meridiani, though, Opportunity will complete an investigation it has begun of Bounce Rock. The rock is unlike any seen on Mars before. There are some shiny surfaces on this rock as "almost mirrorlike." The two rovers' 18 cameras have now taken more than 20,000 images. JPL, a division of the California Institute of Technology in Pasadena, manages the Mars Exploration Rover project for NASA's Office of Space Science, Washington, D.C.
Move your cursor to the left and right sides of the image to activate the scroll. 360 panorama taken by NASA's Spirit rover. This 360-degree navigation camera mosaic was taken by Mars Exploration Rover Spirit on March 9, 2004, after a drive that brought the rover to less than 20 meters (66 feet) from the rim of the crater nicknamed "Bonneville." The vista provides a glimpse of the far side of the rim. It also includes a close-up look at a 1-meter-tall (3.3-foot-tall) rock called "The Hole Point," which has served as a beacon for scientists and rover operators in guiding the rover toward the crest of this rim.
For most of history, people thought the sky was unchanging and life was as it had always been. Many believed the Earth was the center of the universe and that humans were in some way "higher" than all other creatures. Then along came the Copernican revolution four centuries ago, and suddenly Earth shifted out of the center of the universe to take up its true position among the planets in our solar system. About two and a half centuries later, another revolution took place when Charles Darwin revealed the true relation between humans and all other life on Earth. These revolutions are similar for the way they shift perspective, and better inform us about our origins and our future. We now know that everything changes. In four and a half billion years the Earth changed from a hot, dry, cratered rock to a temperate, ocean-dominated world teeming with life. We also know that most of the life that ever existed on Earth has gone extinct. The way that life changes, new species arising while others disappear, only makes sense thanks to Darwin and his theory of evolution. A perspective on how things change over time is also useful in astronomy. When we look beyond the Earth, into deep space, we look back in history and we see that the universe and its contents change with time. The universe of 13.7 billion years ago has no stars, no planets, and no life of any kind. The universe was very simple then, composed only of hydrogen and helium. Slowly, clouds of these two gasses collapsed to form stars and the universe began to evolve. Stars, you see, are thermonuclear factories forming larger atoms from smaller ones. Primarily, hydrogen converts into helium, in the process releasing energy, which keeps the star from collapsing under its own gravity. Heavier stars can form larger atoms like carbon, nitrogen, and oxygen. Eventually, a star runs out of material for its nuclear furnace and it "dies". In that process, the star ejects, sometimes in a spectacular explosion, a fraction of its mass into space. The matter released by the star at death differs from the material forming the star at its birth. The ejected material is rich in heavier elements. As new generations of stars form from the "evolved" remains of the old, the content of the universe begins to change. Rocky planets form. Simple molecules like water form and collect on the surfaces of these planets. The Earth formed after eight billion years, and the deaths of countless stars. On our young rocky planet, some interesting chemistry began. Scientists debate among themselves about the origins of life on the Earth. The exact mechanism and the location of Earth's "cradle of life" remain for now shrouded in mystery. We do know, however, that the process began with the birth of the universe itself and passed through fusion fire in the hearts of giant stars. As Carl Sagan said, we are made of "star stuff". We are one result of a process of Cosmic Evolution. There is nothing particularly exceptional about the Earth. The physical and chemical processes that happened here can happen anywhere in the universe. Our modern understanding of the processes driving astronomical and biological evolution gives SETI astronomers great optimism. If intelligence evolved here, it can evolve elsewhere, and we have the technology to find it if our analogues are exploiting the electromagnetic spectrum to communicate as we do.
Happy Birthday, Charles!
The discovery of evidence for life on Earth more than 3850 million years ago naturally encourages a revival of speculation about the possibility that life did not originate on Earth, but was carried to the planet in the form of microorganisms such as bacteria, either by natural processes or deliberate seeding of the Galaxy by intelligent beings. This idea, known as panspermia, has a long history, but it is curious that in recent decades astronomers have tended to dismiss the possibility of panspermia on the grounds that microorganisms could not survive the damage caused by ultraviolet radiation and cosmic rays on their journey out of a planetary system like the Solar System while some biologists have argued that it is impossible for life to have emerged from simple molecules in the limited time available (now seen to be substantially less than 1000 million years) since the Earth formed. This has led Crick, in particular, to argue that the seeds of life were indeed carried to Earth (and presumably other planets) protected inside automated spaceprobes, a process he calls directed panspermia. Recently, however, Wesson and his colleagues have pointed out a way in which biological material could escape from a planet like the Earth orbiting a star like the Sun by natural processes, and survive with its DNA more or less intact. The problem is that although microorganisms could escape from the Earth today, their biological molecules would quickly be destroyed by radiation in the near-Earth environment. Bacteria shielded inside fine grains of material such as carbon could survive in the interplanetary environment near Earth, but would then be too heavy for the radiation pressure of the Sun today to eject them from the Solar System. The solution is to argue that suitably shielded microorganisms can be ejected from a planetary system like ours when the star is in its red giant phase. This makes it possible for natural mechanisms to seed the Galaxy with viable life forms – and even if the biological material is damaged on its journey, as these authors point out, even the arrival of fragments of DNA and RNA on Earth some 4000 million years ago would have given a kick start to the processes by which life originated here. The remaining puzzle about this process is how the grains of life-bearing dust get down to Earth. In their eagerness to suggest how microorganisms could have escaped from a planetary system, few of the proponents of natural panspermia seem to have worried unduly about how the life-bearing grains get back down to a planetary surface. But the work of Wesson and his colleagues naturally leads one to surmise that the immediate fate of the microorganisms ejected from a planetary system during the red giant phase will be to mingle with the other material ejected from the star, forming part of the material of interstellar space and becoming part of an interstellar molecular cloud. When a new planetary system forms from such a cloud, it is likely that the accretion processes in he circumstellar disc produce very large numbers of cometary bodies, which preserve intact the material of the cloud. Although the processes of accretion of a planet like the Earth generate heat which would destroy any microorganisms present (and which may well have driven off all the primordial volatiles), it is likely that as the planet cools it will be bombarded by comets containing large amounts of primordial material (and water) down to the surface. If this material includes dormant bacteria, or even fragments of DNA, life will be able to get a grip on the planet as soon as its surface cools, as seems to have happened on Earth. The possibility that comets may have brought the seeds of life to Earth in this way has been discussed by, for example, McKay; but those earlier suggestions required that the orghanic mateerial was ejected from Earth-like planets inside rocky debris as a result if meteoritic impacts. It is difficult to see how material in this form could have become a general feature of the interstellar medium, or, indeed, how it would get in to comets. What I propose here, in the light of the work of Wesson and his colleagues, is that organic material is not only a natural and widely dispersed component of the interstellar medium, but will inevitably be incorporated into the material from whoch new planets form. The immediate difficulty faced by this hypothesis is explaining why life did not get a grip on Venus or Mars, as well – but that is a difficulty shared by all variations on the panspermia theme. Unlike those other variations on the theme, though, this one is testable. It would be feasible to obtain material from a long-period comet, which has never previously entered the inner Solar System, and analyse this material for traces of DNA. If the hypothesis is correct, there should be biological material very similar to that of life on Earth in these comets.
La vita su altri mondi nella storia del pensiero...
Considererò Giordano Bruno (1548-1600) come il primo ad avere teorizzato con forza l'infinità dell'Universo e quindi la mancanza di un centro all'interno di esso e - ciò che a noi più interessa in questa sede - la possibilità che vi siano altri mondi che ospitino la vita oltre il nostro. Sicuramente qualche altro pensatore prima di lui avrà fatto queste ipotesi per il suo tempo audaci, ma il pensiero di Bruno - interamente documentato dai suoi numerosi scritti pervenutici - è quello che forse ha maggiormente ispirato la ricerca moderna. Per queste sue idee raccolte nei Dialoghi Italiani, certamente ispirate dall'aria di rinnovamento introdotta dalla rivoluzione copernicana e considerate eretiche da una cultura a quel tempo ancora fortemente legata ai dettami dell'aristotelismo, Bruno fu costretto a fuggire dall'Italia, cosa che gli offrì l'occasione di diffondere la sua nuova dottrina in tutte le più importanti Università europee. Tornato incautamente in territorio italiano, fu immediatamente arrestato dall'Inquisizione durante un suo soggiorno a Venezia. Fermamente convinto della pluralità di mondi simili al nostro, il famosissimo processo intentatogli a Roma lo vide strenuamente convinto delle sue idee. Si rifiutò di abiurare e, per le sue idee definite eretiche dalla chiesa, fu arso vivo a Roma- in Campo dei Fiori- il 17 febbraio del 1600. Egli riuscì, basandosi sugli incerti inizi della scienza moderna ravvisabili progressivamente negli scritti di Averroè, Erasmo, Telesio e del mago Paracelso, a intravedere scenari che avrebbero caratterizzato il dibattito cosmologico che si svolgerà solo quattrocento anni circa dopo la sua morte. Riporto di seguito uno dei passi più illuminanti circa la grande visionarietà di Bruno, tratto dal De l'infinito, universo e mondi, V...
[...]Non bisogna dunque cercare, se estro il cielo sia loco, vacuo o tempo; perché uno è il loco generale, uno il spacio immenso che chiamar possiamo liberamente vacuo; in cui sono innumerabili ed infiniti globi, come vi è questo in cui vivemo e vegetamo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo: in esso sono infiniti mondi simili a questo, e non differenti in geno da questo.[...]
L'idea di infinito è comunque molto antica e altrettanto antica è la concezione di un Universo gravido di semi di tutte le cose conosciute, quindi anche di vita. All'alba del pensiero greco si possono trovare le prime idee circa questa infinita produttività fra quei presocratici che- liberi da limitazioni culturali pregresse (come si verificò invece nel caso della società europea dell'epoca di Bruno, società che - come si diceva - era fortemente condizionata dalla "scolastica" aristotelica) potevano combinare liberamente poesia e arte in generale, mito, scienza e filosofia; un cocktail, questo, che si dimostrò così vincente da costituire le fondamenta di tutto il pensiero occidentale. Il concetto di infinito sembra quindi aver fatto la sua comparsa con la filosofia di Anassimandro (611-547 a.C.), discepolo di Talete, sotto forma di àpeiron (in greco infinito, illimitato). Da esso "con un moto vorticoso" i gonima (in greco, germi) dei contrari come acqua, fuoco, terra, aria, caldo e freddo di cui si pensava fosse costituita la materia animata e inanimata, si dipartono per andare a costituire la realtà che noi esperiamo. Per Anassagora (circa 500-428 a.C.), in modo in questo simile a quanto teorizzato da Anassimandro, i semi del reale, "le cose che sono", sono presenti in un magma, una mistione primordiale e infinita dei semi di tutte le cose, indistinguibili tra loro. Forse proprio l'avere elaborato concetti come quello di infinito e di origine delle cose del reale, spinse da subito la ricerca filosofica a dibattere sulla possibilità di altre forme di vita nell'Universo e trovò da subito illustri sostenitori come anche importanti detrattori. Tra questi Platone e Aristotele, nella cui filosofia non c'è posto per l'ipotesi dell'esistenza di altri mondi. Di ben altre vedute furono i pitagorici che guardavano alla Luna come a un mondo abitato da esseri superiori e gli atomisti Leucippo (460-370 a.C.) e Democrito (V secolo a.C.) capaci di immaginare come parti del tutto infinito, contenente pieni e vuoti, possano essersi staccate e ricombinate altrove nel vuoto per dare origine ad altri mondi. A questi pensatori greci fanno eco il filosofo Epicuro (341-270 a.C.) e il poeta Lucrezio ispiratosi alle teorie epicuree. Secondo Epicuro, proprio come suggerito dai primi atomisti, il mondo è stato generato dal distacco di una parte del tutto che se ne è allontanata per conservare un ordine precario. Ritornano quindi idee come quella di ordine (cosmo) e di questo allontanamento da un serbatoio caotico di potenzialità dal quale tutto si genera per tentare di ricostruire l'ordine originario. In questa visione trovano esplicitamente spazio altri mondi e altri esseri viventi che già nel pensiero epicureo possono assumere sembianze non umane. Nel 1686, molto probabilmente ispirato dal pensiero di Bruno, lo scrittore francese Bernard de Fontanelle scrive i Discorsi sulla pluralità de' mondi. L'anno è quello precedente la pubblicazione dei Principia di Isaac Newton, mentre Cartesio aveva già pubblicato nel 1644 i suoi Principi della filosofia da cui Fontanelle mutua l'idea di un Universo dominato dai vortici nel quale non vi è un centro e nel quale le stelle fisse altro non sono che soli simili al nostro. Chiaramente il momento storico era favorevole alla rivoluzione scientifica preparata coraggiosamente da Galileo, Keplero e Copernico e rappresenta la vittoria postuma del pensiero di Bruno. La legge di gravitazione universale di Newton inoltre, dato il suo carattere di universalità, autorizzava a pensare che la configurazione osservata del Sistema Solare dovesse potere estendersi ben al di là del Sistema Solare stesso. Altre stelle simili al Sole avrebbero avuto un corteo di pianeti simile a quello orbitante attorno al nostro astro (pensiero suggerito anche dall'osservazione di Giove e dei suoi satelliti, un sistema solare in miniatura) e avrebbero potuto ospitare forme di vita simili alla nostra. Comunque, nonostante l'apparizione sulla scena di Newton, l'ambito del dibattito sulla pluralità dei mondi e la vita extraterrestre dovrà attendere l'affermarsi di una scienza astronomica matura, nata con l'attività di Galileo, per uscire dall'angusto ambito mistico-filosofico che la contraddistinguerà ancora per alcuni secoli. Bisognerà attendere infatti il 1920, anno del Great Debate, per vedere degli astronomi riuniti a discutere con metodi scientifici della natura degli universi-isola, termine col quale il grande filosofo Immanuel Kant (1724-1804), evidentemente convinto della possibilità di altri mondi, battezzò le nebulose lontane nella sua opera Storia generale della natura e teoria del cielo. L'indistinguibilità dei semi o germi generati nell'apeiron si traduce quindi nella distinguibilità delle cose che da essi derivano, degli oggetti del reale come degli esseri viventi. Questo scenario metafisico trova una possibile traduzione nel linguaggio della scienza moderna nella forma della teoria proposta all'inizio del secolo scorso dal chimico svedese Svante Arrhenius il quale immaginò che la vita possa essere stata condotta in tutto il cosmo da spore (batteri intrappolati in proteine) presenti nello spazio. Questa affascinante teoria, che va sotto il nome di panspermia, ha conosciuto in seguito delle varianti ottenute immaginando che i vettori responsabili della propagazione dei germi siano state o le meteoriti - e in questo caso si parla di litopanspermia - o la pressione di radiazione stellare, caso nel quale si parla di radiopanspermia. Queste spore partite da un pianeta che ospita la vita e in seguito diffuse nello spazio, porterebbero il germe vitale sui pianeti che le catturano con la loro forza di attrazione gravitazionale. Un altro tipo di panspermia, la cosiddetta panspermia guidata, è quella proposta dal premio Nobel Francis Crick il quale, coadiuvato da Leslie Orgel, pensò di risolvere il problema del difficile insorgere spontaneo di una vita intelligente sulla Terra teorizzando che le spore siano state portate in posti adatti alo sviluppo della vita da una o più civiltà avanzate diffuse ovunque nell'Universo. Il problema insito in queste posizioni teoriche rimane sempre e comunque l'assenza di una spiegazione valida dell'effettiva origine della vita. Si potrebbe pensare che questo fenomeno sia nato con il nostro Universo, con lo spazio e il tempo, e che ne costituisca una proprietà peculiare. Contro questa idea, paragonabile a certe posizioni definite antropiche, viene opposta la tesi che la vita come la conosciamo noi richieda una tale complessità molecolare da escluderne già la presenza in un Universo giovane di alcuni miliardi di anni. Un'altra obiezione generalmente opposta alla panspermia nelle forme proposte da Arrhenius è che l'enorme quantitativo di radiazioni di tutte le lunghezze d'onda che permeano l'Universo in alcune bande come quella X, gamma e ultravioletta, avrebbe il potere di spezzare i legami chimici delle spore inibendone il potenziale vitale. Recenti esperimenti condotti in orbita sembrano comunque dimostrare che, esponendo un certo quantitativo di materiale organico alla radiazione presente al di fuori dell'atmosfera, un numero esiguo ma in ogni caso importante di molecole riesce inaspettatamente a resistere indenne all'esposizione, rendendo meno improbabile la teoria panspermica. Il termine panspermia non è il solo nato in questa prima fase di ricerca scientifica delle nostre origini biologiche e di altre forme di vita altrove nell'Universo. Chiamata esobiologia per tanti anni, a sottolineare come la biologia abbia costituito l'ambito privilegiato di queste ricerche, la disciplina assume una certa risonanza con la scoperta - valsa il Nobel a Urey e Miller - dell'importanza della radiazione elettromagnetica nei processi chimici e biologici avvenuti nell'ambiente terrestre primordiale. Ebbe così inizio la fase multidisciplinare di questo tipo di ricerche che tra le prime conseguenze annoverò la coniazione del nuovo vocabolo bioastronomia introdotto nella nomenclatura scientifica dall'Unione Astronomica Internazionale per indicare il nuovo orientamento delle ricerche volte a comprendere il fenomeno vita su scala cosmica e la correlazione tra eventi spaziali e terrestri. Con Aristotele si può considerare iniziato anche il filone teorico che vuole la vita come generatasi spontaneamente dalla materia inerte, cosa che si può trovare, con le dovute differenze, anche nella Genesi come in molti miti primitivi e che verrà pure ripresa in seguito da grandi pensatori come Galileo, Newton e Cartesio. Questa ipotesi ebbe vita facile fintanto che Francesco Redi prima, e Louis Pasteur circa due secoli più tardi, la misero in discussione mostrando come la generazione spontanea non poteva essere considerata alla base del fenomeno della fermentazione, caso nel quale vennero identificati come responsabili alcuni microrganismi.
DIGRESSIONE...
THE
ORIGIN OF LIFE ON THE EARTH
Leslie E. Orgel
ARTICLE: Scientific American
LESLIE E. ORGEL is senior fellow and research professor at the Salk Institute for Biological Studies in San Diego, which he joined in 1965. He obtained his Ph.D. in chemistry from the University of Oxford in 1951 and subsequently became a reader in chemistry at the University of Cambridge. While at Cambridge, he contributed to the development of ligand- field theory. The National Aeronautics and Space Administration supports his extensive research on chemistry that may be relevant to the origin of life. Orgel is a fellow of the Royal Society and a member of the National Academy of Sciences.
Growing evidence supports the idea that the emergence of catalytic RNA was a crucial early step. How that RNA came into being remains unknown. When the earth formed some 4.6 billion years ago, it was a lifeless, inhospitable place. A billion years later it was teeming with organisms resembling blue-green algae. How did they get there? How, in short, did life begin? This long-standing question continues to generate fascinating conjectures and ingenious experiments, many of which center on the possibility that the advent of self-replicating RNA was a critical milestone on the road to life. Before the mid-17th century, most people believed that God had created humankind and other higher organisms and that insects, frogs and other small creatures could arise spontaneously in mud or decaying matter. For the next two centuries, those ideas were subjected to increasingly severe criticism, and in the mid-19th century two important scientific advances set the stage for modern discussions of the origin of life. In one advance Louis Pasteur discredited the concept of spontaneous generation. He offered proof that even bacteria and other microorganisms arise from parents resembling themselves. He thereby highlighted an intriguing question: How did the first generation of each species come into existence ? The second advance, the theory of natural selection, suggested an answer. According to this proposal, set forth by Charles Darwin and Alfred Russel Wallace, some of the differences between individuals in a population are heritable. When the environment changes, individuals bearing traits that provide the best adaptation to the new environment meet with the greatest reproductive success. Consequently, the next generation contains an increased percentage of well-adapted individuals displaying the helpful characteristics. In other words, environmental pressures select adaptive traits for perpetuation. Repeated generation after generation, natural selection could thus lead to the evolution of complex organisms from simple ones. The theory therefore implied that all current life-forms could have evolved from a single, simple progenitor - an organism now referred to as life's last common ancestor. (This life-form is said to be "last" not "first" because it is the nearest shared ancestor of all contemporary organisms; more distant ancestors must have appeared earlier.). Darwin, bending somewhat to the religious biases of his time, posited in the final paragraph of The Origin of Species that "the Creator" originally breathed life "into a few forms or into one." Then evolution rook over: "From so simple a beginning endless forms most beautiful and most wonderful have been, and are being evolved." In private correspondence, however, he suggested life could have arisen through chemistry, "in some warm little pond, with all sorts of ammonia and phosphoric salts, light, heat, electricity, etc. present." For much of the 20th century, origin-of-life research has aimed to flesh out Darwin's private hypothesis - to elucidate how, without supernatural intervention, spontaneous interaction of the relatively simple molecules dissolved in the lakes or oceans of the prebiotic world could have yielded life's last common ancestor. Finding a solution to this problem requires knowing something about that ancestor's characteristics. Obviously, it had to possess genetic information - that is, heritable instructions for functioning and reproducing - and the means to replicate and carry out those instructions. Otherwise it would have left no descendants. Also, its system for replicating its genetic material had to allow for some random variation in the heritable characteristics of the offspring so that new traits could be selected and lead to the creation of diverse species. Scientists have attained more insight into the character of the last common ancestor by identifying commonalities in contemporary organisms. One can safely infer that intricate features present in all modern varieties of life also appeared in that common ancestor. After all, it is next to impossible for such universal traits to have evolved separately. The rationale is the same as would apply to discovery of two virtually identical screenplays, differing only in a few words. It would be unreasonable to think that the scripts were created independently by two separate authors. By the same token, it would be safe to assume that one script was an imperfect replica of the other or that both versions were slightly altered copies of a third. One readily apparent commonality is that all living things consist of similar organic (carbon-rich) compounds. Another shared property is that the proteins found in present-day organisms are fashioned from one set of 20 standard amino acids. These proteins include enzymes (biological catalysts) that are essential to development, survival and reproduction. Further, contemporary organisms carry their genetic information in nucleic acids - RNA and DNA - and use essentially the same genetic code. This code specifies the amino acid sequences of all the proteins each organism needs. More precisely, the instructions take the form of specific sequences of nucleotides, the building blocks of nucleic acids. These nucleotides consist of a sugar (deoxyribose in DNA, and ribose in RNA), a phosphate group and one of four different nitrogen-containing bases. In DNA, the bases are adenine (A), guanine (G), cytosine (C) and thymine (T). In RNA, uracil (U) substitutes for thymine. The bases constitute the alphabet, and triplets of bases form the words. As an example, the triplet CUU in RNA instructs a cell to add the amino acid leucine to a growing strand of protein. From such findings we can infer that our last common ancestor stored genetic information in nucleic acids that specified the composition of all needed proteins. It also relied on proteins to direct many of the reactions required for self-perpetuation. Hence, the central problem of origin-of-life research can be refined to ask, By what series of chemical reactions did this interdependent system of nucleic acids and proteins come into being ? Anyone trying to solve this puzzle immediately encounters a paradox. Nowadays nucleic acids are synthesized only with the help of proteins, and proteins are synthesized only if their corresponding nucleotide sequence is present. It is extremely improbable that proteins and nucleic acids, both of which are structurally complex, arose spontaneously in the same place at the same time. Yet it also seems impossible to have one without the other. And so, at first glance, one might have to conclude that life could never, in fact, have originated by chemical means. In the late 1960s Carl R. Woese of the University of Illinois, Francis Crick, then at the Medical Research Council in England, and I (working at the Salk Institute for Biological Studies in San Diego) independently suggested a way out of this difficulty. We proposed that RNA might well have come first and established what is now called the RNA world - a world in which RNA catalyzed all the reactions necessary for a precursor of life's last common ancestor to survive and replicate. We also posited that RNA could subsequently have developed the ability to link amino acids together into proteins. This scenario could have occurred, we noted, if prebiotic RNA had two properties not evident today: a capacity to replicate without the help of proteins and an ability to catalyze every step of protein synthesis. There were a few reasons why we favored RNA over DNA as the originator of the genetic system, even though DNA is now the main repository of hereditary information. One consideration was that the ribonucleotides in RNA are more readily synthesized than are the deoxyribonucleotides in DNA. Moreover, it was easy to envision ways that DNA could evolve from RNA and then, being more stable, take over RNA's role as the guardian of heredity. We suspected that RNA came before proteins in part because we had difficulty composing any scenario in which proteins could replicate in the absence of nucleic acids. During the past 10 years, a fair amount of evidence has lent credence to the idea that the hypothetical RNA world did exist and lead to the advent of life based on DNA, RNA and protein. Notably, in 1983 Thomas R. Cech of the University of Colorado at Boulder and, independently, Sidney Altman of Yale University discovered the first known ribozymes, enzymes made of RNA. Until then, proteins were thought to carry out all catalytic reactions in contemporary organisms. Indeed, the term "enzyme" is usually reserved for proteins. The first ribozymes identified could do little more than cut and join preexisting RNA. Nevertheless, the fact that they behaved like enzymes added weight to the notion that ancient RNA might also have been catalytic.
The Original Origin-of-Life Experiment
In the early 1950s Stanley L.Miller, working in the laboratory of Harold C. Urey at the University of Chicago, did the first experiment designed to clarify the chemical reactions that occurred on the primitive earth. In the flask at the bottom, he created an "ocean" of water, which he heated, forcing water vapor to circulate through the apparatus. The flask at the top contained an "atmosphere" consisting of methane (CH4), ammonia (NH3), hydrogen (H2) and the circulating water vapor. Next he exposed the gases to a continuous electrical discharge ("lightning"), causing the gases to interact. Water-soluble products of those reactions then passed through a condenser and dissolved in the mock ocean. The experiment yielded many amino acids and enabled Miller to explain how they had formed. For instance, glycine appeared after reactions in the atmosphere produced simple compounds - formaldehyde and hydrogen cyanide - that participated in the set of reactions that took place. Years after this experiment, a meteorite that struck near Murchison, Australia, was shown to contain a number of the same amino acids that Miller identified (table) and in roughly the same relative amounts (dots); those found in proteins are highlighted in blue. Such coincidences lent credence to the idea that Miller's protocol approximated the chemistry of the prebiotic earth. More recent findings have cast some doubt on that conclusion. So far no RNA molecules that direct the replication of other RNA molecules have been identified in nature. But ingenious techniques devised by Cech and Jack W. Szostak of the Massachusetts General Hospital have modified naturally occurring ribozymes so that they can carry out some of the most important subreactions of RNA replication, such as stringing together nucleotides or oligonucleotides (short sequences of nucleotides). Quite recently Szostak found even stronger evidence that an RNA molecule produced by prebiotic chemistry could have carried out RNA replication on the early earth. He started by creating a pool of random oligonucleotides, to approximate the random production presumed to have occurred some four billion years ago. From that pool he was able to isolate a catalyst that could join together oligonucleotides. Equally important, the catalyst could draw energy for the reaction from a triphosphate group (three joined phosphates), the very same group that now fuels most biochemical reactions in living systems, including nucleic acid replication. Such a resemblance supports the idea that an RNA molecule could have behaved like, and preceded, the protein catalysts that today carry out the replication of genetic material in living organisms. Much remains to be done, but it now seems likely that some kind of RNA-catalyzed reproduction of RNA will be demonstrated in the not too distant future. Studies of ribosomes, often called the protein factories of cells, have provided support for another important part of the RNA-world hypothesis: the proposition that RNA could have created protein synthesis. Ribosomes, which consist of ribosomal RNA and protein, travel along strands of messenger RNA (single-strand transcripts of protein-coding genes carried by DNA). As the ribosomes move, they link one specified amino acid to the next by forming peptide bonds between them. Harry F. Noller, Jr., of the University of California at Santa Cruz has found that it is probably the RNA in ribosomes, not the protein, that catalyzes formation of the peptide bonds. Other work indicates that primitive RNA would have been able to evolve, as would be required of any material that gave rise to the genes in life's last common ancestor. Sol Spiegelman, when at the University of Illinois, and researchers inspired by his ideas have demonstrated that RNA molecules can be induced to take on new traits. For instance, when RNA was allowed to replicate repeatedly in the presence of a ribonuclease (an enzyme that normally breaks down RNA), the RNA eventually became resistant to the degradative enzyme. Similarly, Gerald F. Joyce of the Scripps Research Institute and others have recently applied more sophisticated procedures to derive ribozymes that cleave a variety of chemical bonds, including peptide bonds. Thus, there is good reason to think the RNA world did exist and that RNA invented protein synthesis. If this conclusion is correct, the main task of origin-of-life research then becomes explaining how the RNA world came into being. The answer to this question requires knowing something about the chemistry of the prebiotic soup: the aqueous solution of organic molecules in which life originated. Fortunately, even before the RNA-world hypothesis was proposed, investigators had gained useful insights into that chemistry. By the 1930s Alexander I. Oparin in Russia and J.B.S. Haldane in England had pointed out that the organic compounds needed for life could not have formed on the earth if the atmosphere was as rich in oxygen (oxidizing) as it is today. Oxygen, which takes hydrogen atoms from other compounds, interferes with the reactions that transform simple organic molecules into complex ones. Oparin and Haldane proposed, therefore, that the atmosphere of the young earth, like that of the outer planets, was reducing: it contained very little oxygen and was rich in hydrogen (H2) and compounds that can donate hydrogen atoms to other substances. Such gases were presumed to include methane (CH4) and ammonia (NH3). Oparin's and Haldane's ideas inspired the famous Miller-Urey experiment, which in 1953 began the era of experimental prebiotic chemistry. Harold C. Urey of the University of Chicago and Stanley L. Miller, a graduate student in Urey's laboratory, wondered about the kinds of reactions that occurred when the earth was still enveloped in a reducing atmosphere. In a self-contained apparatus, Miller created such an "atmosphere." It consisted of methane, ammonia, water and hydrogen above an "ocean" of water. Then he subjected the gases to "lightning" in the form of a continuous electrical discharge. After a few days, he analyzed the contents of the mock ocean. Miller found that as much as 10 percent of the carbon in the system was converted to a relatively small number of identifiable organic compounds, and up to 2 percent of the carbon went to making amino acids of the kinds that serve as constituents of proteins. This last discovery was particularly exciting because it suggested that the amino acids needed for the construction of proteins - and for life itself - would have been abundant on the primitive planet. At the time, investigators were not yet paying much attention to the origin of nucleic acids- they were most interested in explaining how proteins appeared on the earth. Careful analyses elucidated many of the chemical reactions that occurred in the experiment and thus might have occurred on the prebiotic planet. First, the gases in the "atmosphere" reacted to form a suite of simple organic compounds, including hydrogen cyanide (HCN) and aldehydes (compounds containing the group CHO ). The aldehydes then combined with ammonia and hydrogen cyanide to generate intermediary products called aminonitriles, which interacted with water in the "ocean" to produce amino acids and ammonia. Glycine was the most abundant amino acid, resulting from the combination of formaldehyde (CH2O), ammonia and hydrogen cyanide. A surprising number of the standard 20 amino acids were also made in lesser amounts. Since then, workers have subjected many different mixtures of simple gases to various energy sources. The results of these experiments can be summarized neatly. Under sufficiently reducing conditions, amino acids form easily. Conversely, under oxidizing conditions, they do not arise at all or do so only in small amounts. Similar studies provided some of the first evidence that the-components of nucleic acids could have formed in the prebiotic soup as well. In 1961 Juan Oró, then at the University of Houston, tried to determine whether amino acids could be obtained by even simpler chemistry than had operated in the Miller-Urey experiment. He mixed hydrogen cyanide and ammonia in an aqueous solution, without introducing an aldehyde. He found that amino acids could indeed be produced from these chemicals. In addition, he made an unexpected discovery: the most abundant complex molecule identified was adenine. Adenine, it will be recalled, is one of the four nitrogen-containing bases present in RNA and DNA. It is also a component of adenosine triphosphate (ATP), now the major energy-providing molecule of biochemistry. Oró's work implied that if the atmosphere was indeed reducing, adenine - arguably one of the most essential biochemicals - would have been available to help get life started. Later studies established that the remaining nucleic acid bases could be obtained from reactions among hydrogen cyanide and two other compounds that would have formed in a reducing prebiotic atmosphere: cyanogen (C2N2) and cyanoacetylene (HC3N). Hence, early experiments seemed to indicate that under plausible prebiotic conditions, important constituents of proteins and nucleic acids could have been present on the early earth. Strikingly, many of the same compounds generated in these various experiments have also been shown to exist in outer space. A family of amino acids that overlaps strongly with those formed in the Miller-Urey experiment has been identified in carbonaceous meteorites, along with the purine bases (adenine and guanine). Further more, the family of small molecules that laboratory experiments have implicated as participating in prebiotic syntheses - water, ammonia, formaldehyde, hydrogen cyanide and cyanoacetylene - is abundant in interstellar dust clouds, where new stars are born. The coincidence between the molecules present in outer space and those produced in laboratory simulations of prebiotic chemistry has generally been interpreted to mean that the simulations have painted a reasonable picture of the chemistry that occurred on the young earth. I should note, however, that this conclusion is now shakier than it once seemed. Doubt has arisen because recent investigations indicate the earth's atmosphere was never as reducing as Urey and Miller presumed. I suspect that many organic compounds generated in past studies would have been produced even in an atmosphere containing less hydrogen, methane and ammonia. Still, it seems prudent to consider other mechanisms for the accumulation of the constituents of proteins and nucleic acids in the prebiotic soup. For instance, the amino acids and nitrogen-containing bases needed for life on the earth might have been delivered by interstellar dust, meteorites and comets. During the first half a billion years of the earth's history, bombardment by meteorites and comets must have been intense, although the extent to which organic material could have survived such impacts is debatable. It is also possible, though less likely, that some of the organic materials required for life did not originate at the earth's surface at all. They may have arisen in deep-sea vents, the submarine fissures in the earth's crust through which intensely hot gases are cycled. Even if we assume that one process or another allowed the constituents of nucleic acids to appear on the prebiotic planet, those of us who favor the RNA-world hypothesis still have to explain how self-replicating RNA was created from these constituents. The simplest hypothesis presumes that the nucleotides in RNA formed when direct chemical reactions led to joining of the sugar ribose with nucleic acid bases and phosphate (which would have been available in inorganic material). Next, these ribonucleotides spontaneously joined to form polymers, at least one of which happened to be capable of engineering its own reproduction. This scenario is attractive but, as will be seen, has proved hard to confirm. First of all, in the absence of enzymes, workers have had trouble synthesizing ribose in adequate quantity and purity. It has long been known that ribose can be produced easily through a series of reactions between molecules of formaldehyde. Yet when such reactions occur, they yield a mixture of sugars in which ribose is always a minor product. The relative paucity of ribose would militate against development of an RNA world, because the other sugars would combine with nucleic acid bases to form products that inhibit RNA synthesis and replication. No one has yet discovered a simple, complete chain of reactions that ends with ribose as the main product. What is more, attempts to synthesize nucleotides directly from their components under prebiotic conditions have met with only modest success. One encouraging series of experiments has yielded purine nudeosides - that is, units consisting of ribose and a purine base but not including the phosphate group that would be present in a finished nucleotide. Unfortunately, investigators have been unable to produce pyrimidine nucleosides (combinations of ribose with cytosine or uracil) efficiently without the aid of enzymes. Formation of nucleotides by combining phosphate with nucleosides has been achieved by simple prebiotic reactions. But the kinds of nucleotides that occur in nature arose along with related molecules having incorrect structures. If such mixtures were produced on the young planet, the abnormal nucleotides would have interacted with the normal ones to interfere with catalysis and RNA replication. Hence, although each step of ribonucleotide synthesis can be achieved to some extent, it is not easy to see how prebiotic reactions could have led to the development of the ribonucleotides needed for producing self-replicating RNA.One way around this problem is to assume that inorganic catalysts were available to ensure that only the correct nucleotides formed. For instance, when the components of nucleotides became adsorbed on the surface of some mineral, that mineral might have caused them to combine only in specific orientations. The possibility that minerals served as useful catalysts remains real, but none of the minerals tested so far has been shown to have the specificity needed to yield only nucleotides having the correct architecture. It is also possible that nonenzymatic reactions leading to the efficient synthesis of pure ribonucleotides did occur but that scientists have simply failed to identify them. As a case in point, Albert Eschenmoser of the Swiss Federal Institute of Technology recently managed to limit the number of different sugars generated when ribose was made from the polymerization of formaldehyde molecules. In his experiments, he substituted a normal intermediate of the ribose-forming reaction with a closely related, phosphorylated compound and then allowed the later steps to proceed. Under some conditions, the main end product of the process was a phosphorylated derivative of ribose. The phosphate groups on this product would have had to be rearranged in order to produce the phosphorylated ribose found in ribonucleotides. Nevertheless, the results do suggest that undiscovered reactions in the prebiotic soup could have led to the efficient synthesis of ribonucleotides. Let us assume investigators could prove that ribonucleotides were able to emerge nonenzymatically. Workers who favor the simple scenario described above would still have to demonstrate that the nucleotides could assemble into polymers and that the polymers could replicate without assistance from proteins. Many researchers are now struggling with these challenges. Once again, minerals could conceivably have catalyzed the joining of reactive nucleotides into polymers. Indeed, James P. Ferris of the Rensselaer Polytechnic Institute finds that a common clay, montmorillonite, catalyzes the synthesis of RNA oligonucleotides. It is harder to conceive of the steps by which RNA might have begun to replicate in the absence of proteins. Early work in my laboratory initially suggested that such replication was possible. In these experiments, we synthesized oligonucleotides and mixed them with free nucleotides. The nucleotides lined up on the oligonucleotides and combined with one another to form new oligonucleotides. To be more specific, since 1953, when James D. Watson and Francis Crick solved the three-dimensional structure of DNA, it has been known that adenine in nucleotides pairs with thymine in DNA and with uracil in RNA. Similarly, guanine pairs with cytosine. Such coupled units are now known as Watson- Crick base pairs. The oligonucleotides that emerged in our experiments arose through Watson-Crick base pairing and were thus complementary to the original strands. For example, a template that was made solely of cytosine-bearing ribonucleotides directed construction of a complementary polymer consisting entirely of guanine-bearing ribonucleotides. Forming such complements from an original template - a process I shall refer to as "copying" - would be the first step in prebiotic replication of a selected strand of RNA. Then the strands would have to separate, and a complement of the complement (a replica of the original strand) would have to be constructed. The experiments described above clearly established that the mutual attraction between adenine and uracil and between guanine and cytosine is sufficient by itself to yield complementary strands of many nucleotide sequences. Enzymes simply make the process more efficient and allow a broader range of RNAs to be copied. After years of trying, however, we have been unable to achieve the second step of replication - copying of a complementary strand to yield a duplicate of the first template - without help from protein enzymes. Equally disappointing, we can induce copying of the original template only when we run our experiments with nucleotides having a right-handed configuration. All nucleotides synthesized biologically today are right-handed. Yet on the primitive earth, equal numbers of right- and left-handed nucleotides would have been present. When we put equal numbers of both kinds of nucleotides in our reaction mixtures, copying was inhibited. All these problems are worrisome, but they do not completely rule out the possibility that RNA was initially synthesized and replicated by relatively uncomplicated processes. Perhaps minerals did indeed catalyze both the synthesis of properly structured nucleotides and their polymerization to a random family of oligonucleotides. Then copying without replication would have produced a pair of complementary strands. If, as Szostak has posited, one of the strands happened to be a ribozyme that could copy its complement and thus duplicate itself, the conditions needed for exponential replication of the two strands would have been established. This scenario is certainly very optimistic, but it could be correct. Because synthesizing nucleotides and achieving replication of RNA under plausible prebiotic conditions have proved so challenging, chemists are increasingly considering the possibility that RNA was not the first self-replicating molecule on the primitive earth - that a simpler replicating system came first. In this view, RNA would be the Frankenstein that finally displaced its inventor. A. Graham Cairns-Smith of the University of Glasgow was the first to speculate on this kind of genetic takeover. He and others argue that the components of the first genetic system were either very simple or could at least be generated simply. Cairns-Smith has also put forward one of the most radical proposals for the nature of this early genetic system. Some 30 years ago he proposed that the very first replicating system was inorganic. He envisaged irregularities in the structure of a clay - for example, an irregular distribution of cations (positively charged ions) - as the repository of genetic information. Replication would be achieved in this example if any given arrangement of the cations in a preformed layer of clay directed the synthesis of a new layer with an almost identical distribution of cations. Selection could be achieved if the distribution of cations in a layer determined how efficiently that layer would be copied. So far no one has tested this daring hypothesis in the laboratory. On theoretical grounds, however, it seems implausible. Structural irregularities in clay that were complicated enough to set the stage for the emergence of RNA probably would not be amenable to accurate self-replication. Other investigators have also begun to take up the search for alternative genetic materials. In one intriguing example, Eschenmoser has created a molecule called pyranosyl RNA (pRNA) that is closely related to RNA but incorporates a different version of ribose. In natural RNA, ribose contains a five- member ring of four carbon atoms and one oxygen atom; the ribose in Eschenmoser's structure is rearranged to contain an extra carbon atom in the ring. Eschenmoser finds that complementary strands of pyranosyl RNA can combine by standard Watson-Crick pairing to give double-strand units that permit fewer unwanted variations in structure than are possible with normal RNA. In addition, the strands do not twist around each other, as they do in double- strand RNA. In a world without protein enzymes, twisting could prevent the strands from separating cleanly in preparation for replication. In many ways, then, pyranosyl RNA seems better suited for replication than RNA itself. If simple means for synthesizing ribonucleotides containing a six-member sugar ring were found, a case could be made that this form of RNA may have preceded the more familiar form of the molecule. In quite a different approach, Peter E. Nielsen of the University of Copenhagen has used computer-assisted model building to design a polymer that combines a protein-like backbone with nucleic acid bases for side chains. As is true of RNA, one strand of this polymer, or peptide nucleic acid (PNA), can combine stably with a complementary strand; this result implies that, as is true of standard RNA, peptide RNA may be able to serve as a template for the construction of its complement. Many polymers with related backbones may behave in a similar way; perhaps one of them was involved in an early genetic system.Both pyranosyl RNA and peptide nucleic acids rely on Watson-Crick base pairs as the structural element that makes complementary pairing possible. Investigators interested in discovering simpler genetic systems are also trying to build complementary molecules that do not depend on nucleotide bases for template-directed copying. So far, however, there is no good evidence that polymers constructed from such building blocks can replicate. The search for antecedents of RNA can be expected to become a major focus of experimentation for prebiotic chemists. Whether RNA arose spontaneously or replaced some earlier genetic system, its development was probably the watershed event in the development of life. It very likely led to the synthesis of proteins, the formation of DNA and the emergence of a cell that became life's last common ancestor. The precise events giving rise to the RNA world remain unclear. As we have seen, investigators have proposed many hypotheses, but evidence in favor of each of them is fragmentary at best. The full details of how the RNA world, and life, emerged may not be revealed in the near future. Nevertheless, as chemists, biochemists and molecular biologists cooperate on ever more ingenious experiments, they are sure to fill in many missing parts of the puzzle.
Leslie E. Orgel
FINE DIGRESSIONE
Un lungo commento scettico ricevuto via e-mail da Stefano Sghedoni sulla cosiddetta Panspermia, teoria secondo la quale la vita sulla Terra sarebbe arrivata dallo spazio.
Mi ritengo un po' scettico sull' IPOTESI "panspermica". Si tratta di una vecchia ipotesi già abbandonata in passato e tornata in auge dopo la scoperta, alcuni anni fa, del famoso meteorite proveniente da Marte e ritrovato in Antartide, con impronte simili a quelle fossili lasciate da alcuni batteri in altre rocce terrestri, (anche se differenti da queste soprattutto per dimensioni), cosa non ancora confermata da alcun ricercatore, anche se comunque ritenuta plausibile. Ammesso che su altri pianeti del sistema solare possano, un tempo, essere esistite forme di vita di tipo molto semplice, come microrganismi, (e Marte è il candidato ideale visto che sembra sia scorsa acqua sulla sua superficie), o che ne possano esistere ancora, (visto che non è stata ancora esclusa la presenza di acqua nel sottosuolo di questo pianeta o di un satellite di Giove, se non ricordo male), non vuol dire che questi possano essere giunti vivi fino a noi. Per ipotizzare una cosa del genere, bisogna ammettere che il microrganismo in questione mentre 'pascolava' tranquillo sulla superficie del proprio pianeta, sia sopravvissuto dall'impatto di un meteorite o di una cometa che ha scagliato ad altissima velocità il frammento di roccia, in cui si trovava, fuori dal campo gravitazionale del pianeta natale, resistendo così alla violenza dell'impatto, alle enormi pressioni e temperature, e alla forte accelerazione a cui veniva sottoposto. Ma non basta, deve essere sopravvissuto per secoli o millenni all'assenza di gravità, di aria, di acqua e cibo, alle temperature estreme dello spazio, ed al costante bombardamento radioattivo di radiazioni cosmiche (raggi gamma, raggi X, ultravioletti, ecc.). In più il nostro intrepido microrganismo ha resistito alla cattura gravitazionale di un altro corpo celeste, ha avuto molta fortuna perché si è trattato di un pianeta abitabile per condizioni gravitazionali, termiche e ambientali, e non per esempio di una stella o di un arido satellite, e quindi ha stretto i 'denti' nella velocità di caduta, resistendo alle altissime temperature sviluppate dall'attrito con l'atmosfera ed al terribile impatto nel terreno, sempre che il meteorite non fosse troppo piccolo da bruciare completamente in atmosfera o troppo grande da sviluppare un energia di impatto paragonabile ad alcune esplosioni nucleari. A questo punto il microrganismo se ne deve essere andato a spasso, per trovare le condizioni ambientali adatte o trovare altri simili per potersi riprodurre. Insomma nulla è impossibile ma qui le probabilità mi sembrano veramente scarse! Senza considerare che ciò non spiegherebbe dove e come questo microrganismo si sia formato od evoluto, su un altro pianeta colpito in precedenza da un altro asteroide infetto ??! Ecco che per gabbare i dubbi nel 1985 tre scienziati fanno un'eccezionale scoperta, (grazie al quale H.Kroto, R.Smalley e R.Curl, riceveranno nel 1996 il Nobel), per studiare il comportamento del carbonio sottoposto a condizioni estreme come quelle esistenti sulla superficie o nella atmosfera delle giganti rosse, vaporizzano con il laser un pezzo di grafite, ottenendo con loro sorpresa una nuova molecola dalle caratteristiche strardinarie. Dall'analisi spettrometrica di massa scoprirono che era composta da 60 atomi di carbonio e dopo vari tentativi ne definirono la forma, una gabbia suddivisa in 20 esagoni e 12 pentagoni che chiamarono FULLERENE dall'architetto B.Fuller (1895-1983) che nel 1953 ideò una particolare geometria a cupola molto resistente, utilizzata ancora oggi per costruire coperture di stadi, padiglioni, ecc... (Vedi mensile Newton n. 12 - novembre 2000, pag. 137-142). In chimica la geometria delle molecole è molto importante ai fini della loro stabilità e resistenza, per cui il C60, (come viene chiamato), risulta stabilissimo anche in condizioni estreme di temperaure e pressione, poco dopo alla scoperta ne sono state identificate delle molecole in un meteorite trovato in Messico nel 1969, e formatosi 5 miliardi di anni fa, la particolarità di queste molecole è che contengono inglobato nella loro struttura dell'elio (He) di provenienza extraterrestre, (si sa perché diversamente dall'isotopo presente sulla Terra che ha due neutroni, questo ne ha uno solo). Negli anni successivi, non ricordo bene da quale fonte, (forse documentari), ho sentito che ne sarebbe stata accertata la presenza all'interno di nebulose, e negli strati sedimentari di rocce formatesi alla fine del cretaceo (60 milioni di anni fa), in corrispondenza con lo strato nero ricco di Iridio, ad ulteriore prova dell'impatto con l'asteroide che in quel periodo causò l'ultima grande estinzione di massa (il 68% delle forme viventi, tra cui gli ultimi dinosauri). E' di pochi anni fa un ulteriore notizia che motiverebbe l'estinzione avuta alla fine del Permiano (250 milioni di anni fa), che ha coinvolto il 90% delle specie marine, ed il 70% di quelle terrestri (vittime famose: Trilobiti ed anfibi), con la caduta di un meteorite o di una cometa da 6 a 12 Km di diametro di cui ne sarebbero prova dei fullereni pieni di He e Ar, presenti negli strati sedimentari delle roccie dell'epoca, (fonte dal mensile Quark o Newton, ma non ricordo il numero). Per la loro stabilità e resistenza, quindi sembra che siano in grado di resistere ad impatti violenti come quelli di asteroidi o comete, riescono ad inglobare gas o altre molecole, tanto da venire studiati per essere utilizzati come adsorbenti di Idrogeno, (per stabilizzare il gas nelle nuove applicazioni tecnologiche come pile a combustibile di H2), o come vettori di principi attivi farmaceutici, visto che i suoi cristalli verrebbero demoliti dalle reazioni metaboliche dell'organismo. Ci sarebbero altre appliccazioni in campo industriale ed elettronico, ma siamo ancora in fase sperimentale. Il costo è ancora proibitivo. Da tutto ciò comunque ci devono spiegare come un microrganismo si possa introdurre all'interno di un fullerene, visto che la sua molecola ha un diametro di circa 1 micron, (stesse dimensioni di un battere), considerando che nemmeno una molecola di He, una volta inglobata nella sua struttura (molto probabilmente nella fucina stellare), riesce ad uscire dalle sue maglie (si consideri che L'elio è un gas nobile, poco disponibile a legami di tipo chimico). E soprattutto dove possa averlo incontrato, non credo sulla superficie delle giganti rosse, e la possibilità che ne sia venuto a contatto su un pianeta dopo uno scontro con una meteora e da lì sia ripartito per lo spazio con un successivo scontro, passando tutta la trafila descritta sopra.... beh! mi è più facile credere a Babbo Natale!!
Per. Ind. Stefano Sghedoni
NOTA: FULLERENE: Il fullerene danneggia il cervello dei pesci. Gli effetti delle nanoparticelle sulla salute non sono ancora stati studiati a fondo. Un gruppo di ricercatori della Southern Methodist University di Dallas ha scoperto che il fullerene - una nanoparticella di carbonio con grandi potenzialità elettroniche, commerciali e farmaceutiche - può causare danni significativi al cervello dei pesci. Lo studio preliminare, il primo a dimostrare che le nanoparticelle possono avere effetti tossici in una specie acquatica, potrebbe suggerire possibili rischi anche per la salute degli esseri umani esposti alle particelle. La ricerca è stata presentata il 28 marzo 2004 al convegno nazionale dell'American Chemical Society ad Anaheim, in California. Le nanotecnologie presentano molti potenziali benefici ma i loro rischi sono ancora poco compresi. Questo studio ci fornisce ulteriori motivi di preoccupazione. Il fullerene (C60) è una struttura di carbonio puro con la forma di un pallone da calcio e differisce da altre forme di carbonio, come il diamante o la grafite, per il modo in cui gli atomi sono legati. Le particelle sono migliaia di volte più piccole dello spessore di un capello umano. Gli esperti prevedono in futuro un utilizzo diffuso di queste e di altre nanoparticelle, come componenti delle celle a combustibile, in sistemi di somministrazione di farmaci, o nella cosmetica. Nello studio controllato in laboratorio, i ricercatori hanno esposto nove esemplari giovani di pesce persico - confinati in un acquario da 10 litri - a una forma di fullerene solubile in acqua in una dose di 0,5 parti per milione. Dopo 48 ore, gli animali hanno sviluppato significativi danni cerebrali, misurati dalla perossidazione lipidica nell'analisi di campioni dei tessuti cerebrali. Il danno degli animali esposti alle nanoparticelle era 17 volte più elevato di quelli non esposti.
Il falsificazionismo di Karl Raimund Popper
Alcune mie riflesioni sulla critica alla PANSPERMIA
Affronto il problema rifacendomi a Popper. Karl Raimund Popper nacque e studiò a Vienna. Ebbe contatti con i principali esponenti del Circolo di Vienna, ma non ne entrò mai a far parte. Nel 1934 pubblicò la sua Logik der Forschung (Logica della scoperta scientifica) che rappresenta una critica radicale dell'epistemologia neopositivista, pur muovendo da posizioni a essa vicine. Popper parte dalla constatazione (già anticipata dal filosofo scozzese David Hume) che è impossibile giustificare logicamente un procedimento induttivo che, partendo dall'esame di una somma finita di casi particolari, pretenda di raggiungere una conclusione universale. Tuttavia, se un numero finito di esempi non può giustificare un'affermazione universale, è sufficiente un solo controesempio per dimostrarne la falsità. Se io, ad esempio, affermo: Tutti i cigni sono bianchi, l'osservazione di 100, 1000, 10000, ecc. cigni bianchi non mi permetterà mai di essere assolutamente sicuro della verità della mia affermazione. Tuttavia è sufficiente che io osservi un solo cigno nero, per dimostrare la falsità della mia affermazione universale. Con queste argomentazioni Popper respinge il principio di verificazione (elaborato da Schlick) che rappresentava uno dei cardini del pensiero neopositivista. Al suo posto Popper propone il suo principio di falsificabilità, secondo il quale una teoria è scientifica solo se è in grado di suggerire quali esperimenti e osservazioni potrebbero dimostrarla falsa. Popper condivide con i neopositivisti il ruolo che l'esperienza deve giocare nell'ambito della scienza: un'affermazione scientifica deve dire qualche cosa a proposito dell'esperienza (Popper afferma che deve mordere l'esperienza). Se un'affermazione non può mai essere falsificata dall'esperienza, vuol dire che non ha alcun rapporto con essa e, come tale, non può essere considerata scientifica. Il principio di falsificabilità rappresenta pertanto un utile criterio di demarcazione tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è, ma può essere mito, religione, metafisica, opinione personale, ideologia, ecc. Secondo Popper la scienza non si costruisce con metodo induttivo (come si pensava fin dai tempi di Francesco Bacone, nel XVI secolo), bensì attraverso successive falsificazioni. Il metodo ipotetico-deduttivo (o abduzione) proposto da Popper prevede l'elaborazione di ipotesi che devono essere successivamente controllate dall'esperienza. Le ipotesi che vengono falsificate dall'esperienza vengono abbandonate, mentre quelle che superano il controllo vengono assunte come verità provvisorie, in quanto non si possono escludere a priori future falsificazioni. Il metodo scientifico consiste quindi in una serie di tentativi ed errori (trials and errors), ovvero congetture e confutazioni. Le concezioni epistemologiche popperiane attribuiscono un grande valore allo sviluppo storico della scienza. Egli paragona la storia della scienza all'evoluzione biologica darwiniana. Soltanto le teorie scientifiche che superano i controlli empirici sopravvivono, mentre le altre decadono. In tal senso la ricerca non ha mai fine, poiché ogni affermazione scientifica ha un valore necessariamente provvisorio. Tuttavia, Popper non cade nel relativismo per ciò che concerne i concetti di conoscenza e verità. Egli assume posizioni realiste considerando la verità come corrispondenza tra teorie e fatti. Popper elabora, a tale proposito, la famosa teoria dei tre mondi. Il mondo-1 è quello delle cose materiali. Il mondo-2 è quello degli stati di coscienza soggettivi, ovvero i nostri pensieri. Il mondo-3 è infine costituito dai contenuti dei nostri pensieri. Esso consta di strutture "oggettive", nel senso che non dipendono dai nostri stati di coscienza e possono essere vere o false a seconda che corrispondano o no ai fatti e alle cose del mondo-1. Il mondo-3 rappresenta l'eredità culturale dell'umanità ed è conservata in oggetti del mondo-1 (libri, dischi, supporti magnetici o cellule celebrali). Al mondo-3 non appartengono soltanto le teorie scientifiche, ma anche altre idee e concezioni, quali quelle metafisiche, mitiche e teologiche. Delle teorie non scientifiche non possiamo accertare il valore di verità o falsità, tuttavia esse possono essere ricche di senso e significato e, in certi casi, addirittura utili alla scienza. Esse, infatti, possono suggerire la congetture da sottoporre ai successivi controlli empirici. A tale proposito, Popper cita l'utilità delle teorie metafisiche dei filosofi presocratici (in particolare l'atomismo) che hanno fornito utili contributi allo sviluppo del pensiero scientifico. Con questa riabilitazione della metafisica, Popper si allontana ulteriormente dalle posizioni neopositiviste.
08.04.2004 Astrobiology: Asking Big Questions to Learn Science
"Teacher, why do I need to learn this ?" "What's it good for ?" Students ask these questions when faced with content that seems unrelated to their lives. Motivating students is fundamental to promoting achievement in any classroom, even in science, which encompasses the entire natural world, the whole universe. Good questions and quality experiences support science learning for all students, not just those who are already science-friendly. The relatively new discipline of astrobiology asks great questions: How does life begin and evolve ? Is there life elsewhere in the Universe ? What is the future of life on Earth and beyond ? Compare these with a commonly asked classroom science question: Does the length of the string change the performance of a pendulum ? Do objects fall at different speeds according to their weights ? and so forth. No, I'm not picking on physics here, but these sorts of investigations -- which can be fun -- need to be in a larger context to motivate many students. When students are asked to learn science with particular lessons and laboratory investigations placed in the context of big questions, it helps them to answer, "Why do I need to learn this ?" and "What is it good for ?" Teaching buoyancy and pressure in the context of investigating life at undersea volcanoes called black smokers makes the lessons less abstract. What is life and how did it begin on Earth ? The black smokers host organisms that live in an environment that does not need sunlight, and would bake and poison we surface creatures immediately, yet they are very much alive. And, they share DNA with us. Can we surface creatures trace our origins to the ocean floor ? Understanding how objects fall under the influence of gravity is made more interesting if connected to space station astronauts who are continuously "falling" as they orbit the Earth. Learning geology and microbiology can be connected to our exploration of Mars where NASA is "following the water" to seek evidence of life. What are the conditions in space that effect the human body ? This is a question that leads to careful investigation of human physiology as well as space physics. Can we travel to Mars safely and live and work on the surface of Mars ? These questions are core to the future of human life beyond Earth.Creative, integrated science teaching and learning can address the "standards" and "benchmarks" as well as state, local and district requirements. The basics of earth and space science, biology, chemistry and physics are key to answering the big questions, and are united in astrobiology studies. This was our motive for developing "Voyages Through Time" an integrated science curriculum that provides a foundational course for high school students. I find it unfortunate that the current educational climate is driving teachers to "teach to the test". States and districts are reverting to prescribed curricula and course sequences that offer little flexibility. In California, schools are reverting to Biology, Chemistry, then Physics (with an ever declining number of students) because sophomores will be tested in Biology. So districts that choose integrated science or physics first are now having to completely re-do and re-sequence their curriculum -all driven by federally mandated, state interpreted tests. In asking key questions and threading them through science studies over a sustained period of time, I assert that students are better prepared to learn about science, and be motivated to apply science in their lives. As a society, we still seek a scientifically literate citizenship, and nationally mandated testing (which is now driving curriculum sequences) is unlikely to assure such literacy. It may, in fact, obtain the opposite effect as the basics of science are emphasized to prepare for the test, and students miss the big picture -- why am I learning this ? -- that is offered in integrated courses that ask the big questions.
25.04.2004 Ricerca della vita e dell'intelligenza extraterrestre e metodo scientifico
ALCUNE MIE RIFLESSIONI...
L'Uomo ha faticosamente preso coscienza dell'universo che lo circonda, e lentamente le sue prospettive si sono ampliate dalle immediate vicinanze del suo luogo di residenza alle immensità del cosmo come noi oggi lo concepiamo. Man mano che si rendeva conto della vastità dell'Universo, iniziò a chiedersi se la Terra è un'isola di vita in mezzo ad un oceano di materia inanimata oppure se altri esseri viventi, magari altri esseri intelligenti ed autocoscienti, popolano le vastità del cosmo. Questa domanda non ha ancora trovato una risposta definitiva. Essa tuttavia è diversa dalle altre domande che l'uomo si pone sui fini ed il significato della vita, in quanto è suscettibile di essere affrontata con il metodo scientifico. Se infatti in passato le discussioni riguardanti la diffusione della vita nell'universo e l'esistenza di intelligenze extraterrestri erano sostanzialmente confiniate all'ambito filosofico o spesso teologico, oggi l'argomento è oggetto di serie indagini scientifiche che potranno, in futuro, dare risposte certe. La vita al di fuori della Terra ed il suo sviluppo sono l'oggetto di studio della bioastronomia. Qualche critico ha messo in dubbio che la bioastronomia sia una vera propria scienza e l'ha definita come l'unica scienza che non ha un vero e proprio oggetto, in quanto non esiste alcuna prova che la vita extraterrestre esista veramente. Si tratta però di un'obiezione infondata, poiché la bioastronomia studia le condizioni necessarie allo sviluppo della vita (evoluzione chimica) e cerca di ricavare leggi generali per l'evoluzione dalle forme più semplici alle più complesse, il tutto in relazione alle conoscenze che l'astronomia e l'astrofisica stanno accumulando sulle condizioni che regnano sui diversi corpi celesti. Negli ultimi quarant'anni l'uomo ha iniziato ad uscire dal proprio pianeta, ed ha visitato di persona il corpo celeste più vicino e, per mezzo di sonde automatiche, molti altri pianeti e satelliti del sistema solare. Tutti i pianeti che orbitano intorno al Sole, ad eccezione di Plutone, ed alcuni dei loro satelliti sono stati sorvolati da sonde e su alcuni di essi sono addirittura atterrati oggetti costruito dall’uomo. La tecnologia spaziale ha inoltre permesso di sistemare telescopi ed altri strumenti astronomici al di fuori dell’atmosfera terrestre, permettendo di riprendere immagini molto più dettagliate di quanto sia possibile ottenere da Terra. È inoltre possibile studiare radiazioni di lunghezza d'onda diversa da quelle che riescono a filtrare attraverso l'atmosfera, essenzialmente limitate alla luce visibile ed alle onde radio: accanto all'astronomia ottica ed alla radioastronomia sono nate l'astronomia infrarossa, quella basata sui raggi X e gamma, estendendo l'indagine astronomica a tutto lo spettro elettromagnetico. Il risultato di tutto questo lavoro di ricerca è stata una profonda rivoluzione nelle conoscenze sul sistema solare e sugli altri corpi celesti. Oggi ci si rende conto che l'universo è molto diverso da quello che si riteneva anche solo quindici o venti anni fa. A prima vista questa rivoluzione ha costretto la scienza a ridimensionare drasticamente le speranze di trovare esseri viventi extraterrestri, almeno per quanto riguarda il sistema solare, e di poter un giorno non lontano espandere la zona abitata dall'uomo verso altri pianeti. I pianeti più vicini si sono rivelati ben più ostili di quanto si ritenesse in passato, e si è diffusa l'idea di un universo, o almeno di un sistema solare, completamente sterile e privo di forme di vita. Su questo argomento i biologi sono generalmente molto più pessimisti degli astronomi, forse perché conoscendo in dettaglio quanto complessa e fragile sia la vita si rendono conto meglio di altri delle difficoltà che si oppongono ad un suo sviluppo generalizzato. Le scoperte della planetologia degli anni settanta ed ottanta hanno portato molti a pensare che la vita sulla Terra sia un accidente unico e irripetibile, in un universo non solo indifferente ma in generale ostile. Recentemente però questa visione pessimistica ha iniziato a trasformarsi e la visione di un universo in cui la vita è un fenomeno comune, o addirittura un esito necessario dell’evoluzione della materia inanimata, ha ripreso quota. E con essa la speranza che l'uomo possa portare egli stesso con la sua presenza la vita nel sistema solare ed oltre. Sin qui si è parlato di vita in generale, termine che, già sulla Terra, comprende una estrema varietà di esseri, dai batteri all'uomo, per non parlare di forme quali i virus che non si riesce a classificare né tra la materia non vivente né tra quella vivente. Con ogni probabilità se si scopriranno forme di vita extraterrestri ci si renderà conto che la varietà di esseri viventi è ancora molto maggiore, forse incomparabilmente maggiore, e che in molti casi sarà estremamente difficile capire se ci si troverà di fronte a esseri viventi o no. Non c'è alcun dubbio però che l'uomo è interessato principalmente ad un particolare aspetto della vita, l'intelligenza. L'intelligenza viene in generale concepita come l'apice dell'evoluzione della materia vivente e ci si chiede se il processo che ha portato alla comparsa su questo pianeta di una specie intelligente ed autocosciente (le due cose coincidono o è pensabile un essere che possieda una delle due e non l'altra ?) sia un aspetto necessario o almeno comune dell'evoluzione oppure un caso fortuito, magari una specie di errore del processo evolutivo che l'evoluzione stessa o, per i più pessimisti, la tendenza dell'uomo all'autodistruzione, correggerà quanto prima. Se la bioastronomia potrà difficilmente dare una risposta in tempi brevi alle domande sulla vita in generale, la situazione è ancora più complessa per quanto riguarda la vita intelligente. Svanita la speranza (quasi la certezza, se ad esempio ci si riferisce all'astronomia della fine del XIX secolo) che su Marte si sia sviluppata una specie intelligente e tecnologicamente avanzata, oggi ci si rende conto che se esistono altre specie intelligenti, esse si trovano sicuramente a grandissima distanza. Esclusa quindi, almeno per ora, la possibilità di studiare esseri intelligenti extraterrestri da vicino, inviando sonde automa tiche o andando in prima persona, non resta altro che osservare l'universo alla ricerca di indizi della loro presenza. Le attività scientifiche volte ad identificare forme di vita intelligente che si siano sviluppate fuori dal pianeta Terra e a stabilire un contatto, generalmente indicate con l'acronimo SETI, che sta per Search for ExtraTerrestrial Intelligence, ricerca dell'intelligenza extraterrestre, vengono per lo più svolte mediante radiotelescopi, anche se vi sono studiosi che perseguono quello che si definisce generalmente SETI ottico, cercando le tracce di intelligenze extraterrestri con i telescopi. Se la scienza procede lentamente e con cautela, l'opinione pubblica viene continuamente bombardata da messaggi di ogni genere: extraterrestri di ogni tipo e provenienza visiterebbero il nostro pianeta, intrattenendo segretamente contatti di vario genere con gli umani, tracce del loro passaggio sarebbero facilmente rintracciabili in fonti storiche e mitologiche, il presente ed il passato della nostra specie sarebbe in gran parte determinato da eventi che si svolgono fuori dalla Terra, anche a centinaia o migliaia di anni luce di distanza. E naturalmente di tutto ciò gli scienziati ed i poteri politici sarebbero ben al corrente, legati da una congiura del silenzio che, di volta in volta, è motivata dall'interesse pubblico (evitare ondate di panico), dalla volontà di potenza o da qualche ancor più losco motivo. Alla base di questi messaggi stanno talvolta interessate mistificazioni, falsi che vengono spesso smascherati, ma la cui presa su parte dell'opinione pubblica non viene per questo intaccata: chi è sensibile all'ipotesi del complotto può facilmente essere indotto a credere che le prove addotte per dimostrarne la falsità farebbero parte della macchinazione avente lo scopo di negarle. In altri casi si tratta di affermazioni in buona fede, in cui è tanto più facile credere quanto più la cultura scientifica è carente o la fiducia nella scienza è bassa. A questo proposito bisogna ricordare che stiamo vivendo in un periodo di generale disorientamento e sfiducia nelle capacità razionali dell'uomo: in un periodo di rapidi cambiamenti in cui si può dire che ogni giorno si è bombardati da affermazioni che promettono mirabolanti novità e si minacciano terribili pericoli: può essere difficile distinguere tra la realtà e la fantasia, ed i sogni (o più spesso gli incubi) prendono il posto del ragionamento. Purtroppo molti scienziati giocano in queste cose ruoli non marginali. Essi stessi cadono talvolta vittima delle loro stesse fantasie e dimenticano la frase pronunciata nel 1974 da Richard Feynman: "non dovete ingannare voi stessi - e voi siete la persona che riuscite ad ingannare meglio". Altre volte si lasciano prendere la mano e, in modo più o meno disinteressato promettono ciò che non sono sicuri di poter mantenere, dando per sicure cose che sono tali solamente nei loro sogni, causando disorientamento e intorbidando essi stessi quelle acque che invece dovrebbero, per loro compito per così dire istituzionale, contribuire a mantenere limpide. Eppure la scienza dovrebbe essere vaccinata contro queste cose: quando verso la fine del medioevo si gettavano le basi della scienza moderna, Guglielmo di Occam, nel tentativo di fondare la filosofia sui principi della ragione e su quello della verifica empirica, enunciò il ben noto principio che da lui prese nome di rasoio di Occam. In base a tale principio non si deve postulare alcun ente che non sia strettamente indispensabile. In particolare, nel cercare una spiegazione ad un fenomeno, bisogna strettamente attenersi alla spiegazione più semplice, che richiede il minimo ricorso possibile ad entità non note. Lo stesso Guglielmo di Occam riteneva inoltre impossibile dimostrare il finalismo dell'universo. Un criterio che la scienza ha sempre seguito è quello di richiedere prove eccezionali per supportare affermazioni eccezionali. È evidente che questa norma prudenziale può ostacolare le idee nuove e rendere più difficili le rivoluzioni scientifiche, ma la scienza ha d'altra parte bisogno di stabilità e di sicurezze. In particolare, osservazioni o deduzioni che causano un cambiamento di qualche paradigma devono essere sempre guardate con sospetto. Con questo non si vuole assolutamente dire che lo scienziato debba essere un conservatore a tutti i costi, timoroso delle novità. Al contrario, il suo atteggiamento mentale deve essere sempre quello della massima apertura e della consapevolezza che anche le più accreditate teorie scientifiche sono comunque soltanto dei modelli e non devono essere mai guardate come verità consolidate una volta per sempre. Un'affermazione o una teoria sono scientifiche in quanto suscettibili di essere falsificate, ovvero in quanto sia possibile escogitare una verifica in grado di dimostrare che esse sono false. Per assurdo, si potrebbe dire che nel mondo della scienza si può dimostrare che qualche cosa è falso, ma mai che esso è vero. La meccanica Newtoniana, ad esempio, è stata per molto tempo ed è ancora un esempio classico di teoria scientifica. Dal momento in cui l'ha fondata, Newton ha proposto ed eseguito un gran numero di esperimenti che potevano dimostrare che essa era falsa, ma per secoli è passata indenne al vaglio di queste verifiche. Alla fine del XIX secolo si iniziò a raccogliere evidenza sperimentale dello scostamento di alcuni risultati da quelli previsti e ci si rese conto che era necessario un raffinamento della teoria. Nacquero così la meccanica relativistica e quella quantistica, ciascuna con il suo campo di applicazione. Le nuove teorie, che comprendevano la meccanica newtoniana come caso particolare ma che la trascendevano, vennero assoggettate a verifiche sperimentali che avrebbero potuto falsificarle e si dimostrarono corrette. Non c'è dubbio che in futuro anch'esse troveranno dei limiti ai loro rispettivi campi di applicazione e verranno sostituite da nuove teorie. Noi scienziati dobbiamo quindi essere aperti verso risultati che possano invalidare teorie che abbiamo sempre ritenuto applicabili e dobbiamo astenerci dal difendere posizioni per puro conservatorismo, cercando di mantenere sempre un giusto equilibrio tra la prudenza e l'apertura mentale. Peraltro, è fisiologico che le vere rivoluzioni scientifiche, quelle che coinvolgono un vero e proprio cambio di paradigma, richiedano parecchio tempo e spesso si concretizzino con un ricambio generazionale della classe scientifica. Ma anche l'atteggiamento opposto è pericoloso: l'abbracciare in modo acritico nuove teorie, spesso dopo interpretazioni affrettate di risultati sperimentali -ribadisco sperimentali- dubbi, e lo scambiare per cosa acquisita e dimostrata ciò che è semplicemente una speranza possono portare a gravi conseguenze. Non solo si fa un pessimo servizio alla scienza, rischiando di propagare errori o esagerazioni, ma si finisce per creare divisioni che degenerano spesso in controversie personali, cariche di aspetti emotivi che nulla hanno a che vedere con la scienza. In questa situazione accade che un'idea o una teoria divengano bandiere, che si cerca di far prevalere anche oltre la doverosa ricerca della verità. Si creano così i presupposti per forzature, che possono arrivare sino alla falsificazione dei risultati di esperimenti, ed alla fabbricazione delle prove. Spesso fatte in buona fede: si crede a tal punto alla verità di una teoria che, ove gli esperimenti che dovrebbero confermarla non diano i risultati sperati, li si aggiusta nel modo in cui, in perfetta buona fede, si crede che dovrebbero funzionare. In altri casi (forse la maggioranza) si agisce in malafede: si è investito troppo della propria reputazione, ci si è spinti troppo in là nelle dichiarazioni volte ad ottenere finanziamenti per poter dimostrare la propria verità, che si ritiene di non poter più tornare indietro e si va avanti, a costo di falsificare le prove. In tutti questi casi forse alla base di tutto c'è la mancanza di senso critico, verso le teorie assodate, certamente, ma anche verso teorie alternative che promettono spiegazioni facili. E anche desiderio di protagonismo: è molto facile ottenere l'attenzione dei media con teorie ed affermazioni che richiamano l'attenzione dell'opinione pubblica, più facile che con il duro lavoro di una seria ricerca. Gianbattista Marino, all'inizio del '600, diceva: "è del poeta il fin la meraviglia; chi non sa far stupir vada alla striglia"; non c'è peggior servizio alla scienza di quando lo scienziato, od il giornalista scientifico, indulgono allo stesso atteggiamento. Il criterio della prova eccezionale è quindi un indispensabile antidoto a questi pericoli, ed il rischio, effettivo, che la sua applicazione rigorosa rallenti il progresso scientifico è un prezzo ben modesto che deve essere pagato. Se si comincia a derogare da questi principi si rischia di finire nel regno delle pseudoscienze, costruzioni basate su affermazioni indimostrabili (o talvolta che sono state dimostrate più volte errate, ma che continuano a venire riproposte, magari in forme leggermente differenti) che spesso si pongono in antitesi alla scienza e, altre volte, intendono affiancarsi ad essa. Non di rado si presentano come scienze alternative (ovviamente alternative alla scienza 'ufficiale'), vantando un passato glorioso (a volte a ragione, basti pensare all'astrologia ed all'alchimia) e rivendicando un altrettanto radioso futuro. La presa sull'opinione pubblica è molto forte, come dimostra il gran numero di praticanti dell'astrologia, della magia nelle sue varie forme o della medicina alternativa, ed il loro fatturato. La ricerca della vita e dell'intelligenza extraterrestre sono particolarmente adatte al fiorire di scienze 'alternative', al punto che per lungo tempo è stato difficile parlare di questi argomenti negli ambienti scientifici. Proprio per questo chi intende cimentarsi con questi problemi deve procedere con grande cautela, per evitare quel limbo ove si tende a spiegare cose incerte con teorie ancora più incerte, in una sequela di affermazioni né dimostrabili né falsificabili. Una caratteristica della scienza così come è venuta configurandosi negli ultimi secoli è il riduzionismo e la specializzazione. In sostanza il riduzionismo si basa sulla suddivisione di problemi complessi nei loro aspetti elementari che vengono poi affrontati ciascuno in modo indipendente. Questo approccio ha permesso alla scienza di affrontare problemi semplici, spesso fortemente idealizzati, che potevano essere risolti con successo. Lo specialista che risolve l'aspetto di sua competenza crea un modello della realtà in cui esiste solamente ciò che rilevante ai fini della soluzione del problema idealizzato e non è tenuto a conoscere le discipline coinvolte dagli aspetti contigui e tento meno a farsi carico della loro soluzione. Questa impostazione è così radicata nel modo di pensare dello scienziato che egli non si avvede più neppure del fatto che in realtà ciò che sta studiando è solo un aspetto parziale di una realtà molto più complessa, e in generale la sua abilità sta più nel riuscire ad isolare l'aspetto della realtà che è rilevante per il problema in esame che non nel pervenire ad una soluzione. L'impostazione riduzionistica si è diffusa dalle scienze teoriche a quelle applicate e la tecnologia ha raggiunto i risultati strabilianti degli ultimi secoli proprio grazie ad essa. Recentemente in molti campi della scienza e della tecnologia si sono incontrati problemi che si prestavano male ad essere affrontati in questo modo e si è assistito ad una forte critica del riduzionismo, al punto che alcuni lo incolpano di quasi tutti i mali della nostra società. La critica al riduzionismo spesso diviene una critica distruttiva alla scienza, o almeno alla scienza 'occidentale' (cui viene contrapposta una scienza 'orientale' libera da questo male e non 'disumana') e soprattutto alla tecnologia. Alla scienza 'riduzionistica' viene opposta una scienza 'olistica', che si basa sul presupposto che un sistema complesso è fondamentalmente di più che la somma delle sue parti e non può essere studiato un pezzo per volta. Queste posizioni derivano in parte dallo studio dei sistemi nonlineari, sistemi per cui non vale il principio della sovrapposizione degli effetti tipico dei sistemi lineari. In altri termini, il comportamento del sistema soggetto a condizioni complesse non può essere ricavato assoggettandolo alle varie perturbazioni ad una ad una e poi sommando i risultati. L'esempio della dinamica celeste è significativo: il comportamento di ciascun pianeta può essere calcolato considerando di volta in volta solamente il pianeta in esame ed il Sole. Questo approccio è quello classico, da Newton in poi. Ma per ottenere una precisione maggiore è indispensabile introdurre le perturbazioni che i pianeti esercitano l'uno sull'altro, entrando nel campo di quella che viene spesso definita 'astrodinamica nonlineare', in cui il sistema solare deve essere studiato come un insieme di pianeti. Quando poi si studiano sistemi complessi come gli esseri viventi, in cui il sistema complessivo è palesemente più della semplice somma delle sue parti, il riduzionismo diviene spesso insufficiente ed è necessario tenere conto di una moltitudine di aspetti contemporaneamente. Il problema è che procedendo troppo oltre in questa direzione si giunge spesso ad una complessità tale da rendere impossibile una trattazione rigorosa del problema e che l'approccio olistico diviene una via attraverso la quale si fanno strada pseudoscienze, affermazioni né dimostrate né dimostrabili e impressioni soggettive elevate al rango di risultati scientifici. La ricerca della vita e dell'intelligenza extraterrestre è un campo in cui questo pericolo è sempre in agguato perché la complessità dell'argomento è molto grande, le singole discipline coinvolte sono così disparate da rendere impossibile ad un singolo ricercatore di avere una buona padronanza di tutto il campo di ricerca e infine l’impatto emotivo degli argomenti trattati è tale da rendere difficile una vera oggettività. Un principio che si è lentamente fatto strada nella scienza moderna è il cosiddetto principio di mediocrità. Nell'antichità si credeva in un Universo infinitamente più piccolo di quello che la scienza moderna ci mostra (anche se probabilmente all’uomo di allora sembrava incredibilmente grande), e si assegnava alla Terra ed all'uomo il posto centrale. È vero che la filosofia greca formulò l’ipotesi eliocentrica molto prima di Copernico, ma non erano molti quelli che credevano che la Terra girasse intorno al Sole. La rivoluzione Copernicana, che consisteva proprio nel togliere l'uomo dal centro del creato, ha dato vita ad un modo di vedere completamente nuovo, con profonde conseguenze non solo in campo scientifico. Non c'è da stupirsi se un cambiamento di paradigma del genere è stato osteggiato ed ha faticato ad affermarsi. Ma quello di Copernico è stato solo un primo passo. Dopo la Terra, anche il Sole ha perso il posto centrale nell'universo. Anche qui non sono mancati i precursori, da alcuni filosofi greci a >>Giordano Bruno <<--[bel sito complimenti.... ;-)°°°] che credeva in un universo infinito, senza alcun centro, tuttavia solamente l'astronomia ha potuto fornire le prove di quella che altrimenti rimaneva un’ipotesi. Si comprese così che la Via Lattea che vediamo nel cielo è la traccia del disco galattico, visto dall'interno, e che il Sole è una delle tante stelle che orbitano, peraltro in modo complesso, intorno al suo centro. Poi toccò al centro galattico di perdere la posizione centrale: si scoperse che la Via Lattea era una dei miliardi di galassie, distribuite in modo irregolare nell'universo. Aveva quasi ragione Giordano Bruno: l'universo non ha un centro, anche se molto probabilmente non è infinito. L'astrofisica oggi propone ipotesi ancora più lontane dal senso comune (che rimane legato sostanzialmente alla visione geocentrica, con la Terra ferma al centro di un piccolo universo tolemaico): esisterebbero infiniti universi, ed il nostro è solo uno di essi. La Terra non è dunque altro che un pianeta qualsiasi, orbitante intorno ad una stella qualsiasi, di una galassia qualsiasi, appartenente ad un gruppo locale qualsiasi, in (forse) un universo qualsiasi. Ma il principio di mediocrità non si applica solo allo spazio: può essere esteso anche al tempo. Nell'ipotesi in cui l'universo non avesse né origine né fine, come nel caso della teoria dello stato costante, teoria che peraltro oggi gode di scarsissimo credito presso gli scienziati, il presente sarebbe un qualsiasi istante in una durata infinita, istante che non ha alcuna particolare caratteristica che lo distingua dagli altri. Il principio di mediocrità sarebbe completo anche nel tempo. Oggi la teoria più seguita sull'inizio dell'Universo è quella del Big Bang, secondo la quale l'universo ha avuto inizio circa 12-15 miliardi di anni or sono ed evolve espandendosi verso un lontano futuro. Il presente può quindi collocarsi in una ben precisa fase dell'evoluzione dell'Universo, ma non per questo esso ha caratteristiche particolari che costituiscano una grave eccezione al principio di mediocrità. Noi viviamo comunque in una fase qualsiasi dell'evoluzione di un Universo, probabilmente ancora molto giovane. Se poi le teorie che vorrebbero una moltitudine di universi che nascono in continuazione, in una specie di stato costante ad un livello più alto, fossero vere, il principio di mediocrità sarebbe ancora più completo. Bisogna esplicitamente notare che dal principio di mediocrità non discende direttamente che il nostro pianeta è uno dei tantissimi pianeti abitati e che la nostra specie è una qualsiasi delle tantissime specie intelligenti che sono nate, si sviluppano e concludono la loro esistenza in questo Universo e che continueranno a farlo in futuro. Si consideri ad esempio uno scenario in cui la vita ed ancor più l'intelligenza, sono eventi così rari da essersi verificati una sola volta nella storia dell’universo. Ovviamente l'unico pianeta che ospita forme di vita intelligente è la Terra e quell'unica specie intelligente siamo noi, tuttavia questo scenario non viola il principio di mediocrità: se esiste una specie intelligente sola, l'unico possibile osservatore cosciente (noi) non può esistere in alcun altro luogo o tempo che non sia la Terra oggi. Bisogna quindi essere molto cauti quando si invoca il principio di mediocrità per dimostrare l'esistenza di molti pianeti abitati e di molte specie intelligenti. Ma se esistono altre specie viventi oppure altri esseri intelligenti, quanto saranno simili a noi ? Uno dei problemi maggiori che si pongono a chi studia la possibilità di vita extraterrestre è la tendenza all'antropomorfismo che è sempre in agguato al fondo della nostra mente. Già Galileo, parlando della possibilità dell'esistenza di extraterrestri dice chiaramente che non è possibile che esistano esseri simili a noi, ma che al contrario è verosimile che esistano esseri tanto diversi che noi non potremmo mai immaginarne l’aspetto. Questo richiamo è tuttora valido: basta assistere ad una qualsiasi puntata di un telefilm quale Star Treck per rendersi conto di come la maggior parte degli alieni della fantascienza siano terribilmente antropomorfi. E questo non solo per l'ovvia difficoltà di truccare un attore in modo da fargli impersonare un essere non antropomorfo, ma principalmente per la difficoltà di immaginare una tale creatura. Il problema di fondo è che non esiste una vera definizione generale di essere vivente oppure di essere intelligente, ma solamente un unico esempio di vita e di intelligenza: quello che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi. L'ipotesi che sta alla base della scienza moderna è che le leggi fisiche siano uniformi in tutto l'Universo e che non cambino nel tempo: senza di essa non potremmo interpretare ad esempio le osservazioni astronomiche che, per gli oggetti lontani, ci rimandano ad una realtà distante milioni o miliardi di anni luce da noi e ad un passato altrettanto remoto. Ma se ci limitiamo agli oggetti della nostra galassia quella non è un'ipotesi ma una certezza. L'evoluzione chimica prima e biologica poi è determinata dalle leggi fisiche al punto tale che è possibile una sola biochimica, una sola struttura dell'informazione genetica, una sola struttura cellulare ? La vita porta necessariamente alle cellule eucariote, alla multicellularità, alla differenziazione dei tessuti, e così via ? Se è così gli extraterrestri non saranno molto diversi da noi e l'evoluzione convergente farà in modo che la somiglianza sarà grande. Certo, un essere evolutosi su un pianeta più piccolo, in un campo gravitazionale meno intenso sarà più snello, dotato di muscoli meno potenti e se l'atmosfera sarà meno densa, avrà polmoni più grandi, ma comunque avrà sempre muscoli e polmoni e, se il pianeta sarà inondato dalla luce di una stella, avrà occhi per vedere. E, siccome ci sono buone ragioni perché l'intelligenza si sia sviluppata in un bipede, con gli occhi in posizione frontale per permettere la visione binoculare, gli eventuali alieni intelligenti saranno molti simili a noi. Questa è evidentemente un'ipotesi estrema, che può essere generalizzata a moltissimi aspetti anche psicologici della natura degli esseri intelligenti. L'ipotesi contraria è che le possibili vie per produrre esseri viventi siano molte e quindi che possano esistere biochimiche molto diverse tra loro. Gli ambienti favorevoli alla vita potranno essere molto differenti uno dall’altro e ogni ambiente avrà prodotto esseri che possono non avere nulla in comune con quelli che si sono evoluti in ambienti diversi. Potrà essere molto difficile riconoscere come tale un essere vivente molto differente da noi e ancora maggiori saranno le difficoltà di riconoscere come tale un essere intelligente. La stessa definizione di intelligenza potrebbe risultare difficilissima o addirittura impossibile. E se in teoria è più facile definire che cosa è un essere autocosciente, sarà impossibile comunicare con lui sino al punto da capire se in pratica lo è oppure no. Tra queste due ipotesi limite c'è un'infinità di sfumature e corrispondentemente sono state formulate moltissime ipotesi, che però in attesa di verifica non hanno alcuna validità scientifica. In realtà noi non solo tendiamo solamente a pensare alla vita o alle intelligenze extraterrestri in termini umani., ma abbiamo anche la tendenza a fare riferimento al momento storico presente ed alla realtà che ci è familiare: gli ipotetici alieni non solo finiscono per pensare come uomini della Terra, ma anche come terrestri, possibilmente con una cultura occidentale, della fine del XX secolo o degli inizi del XXI. La tecnologia cui facciamo riferimento è quella attuale, e questo spiega ad esempio l'enfasi che viene data alle onde radio come mezzo preferenziale di comunicazione nel SETI. Questo condizionamento è forse più subdolo del puro e semplice antropomorfismo: se ci rendiamo conto che è assurdo aspettarci che, ad esempio, gli extraterrestri abbiano due mani con 5 dita per mano, finiamo per dare implicitamente per scontato che utilizzino certe tecnologie o seguano certi percorsi logici che a noi sembrano naturali. Con tutte queste difficoltà, di tipo teorico e pratico, la ricerca di forme di vita extraterrestre prosegue, con studi teorici, con ricerche in situ mediante sonde lanciate verso i pianeti vicini e con studi astronomici volti ad identificare corpi celesti abitabili in orbita intorno ad altre stelle. Anche la ricerca radioastronomia di forme di vita intelligente, che viene fatta risalire ad un famoso articolo pubblicato nel 1959 da Philip Morrison e Giuseppe Cocconi sull'autorevole rivista Nature, dal titolo Search for Interstellar Communications (Ricerca di comunicazioni interstellari), ha fatto moltissimi progressi, sia dal punto di vista degli strumenti utilizzati, la cui potenza è enormemente aumentata, che da quello dell'elaborazione teorica. Ma, nonostante siano stati rilevati alcuni segnali dubbi e si siano verificati parecchi falsi allarmi, non si è ancora raggiunta alcuna certezza di un contatto. L'umanità oggi è alla vigilia di un passaggio importante nella sua storia. L'uomo ha appena imparato a muoversi nello spazio ed è ad un passo da trasformarsi da specie che abita un singolo pianeta a specie in grado di diffondersi nel suo sistema planetario prima e poi, probabilmente, in un ambito più vasto. Se oggi lo spazio è spesso visto come un laboratorio, un posto in cui fare scienza, e sempre di più anche un luogo in cui svolgere attività economiche (almeno per quanto riguarda lo spazio circumterrestre), in futuro si passerà ad una vera e propria attività di esplorazione e di colonizzazione. I tempi necessari affinché ciò avvenga non sono affatto certi, come è dimostrato dal clamoroso fallimento di quasi tutte le previsioni a riguardo fatte in passato, e non è affatto detto che la nostra attuale civiltà riesca a sfruttare le grandi opportunità che l'espansione nello spazio le offre. Tuttavia, anche se si dovesse verificare una battuta d'arresto, se come sperabile non interverranno eventi traumatici a bloccare la nostra specie, i nostri discendenti riprenderanno comunque quell'opera di espansione nello spazio che noi non saremmo stati capaci di continuare. Alle domande se la vita sia un'eccezione tutta terrestre in un universo inanimato e se essa comprenda anche esseri intelligenti ed autocoscienti extraterrestri, se ne aggiunge quindi un'altra, forse ancora più importante: l'uomo potrà mai entrare in contatto con queste eventuali intelligenze ? Sarà mai possibile che l'uomo della Terra entri a far parte, insieme alle altre specie intelligenti che forse popolano l'universo, di una comunità più ampia oppure, principalmente a causa delle enorme distanze cosmiche, anche la certezza della loro esistenza non potrà che lasciare ogni specie intelligente in un totale isolamento ? Ed è pensabile che, oltre ad una conoscenza mediata da una specie di data base cosmico, in cui tutte le specie introducono il loro contributo e da cui possono attingere a quelli degli altri, si giunga ad una conoscenza diretta ? Potrà l'uomo entriare, in un lontano futuro, in un rapporto più stretto di quello che può essere un contatto radio da grandissima distanza, con altri esseri intelligenti ? Queste sono le domande fondamentali: se la certezza di non essere solo nell'niverso avrebbe un notevole impatto sulla nostra visione del mondo, è la possibilità di un contatto con altre intelligenze ed altre civiltà e di una reciproca conoscenza quello che veramente interessa e che potrà avere un'enorme influenza sul futuro sviluppo dell'umanità. [ARGOMENTO correlato: IL PRINCIPIO ANTROPICO]
11.06.2004 Radiometro italiano al di là della LUNA
San Marino anche quest'anno, come è ormai consuetudine, si è tenuto il “Simposio Mondiale sulla Esplorazione dello Spazio e la Vita nel Cosmo” giunto alla sua quinta edizione. L'evento, svoltosi nei giorni 19 e 20 marzo scorsi, è un appuntamento atteso da molti appassionati del SETI, da astrofili e addetti ai lavori. Ospiti del "Teatro Turismo", le varie conferenze hanno visto una notevole partecipazione del pubblico nell'arco delle due mezze giornate entro cui si è articolato il Simposio. Il coordinatore scientifico Claudio Maccone (Alenia Spazio) ha regalato al pubblico significativi momenti di divulgazione scientifica su diverse tematiche. Juan Casanovas (Specola Vaticana) in un interessante intervento sulla ricerca di pianeti extrasolari ha spiegato dettagliatamente le diverse tipologie di indagine. M.Manzelle (Istituto di Radioastronomia dell'INAF di Medicina) ha parlato dei progressi del progetto “SETI Italia” mediante il sistema Serendip IV che cerca segnali radio alieni lavorando in parallelo alle osservazioni in corso al radiotelescopio senza togliere tempo e risorse alla ricerca radioastronomica di routine. Egli si è anche soffermato sull'apporto di Medicina al progetto SKA (Square Kilometer Array) , un gigantesco radiotelescopio che avrà un'area di un milione di metri quadri e che una volta completato (fra parecchi anni) potrà contribuire efficacemente anche alla ricerca SETI. Manzelle ha discusso i modi più recenti di acquisizione ed elaborazione dei segnali per il SETI. Sabrina Mugnos ha passato in rassegna le recenti missioni spaziali d'interesse per l'esobiologia, P.Caini ha parlato di Marte, Paolo Musso (Università Pontificia di Roma) ancora del SETI, Christian Maria Firrone (Politecnico di Torino) del fattore umano nei lunghi viaggi spaziali, toccando le diverse problematiche di vita a bordo di una navicella cosmica. I lavori del sabato hanno visto l’intervento di Massimo Teodorani (CNR di Bologna) sui misteriosi fenomeni luminosi in atmosfera, in particolare a Hessdalen (Norvegia). Egli ha sottolineato come fenomeni apparentemente inspiegabili trovino prima o poi una "razionale" interpretazione fisica. Roberto Pinotti [le sue perfomance non hanno debordato oltre la sociologia... ;-)°°°] ha discusso le tendenze sociologiche negli studi del SETI. Gli altri interventi hanno avuto un denominatore comune: il progetto RLI (Radiometro Lunare Italiano), che prevede la messa in orbita lunare di un piccolo ma sofisticato radiotelescopio che misurerà la schermatura delle interferenze radio originate dall'uomo da parte del disco lunare. Paul Blase (TransOrbital Inc., USA) ha presentato la prima missione privata commerciale lunare che presumibilmente entro il prossimo anno prenderà il via portando in orbita l'RLI italiano. Di seguito, Claudio Maccone ha presentato l'esperimento scientifico RLI. Secondo Maccone i risultati apriranno nuove prospettive per utilizzare la faccia nascosta della Luna come base per un futuro radiotelescopio che raggiungerà sensibilità impensabili qui sulla Terra. Flavio Falcinelli (Team RLI) ha relazionato sullo stato attuale della costruzione del modulo RLI, frutto del lavoro volontario di una dozzina di ingegneri, tecnici e scienziati italiani. L'intervento conclusivo dello scrivente ha presentato il software (RLI Simulator) scritto per pianificare gli esperimenti quando il RLI si troverà in orbita attorno alla Luna. Claudio Maccone ha chiuso i lavori con un intervento sulla difesa della Terra da un'eventuale minaccia asteroidale proponendo una soluzione che sfrutterà come future basi per il lancio di missili i punti lagrangiani di equilibrio L1 ed L3 del sistema Terra-Luna.
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