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            I cambiamenti nell’impianto urbanistico, susseguitisi nel lungo periodo vicereale (1504-1707) riflettono le mutate condizioni di dominio e di governo della città. Il Regno di Napoli divenne, infatti, una dipendenza diretta del Regno di Spagna, completamente subordinato ai suoi interessi economici, politici, militari. Il passaggio dal Regno aragonese al Viceregno spagnolo avvenne in maniera piuttosto complessa. Agli inizi del ‘500 il nuovo re di Francia Luigi XII  riprese  la politica espansionistica iniziata dal suo predecessore Carlo IIII, ma venne a scontrarsi con i medesimi programmi preparati dal re di Spagna, Ferdinando il Cattolico.

            Fu così che entrarono in aperto conflitto fra loro fino ad arrivare alla definitiva vittoria degli Spagnoli sul Garigliano. Dopo la pace di Chateau-Cambresis, nel 1559, il Regno di Napoli, insieme a tanti altri stati italiani, cadde nelle mani del Regno spagnolo e fu amministrato direttamente dal Supremo Consiglio d’Italia, un organo che aveva sede in Spagna ed era nato per la sola amministrazione dei territori sottomessi.

            Nel tempo il Supremo Consiglio fu sostituito dai viceré che governavano direttamente sul posto ed anche da un Parlamento che si riuniva ogni due anni. Questa amministrazione presentò però molte lacune in quanto le decisioni prese dal Supremo Consiglio non tenevano conto della reale situazione e delle esigenze dei territori amministrati. Si crearono così una serie di incomprensioni e di disguidi che esasperarono gli animi dei popoli sottomessi.

            Inoltre la fortissima pressione fiscale che gli Spagnoli esercitavano, andò a marcare sempre più le differenze sociali che esistevano  in precedenza e finì per dare di nuovo largo spazio a quei legami feudali che, intanto, nel resto d’Europa con l’avvento della borghesia erano scomparsi del tutto.

            Durante il periodo vicereale diventò massiccio  il fenomeno dello spostamento dalle campagne alle città, tanto che nel giro di pochi anni Napoli divenne la  città più affollata d’Europa dopo Parigi.

            E fu anche per questa situazione che si alimentò l’esigenza di apportare modifiche di carattere urbanistico alla città: di ciò si occupò in gran parte il viceré Pedro di Toledo, il quale nei suoi ventuno anni di regno (1532-1553) curò le trasformazioni di tipo urbanistico.

            La città continuò ad espandersi verso occidente, a causa della salubrità e dell’amenità delle pendici collinari che si susseguivano da Sant’Elmo a Pizzofalcone, mentre nella parte orientale, nonostante le bonifiche di epoca  aragonese per la costruzione della villa di Poggioreale, rimanevano vaste aree paludose, il cui prosciugamento avrebbe richiesto ingenti capitali.

            I nuovi cambiamenti che subì la città furono studiati anche in base alla difesa che si era evoluta con le nuove tecniche di guerra e la maggiore potenza dell’artiglieria. Rispetto alle opere difensive aragonesi, bastioni esterni ed ampi fossati assunsero un’importanza predominante in confronto al castello. Castelnuovo, pur modificandosi soprattutto nelle sue cortine esterne, che divennero più alte ed ampie per coprire l’alloggio delle truppe e il deposito delle polveri, fu destinato prevalentemente a residenza dei viceré (fino al completamento del Palazzo Vicereale) e molti edifici di largo delle Corregge (tra i quali il palazzo del conte d’Alife e la chiesa di San Nicola al Molo) vennero abbattuti per fare spazio alla riorganizzazione dei bastioni.

            La cinta muraria subì modifiche sostanziali, non tanto per un suo avanzamento verso il mare lungo il lato sud, quanto per una nuova linea difensiva che, ad occidente, si inerpicò con postazioni di vedetta della nuova Porta di Toledo fino a Sant’Elmo, alternandosi con speroni e dirupi naturali , per ridiscendere da Sant’Elmo  a Porta San Gennaro, in difesa anche di zone immediatamente esterne alle mura lungo il lato nord.

            Il sito di Sant’Elmo con il suo castello diventò il perno del nuovo sistema strategico-militare; il castello venne completamente ricostruito a partire dal 1537 e dalla sua altezza dominava il mare, la città e i suoi dintorni. Era protetto da bastioni e fossati su tutti i lati tranne che a sud da dove si controllava  l’artiglieria di via Toledo, la strada che partiva dal monastero di Santo Spirito (all’altezza dell’attuale piazza Trieste e Trento) ed arrivava fino al convento di Monteoliveto e che collegava la parte più settentrionale della città con il centro direzionale e rappresentativo intorno al porto e a Castelnuovo senza isolarsi dal vecchio centro gravitante intorno al decumano inferiore ( San Biagio dei Librai).

            Quest’ultimo la  intersecava ortogonalmente con un prolungamento fino alla collina di Sant’Elmo e al convento della Trinità, tanto che ebbe l’appellativo di “Spaccanapoli”.

            In via Toledo confluivano le strade minori provenienti dai quartieri di nuova urbanizzazione, detti “spagnoli” e che erano adibiti ad alloggi per le truppe del viceré.

Essi erano stati creati con  una struttura a scacchiera, con strade parallele ed ortogonali  e palazzi  addossati fra loro tanto che ebbero fin d’allora carattere congestionato e popolare. Il disordine edilizio era appena mascherato dai palazzi nobiliari che affacciavano sull’arteria.

             Verso il 1540 nella parte finale della strada si iniziò la costruzione del nuovo palazzo vicereale (il primo nucleo di quello che nel ‘700 diventerà Palazzo Reale) che di conseguenza spostò il centro direzionale. Intorno a questo si svilupparono poi i borghi di Chiaia e Posillipo.

            Congiunti alla nuova arteria si trovarono anche, automaticamente, due borghi preesistenti e già urbanizzati: quello della Pignasecca, per il quale fu aperto l’accesso di Porta Medina (all’altezza dell’attuale piazza S. d’Acquisto, già piazza Carità) e quello di Santo Spirito (da non confondere con lo Spirito Santo) che da un lato collegava l’ultimo tratto di Chiaia, dall’altro legava Pizzofalcone ai primi nuclei abitati sotto Sant’Elmo.

            Nel centro antico, Castel Capuano divenne la sede unica di tutti gli uffici giudiziari del Regno: nel giro di qualche decennio fra Porta Capuana e San Giovanni a Carbonara si svilupperà un intero borgo (Sant’ Antonio Abate) collegato bene col centro della città attraverso  via Tribunali, la strada di San Giovanni a Carbonara e quelle della Selleria e del Mercato.

            Per la massiccia presenza di numerosi ordini religiosi in città, si diede spazio alla costruzione e alla ristrutturazione di nuove chiese e si ingrandirono Santa Chiara, San Gregorio Armeno, SS. Severino e Sossio, San Domenico Maggiore. Sulla collina di Pizzofalcone sorsero la Nunziatella, Santa Maria degli Angeli e Santa Maria Egiziaca.

             I Gesuiti acquistarono il palazzo Sanseverino per la costruzione  del complesso del Gesù Nuovo.

            Furono costruiti inoltre istituti di beneficenza, confraternite, seminari scuole pie per lo più creati da organizzazioni di fedeli che si finanziavano privatamente. Esempi precisi di questo tipo di istituzioni sono il Sacro Monte di Pietà che nasceva con lo scopo di combattere l’usura, e il Pio Monte della Misericordia che voleva promuovere opere di assistenza corporale e spirituale a favore di persone di condizione disagiata.

VIA TRIBUNALI

             Via Tribunali é il più importante dei tre decumani della città greco-romana. Orientata da est ad ovest come gli altri due assi viari e intersecata nella sua lunghezza da una serie di stradine che in parte sono e in parte ricordano gli antichi cardini che tagliavano ortogonalmente le tre arterie, ha mantenuto nel tempo la sua struttura originaria, malgrado le sovrapposizioni di varie stratificazioni. Sempre ritenuta il “cuore” della città questa strada é stata, infatti, prescelta dall’aristocrazia come luogo di importanti insediamenti religiosi e civili, fino all’inizio dell’età contemporanea. 

E in realtà solo oggi conosce, al di là della tenuta dei monumenti e degli sforzi di volenterosi, un degrado che non merita.

            La via inizia ad occidente nei pressi della Chiesa di San Pietro a Maiella (eretta tra il XIII-XIV secolo e ampliata alla fine del ‘400). La successiva piazza Miraglia é delimitata dalla Chiesa della Croce di Lucca (del XVII secolo), che é quanto resta di un complesso monastico distrutto per la costruzione dei padiglioni universitari.

             Dopo l’innesto della via del Sole si incontra la cappella Pontano, edificio rinascimentale costruito per Gioviano Pontano, celebre umanista e segretario di Ferdinando I d’Aragona, in memoria dei parenti defunti. La cappella,  a pianta rettangolare, ha la facciata scandita da lesene scanalate sormontate da una trabeazione. Nell’interno notevole é  il pavimento maiolicato su cui sono incisi gli stemmi del Pontano e della moglie Adriana Sassone, figure umane e motivi fitomorfi. A sinistra della cappella sorge  la Chiesa di Santa Maria Maggiore, detta della “Pietrasanta” ,costruita su un tempio di Diana nel VI secolo d.C. e completamente rifatta da Cosimo Fanzago nel corso del ‘600. A fianco il campanile in forme pre-romaniche costruito anche con materiale di spoglio.

            Segue a destra il Palazzo Spinelli di Laurino del XVI secolo, ma rimaneggiata da un intervento settecentesco. Dopo la Chiesa del Purgatorio ad Arco e quella di Sant’Angelo a Segno si incontra il palazzo di Filippo d’Angiò, principe di Taranto, di cui é intatto solo il portale ogivale e il portico, unico esempio di architettura civile di epoca aragonese.

            Più avanti il decumano si allarga a formare l’attuale piazza San Gaetano alla quale  fanno da  quinta le basiliche  di San Paolo maggiore (dell’VIII secolo, ma completamente ristrutturata a partire dal XVI secolo) e San Lorenzo Maggiore (nata nel XIII secolo, sull’area di un primitivo impianto cristiano del VI secolo).

          San Paolo Maggiore è stato costruito su un tempio di stile corinzio dedicato ai Dioscuri, di cui oggi sono visibili tratti del basamento del V secolo, un muro in “opus reticolatum” e due colonne ai lati dell’ingresso della chiesa dopo che nel XVII secolo a causa di un terremoto crollò il pronao sopravvissuto fino ad allora.

            Molto complessa é la stratificazione che si é trovata sotto San Lorenzo Maggiore e che é uno dei più interessanti saggi archeologici costruiti  nella città. Sono infatti venuti alla luce, oltre  la pavimentazione della Chiesa paleocristiana, i resti di un edificio altomedievale (probabilmente un seggio della città), il macello, un cardine e altri ambienti tra cui forse l’Erario romano, locali destinati ad attività artigianali, altri ancora adibiti a mercato, una cisterna e un muro greco.

            Andando avanti lungo la via Tribunali, si incontra un’altra piazza, quella dei Gerolomini, antistante  l’omonima Chiesa, del XVIII secolo. Nello stesso  largo sorge anche la Chiesa di San Maria della Colonna ,rifatta nel XVIII secolo.

            Proseguendo si attraversa la via Duomo che é ricavata dall’allargamento di un antico cardine e si giunge alla piazza Sisto Riario Sforza e al Pio Monte della Misericordia.

            Si incrocia qui la piazza Sedil Capuano, chiamata così perché nel passato fu sede di un seggio. Oltre la piazza si trova la Chiesa di Santa Maria della Pace (del XVII secolo) e l’annesso ospedale, fondato nel 1587 a seguito della trasformazione di un palazzo quattrocentesco, di cui resta l’androne, il portale e il basamento.

            Più avanti si elevano due palazzi, l’Orsini del XVI secolo, e l’attuale archivio storico del Banco di Napoli, dalla facciata settecentesca, un tempo Sacro Monte del Banco dei Poveri.

            Andando avanti il Castel Capuano (del XII secolo ma ripetutamente modificato e restaurato, fortezza e dimora di vari regnanti prima di diventare Palazzo di Giustizia e carcere nel XVI secolo), con la sua mole severa, chiude a oriente via Tribunali.   

PIAZZA RIARIO SFORZA E LA GUGLIA DI SAN GENNARO

            La piazza prende nome dal cardinale Sisto Riario Sforza, arcivescovo di Napoli tra il 1845 e il 1877, il quale, oltre che pastore di anime, fu anche uomo di cultura e di grande sensibilità artistica.

            Essa si apre su Via Tribunali, all’ altezza del fianco destro del Duomo ed ha probabilmente antichissime origini.

            La tradizione vuole, infatti, che su questo largo nel periodo greco-romano prospettasse un tempio, secondo alcuni dedicato ad Apollo, secondo altri a Nettuno.

            Gli archeologi non hanno ancora dato una risposta scientifica a questa ipotesi. Tuttavia, nel Seicento, scavando presso il Campanile del Duomo, vennero alla luce una grande colonna di marmo cipollino ed altri materiali, questi ultimi, non portati in superficie, che potrebbero confermare la presenza sul posto di architetture antiche significative.

            Nel passato gli studiosi napoletani ritenevano che unico elemento superstite del tempio pagano fosse il cavallo di bronzo visibile nella piazza fino ai primi del Trecento, costruito, secondo una leggenda medievale, da Virgilio e dotato da parte dello stesso poeta, a cui si attribuivano virtù magiche, di poteri taumaturgici. Sembra, infatti, che fosse in grado di curare le malattie dei cavalli.

            Questo potere, però, sarebbe andato perduto, dopo che alcuni maniscalchi, che vedevano insidiato il loro lavoro, ebbero forato la scultura in vari punti. Il cavallo, privato di queste capacità, fu fuso nel XIV secolo per ricavare le campane del Duomo.

            Nel periodo angioino il lato di fondo della piazza fu chiuso dal fianco del Duomo e da un campanile sulla destra, crollato nel 1349, di cui oggi si vede il basamento.

                        Sul lato sinistro nel XV secolo venne costruito un palazzo dei Caracciolo, che, più volte rifatto , conserva della struttura originaria il portale su Via Tribunali e una fascia marcapiano.

            L’aspetto attuale del largo si è, in realtà, definito nel corso del 1600 con la costruzione della Guglia di S.Gennaro, a cui sembrano subordinati tutti gli edifici della piazza.

            Essa fu eretta come “ex voto” al Santo che aveva salvato la città dall’eruzione del Vesuvio del 1631. L’opera fu eseguita da Cosimo Fanzago (Clusone 1591- Napoli 1678) dal 1636 e, per vari contrasti, inaugurata solo nel 1660.

            Esempio primo di un nuovo tipo di arredo urbano, sintesi, sul piano formale, tra architettura e scultura, la guglia marmorea, è formata da un alto basamento e da una colonna terminante con un capitello ionico, sormontato dalla statua di S.Gennaro, in bronzo, opera di Tommaso Montani (Napoli, documentato tra il 1594 e il 1622).

            Al di sopra della base si legge che il monumento è dedicato al Santo Patrono; nel lato verso il Duomo si nota invece lo stemma della città. In questa opera Fanzago appose anche un suo autoritratto in marmo, oggi conservato nel Museo di S.Martino.

            Nel corso del XVII secolo all’interno del Duomo fu costruita la cappella del tesoro di S.Gennaro, la cui cupola , dalle masse robuste e conclusa in alto dai simboli del martire (le due ampolle del sangue su un vassoio), emerge poderosa alle spalle del già citato palazzo di Ser Gioioso Caracciolo.

            Sul lato destro della piazza, fra il Sei e il Settecento nacquero architetture non molto caratterizzate e sempre nel Seicento, a chiusura del quarto lato,  a filo di strada con Via Tribunali, si realizzò, elegante e severo nel suo prospetto, il Pio Monte della Misericordia.

PIO MONTE DELLA MISERICORDIA

            Il Pio Monte della Misericordia, sede di una pia istituzione laicale, espressione dell’ideologia della Controriforma che portò alla creazione di tante opere caritative, venne istituito quale ente benefico durante il Viceregno Spagnolo, il 19 aprile 1602, da sette nobili napoletani.

            Essi si proponevano in un periodo di crisi politica e morale e in un’ epoca in cui la pubblica amministrazione si disinteressava degli indigenti e del ceto umile sfruttato, di raccogliere e convogliare i donativi e i lasciti agli strati sociali più emarginati : poveri, carcerati e infermi.

            Prima  di  istituire  l’ Ente  ufficialmente,  i  sette  nobiluomini  avevano  già  svolto un’ attività di volontariato presso l’ Ospedale degli Incurabili, allo scopo di confortare i malati lì ricoverati ed erano andati a turno per le strade di Napoli a raccogliere elemosine da devolvere agli infermi.

            La carta di fondazione del Monte, detta Capitolazione, organizzata in  trentatre articoli relativi all’ amministrazione dell’ Ente, fu approvata con regio assenso da Filippo III  nel 1604 e l’ anno seguente da Papa Paolo V con un breve.

            Ottenuto il riconoscimento i promotori decisero di costruire una sede idonea al compito che dovevano svolgere.

            Acquistarono così due case nei pressi di Sedil Capuano, di fronte al Duomo, una dalla famiglia Tomacelli, l’altra dal marchese della Gioiosa e diedero inizio ai lavori di trasformazione che furono diretti dall’architetto Giovan Giacomo di Conforto.

             La  struttura  realizzata,tuttavia, si rilevò presto insufficiente, poco funzionale e mal situata al fronte della rumorosissima via Tribunali; sicché quarant’anni dopo si stabilì di ricostruire l’intero complesso con forme che rispecchiassero la posizione di prestigio e di potere economico acquisita dall’istituzione.

            I lavori, iniziati il 26 febbraio 1658 e ultimati nel 1672, furono affidati a Francesco Antonio Picchiatti, figlio dell’architetto Bartolomeo, che rivoluzionò l’ aspetto dell’edificio, abbattendo la facciata della Chiesa  precedente e costruendo un pronao.

            Il palazzo presenta due piani sopraelevati ad un portico in piperno, formato da cinque arcate che diventa filtro per i rumori esterni e, allo stesso tempo, atrio per il palazzo e pronao per la chiesa; gli archi del porticato si impostano su lesene ioniche con capitelli alla michelangiolina, con un festone pendente tra le volute.

            Sulla trabeazione è riprodotto il motto della fondazione: FLUENT AD EUM OMNES GENTES.

            I due piani superiori sono separati in cinque  zone da lesene e presentano una lunga balconata continua nel primo e cinque balconi nel secondo,le cui cornici  sono in piperno scolpito , contornati da volute in stucco.

Sotto il portico si aprono gli ingressi degli uffici e della chiesa e  sono situate alcune sculture degne di nota.

            A sinistra del portale della chiesa è la Madonna della Misericordia, a destra una figura allegorica femminile che riassume tre delle opere praticate dal Monte: la liberazione dei carcerati, il dar da mangiare  agli affamati ed il vestire gli ignudi.

            Un’altra allegoria muliebre è posta a sinistra dell’ingresso degli uffici e allude al seppellire i morti, al dar da bere agli assetati, all’ospitare i pellegrini, al visitare gli infermi.

            Autore delle sculture fu Andrea Falcone col quale collaborò il marmoraro Pietro Pelliccia.

            In verità, in un primo momento i governatori del Monte avevano pensato di affidare l’ ornamentazione plastica a Cosimo Fanzago, che aveva fondato a Napoli una vera e propria scuola di scultori; ma poiché questi non si rese disponibile, essi optarono per il Falcone, artista poliedrico e versatile, appartenente alla corrente artistica classicista, anche se in alcune sue opere si coglie qualche apertura al barocco.

            Sua creazione è anche il Re David, che si trova sulle scale che portano alla Pinacoteca, che non era stato realizzato, tuttavia, per il Pio Monte, ma per la Cappella Merlino della chiesa del Gesù Nuovo.

            La chiesa ha una pianta ottagonale con sette altari , corrispondenti alle sette opere di misericordia svolte dall’istituzione e ai sette dipinti che le rappresentano.

            Sull’altare maggiore c’è l’ importantissima tela “La Madonna della Misericordia” di Caravaggio. Nella stessa cappella, ai lati dell’altare, ci sono  altre due tele, una “S.Anna” di Giacomo di Castro e la “Madonna della Purità” di Andrea Malinconico.

            Nelle altre cappelle, a partire da destra rispetto all’altare maggiore, sono sistemati il “Buon Samaritano” di G.Vincenzo D’ Onofrio da Forlì, “Gesù e la Samaritana” (meglio definibile “Gesù ospitato in casa di Marta e Maria”) di Fabrizio Santafede, “S. Paolino libera lo schiavo” di Giovan Bernardino Azzolino, “San Pietro liberato dal carcere” di Battistello Caracciolo, la “Deposizione di Cristo” di Luca Giordano e infine un’altra opera del Santafede la “Resurrezione di Tabita”.

Sul portale d’ingresso c’è ancora un’altra pittura, copia di un lavoro di L. Giordano, che raffigura la “Adultera al Palo”.

            Negli angoli dell’ottagono che forma la chiesa vi sono dei pilastri compositi in marmo bardiglio sui quali si imposta una cupola a sesto rialzato e con doppia fila di finestre, divisa in otto spicchi a sesto acuto da larghi costoloni.

 Il pavimento è un esempio interessante di tarsia marmorea mista a cotto. Anche esso è diviso in spicchi da fasce di marmo intarsiato che sono la continuazione dei costoloni della cupola.

            Di grande bizzarria sono le due acquasantiere disegnate dal Picchiatti ed eseguite dal Falcone, site ai lati dell’ ingresso, che presentano elementi astratti, animali e vegetali che si fondono creando una struttura fantastica con volute, ali di pipistrello, piume e conchiglie, dando vita ad un insieme inquietante, vagamente somigliante ad una civetta.             La struttura del Pio Monte più importante, oltre la chiesa, è senza dubbio la quadreria, la cui collezione consta attualmente di tre nuclei principali (135 opere ca.), il primo dei quali è composto dall’eredità di Francesco De Mura, che in morte lasciò all’Ente tutto il suo studio (41 quadri), il secondo da un congruo lascito di tele databili tra il XVII e il XIX secolo di Donna Maria Sofia Capece Galeota , il terzo  da dipinti di varia qualità ed importanza di cui sarebbe difficile stabilire l’origine e il momento in cui sono entrati a far parte della quadreria.

MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO

- NOSTRA SIGNORA DELLA MISERICORDIA -

(LE SETTE OPERE DI MISERICORDIA)

            L’ opera, commissionata all’artista nel 1607, è situata sull’ altare maggiore del Pio Monte della Misericordia e costituisce l’attrattiva maggiore per chi entra nella chiesa.

            In essa il Caravaggio rappresenta le sette opere di misericordia corporali che si svolgono tutte contemporaneamente in una stessa scena, affollata da personaggi la cui azione viene unificata da una luce proveniente da più parti e più forte nella zona in cui è la fiaccola, che conferisce ordine ed equilibrio al tutto.

            I personaggi sintetizzano con pochi gesti tutta l’essenza della carità cristiana, rappresentata con le vesti della quotidianità plebea.

            La scena, infatti, ambientata in un animato vicolo di Forcella o di Pizzofalcone, è trattata come episodio della vita reale.

            Le opere di misericordia sono rappresentate da personaggi diversi, alcuni dei quali riconosciuti come figure bibliche o tratti dalla storia antica.

            Sull’estrema sinistra vediamo Sansone che si disseta alla mascella di un’ asina e, davanti a lui, un oste che riceve due pellegrini, in uno dei quali è raffigurato San Rocco; dell’altro pellegrino si vedono invece soltanto il bastone e un orecchio.

            Queste due scene simboleggiano il dar da bere agli assetati e l’ ospitare i pellegrini.

            Un po’ più al centro, in primo piano, troviamo un giovane dal cappello piumato e la spada ancora sguainata, forse San Martino, che divide il mantello con un ignudo riverso dinanzi a lui in posizione inconsueta e originale; rivolge, infatti, le spalle e la pianta del suo piede destro all’ osservatore.

            Sono qui riassunte due opere : vestire gli ignudi, ma anche visitare gli infermi, dal momento che non si può ignorare la presenza di un povero paralitico, di cui si vede bene solo il piede.

            Al centro della composizione si intravedono due mezze figure, un diacono con una fiaccola in mano ed un necroforo che trasporta un morto, di cui si notano solo i piedi.

            L’ episodio è la rappresentazione dell’ opera misericordiosa di seppellire i morti.

            A destra del quadro è dipinta la finestra di un carcere dalle cui sbarre si affaccia un vegliardo, che viene allattato da una fanciulla.

            La critica riconosce in questi due personaggi Cimone e la figlia Pero, che, come ricorda lo storico Valerio Massimo, sfidando tutti, si recava a nutrire come poteva il padre, condannato a morire di fame nel carcere.

            Quest’esempio di amore filiale commosse i giudici che rimisero in libertà il vecchio e decretarono l’edificazione  di un tempio dedicato alla “Pietas” ed eretto nel 181 a.c. a Roma, nel foro olitorio, dove si erano svolti i fatti.

            Caravaggio riunisce in questo episodio l’ opera caritatevole di visitare i carcerati e quella di dar da mangiare agli affamati.

            In alto è rappresentata la visione celeste della Madonna con il bambino sorretti da due angeli.

            Il gruppo guarda attentamente lo svolgimento delle opere caritatevoli, senza dare l’idea, tuttavia, di voler giudicare.

            I gesti degli angeli (l’ abbraccio e il braccio di uno di loro teso verso il basso) alludono, il primo alla tematica della fratellanza, il secondo, alla trasmissione della Grazia gratuita concessa  da Cristo.

            Da tutta l’ opera, sia che si guardi la rappresentazione dell’umano che del divino, traspare la suggestiva poetica del Caravaggio di profonda aderenza al vero e la sua scelta rivoluzionaria di rappresentare la natura, rompendo con i canoni tradizionali e con gli schemi tardo-manieristici nei quali operano gli artisti suoi contemporanei, in modo immediato e talora brutale, anche attraverso l’ uso particolare di luci ed ombre ora radenti, ora profonde, ora balenanti, che plasmano le figure e rendono le azioni concitate e piene di tensione esistenziale.

            Ce lo raccontano i personaggi con il loro essere ed il loro fare solo apparentemente privo di carica morale e religiosa.

            Ce lo dicono cose altrimenti prive di significato, come la goccia di latte che bagna la barba del vecchio e lo sforzo fisico dell’ ignudo, davanti al quale si alza una nuvoletta di polvere, probabilmente a causa di un movimento improvviso del piede.

             E “più su” ce lo fanno percepire la mano sinistra dell’ angelo vistosamente arrossata, che esprime lo sforzo compiuto dalla persona che ha fatto da modello a stare per ore in una posizione acrobatica e la Madonna, che, più che un’apparizione celestiale, è una madre con un figlio che si affaccia ad una balcone tra la biancheria posta ad asciugare.

GIOVAN VINCENZO FORLI

- IL BUON SAMARITANO -

            Il Forli è un artista molisano, attivo a Napoli tra il 1592 e 1l 1639 e legato al tardo-manierismo, come Santafede, caposcuola della cultura riformata a Napoli, e Azzolino.

            Nel  dipingere il Buon Samaritano che rappresenta l’opera misericordiosa del visitare gli infermi, l’artista usa un’ iconografia tradizionale impregnata di ricordi veneti e, nel modo di trattare il paesaggio, fiamminghi.

            Tuttavia, in questa tela si può cogliere la suggestione che su di lui ha esercitato l’opera del Caravaggio ed il suo tentativo di adeguarsi ad una pittura di tipo naturalistico.

            Si veda la palma del piede del ferito rivolta verso l’ osservatore che diventerà un “topos” del Seicento e del Settecento ed il complesso ,sia pure modesto, della Madonna con gli angeli.

            Il dipinto risulta essere stato pagato al Forli nel 1608.

FABRIZIO SANTAFEDE

- Gesù e la Samaritana ovvero Gesù ospitato in casa di Marta e Maria -

            Il Santafede è da considerarsi il caposcuola della pittura controriformata a Napoli.

            Il percorso artistico che lo caratterizza lo porta ad affiancarsi alle forze più vive del Manierismo napoletano e di importazione e allo germinare della pittura caravaggesca.

            Egli, nella sua produzione tende, da un lato a recuperare un classicismo quasi raffaellesco, dall’ altro ad un naturalismo semplice e piano e ad una affettuosa ed alquanto devota indagine della realtà.

            Queste scelte gli permettono di opporre ad una tendenza al decorativismo del suo tempo, un suo severo contentismo ed un’ aderenza al soggetto che, pur venendo incontro a richieste devozionali, apre uno spiraglio alla vita quotidiana.

            Nelle sue opere si ritrova anche uno studio del pittoricismo veneto grazie al quale egli riesce a rendere luci ed ombre in modo reale, tanto da essere definito dai critici, il pittore che a Napoli tratta la luce in modo più naturale.

            Il suo discorso pittorico è corretto e dignitoso e tale da farlo diventare un punto di riferimento per gli artisti più conservatori.

            Due sono le tele commissionate dalla Confraternita del Pio Monte al Santafede e da lui realizzate intorno al 1612 : “Gesù e La Samaritana” e “La resurrezione di Tabita” .

            La prima opera, che ha molti personaggi, un colorito addolcito, ombre studiate e contorni precisi, è di complessa interpretazione, in quanto, tradizionalmente, quando nei dipinti veniva rappresentato questo soggetto, nella scena figurava sempre un pozzo, cosa che qui non è presente.

            Per quanto riguarda i contenuti del racconto, l’artista si è ispirato ad un passo di San Luca nel quale si narra di come Gesù venga accolto in casa di due sorelle, di nome Marta e Maria e mentre Marta è tutta affaccendata per la presenza dell’ ospite, la sorella Maria preferisce ascoltare la parole del Signore, guadagnandosi così la salvezza.

            Il quadro rappresenta l’ opera caritatevole di ospitare i pellegrini e ciò è testimoniato dalla presenza, in basso nella tela, di due pellegrini, appunto, con il tipico bastone .

FABRIZIO SANTAFEDE

- LA RESURREZIONE DI TABITA -

              L’ episodio presentato è tratto da un passo degli Atti degli Apostoli, in cui si narra della morte di Tabita, una donna di Giaffa, dedita alle opere di bene, la quale in vita aveva confezionato e donato tuniche e mantelli alle vedove indigenti e, di come, S. Pietro, implorato dagli altri discepoli e dalle persone che piangevano la sua fine, la resuscitò.             

Nell’ opera il Santo è raffigurato in piedi accanto al letto sul quale giace Tabita che ha appena aperto gli occhi pieni di meraviglia.

            Intorno ci sono le vedove che, chiamate dall’ apostolo, mostrano a quest’ ultimo gli indumenti avuti in dono da lei, un infermo che si appoggia alle stampelle ed ha del pane tra le mani, altre donne con monete in mano e, in primo piano in basso, un uomo nudo con le spalle rivolte all’ osservatore, che ricorda molto le figure caravaggesche.

            La composizione contiene soggetti ritratti dal vero, sia pure idealizzati in senso devozionale.

            Nella tela vengono riassunte le seguenti opere di misericordia : sovvenire i poveri vergognosi e cioè : dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi.

GIOVAN BERNARDINO AZZOLINO

- SAN PAOLINO CHE RISCATTA LO SCHIAVO -

            La tela raffigura San Paolino, vescovo di Nola, che offre la propria persona per riscattare il figlio di una vedova, fatto schiavo prigioniero dai Turchi.

            Il riscatto dei prigionieri caduti nelle mani dei Turchi era una delle opere maggiormente esercitate dal Pio Monte della Misericordia.

            Tale attività, però, nel 1853, essendo mutate le condizioni storiche, con un decreto reale, fu convertita in quella di togliere “dalla miseria e dal vizio quelle fanciulle che fossero state condotte in mala vita”.

            Il dipinto che oggi viene attribuito all’Azzolino, in passato è stato da molti critici ritenuto di Carlo Sellitto, il quale, invece, secondo alcune tesi più recenti avrebbe probabilmente solo iniziato a lavorare all’opera, ma non l’ avrebbe conclusa. In questo senso potrebbe essere di sua mano la figura dello schiavo in basso a sinistra, che ha un’ impostazione caravaggesca così forte da non poter essere attribuita all’Azzolino, a cui i modi di dipingere del Merisi restarono sostanzialmente estranei, nonostante in qualche suo quadro non manchino citazioni para-caravaggesche.

            Per il resto l’opera riporta al fare pittorico dell’artista, detto anche il Siciliano, sia per quel che riguarda l’impostazione tardo-manieristica della costruzione spaziale, sia per il modo in cui è trattata la luce, che è diurna, sia per il disegno ed il colore che risulta avere una finitura porcellanata.

            La stessa parte superiore della tela, con la “gloria”, richiama una Trinità posta sopra un dipinto di san Carlo che si trova nella cappella Borrello della chiesa del Gesù, decorata completamente dell’Azzolino.

GIOVAN BATTISTA CARACCIOLO

     - SAN PIETRO LIBERATO DAL CARCERE -

           L’ opera venne commissionata dai governatori del Pio Monte della Misericordia nel 1613 a Carlo Sellitto, un pittore naturalista, morto però l ‘ anno successivo ; per cui nel 1615 la sua esecuzione fu affidata ad un artista di primo piano nell’ arte napoletana, Giovan Battista Caracciolo, in assoluto il più caravaggesco tra i pittori naturalisti napoletani, nato nella città nel 1578 e ivi morto nel 1635 e noto anche come Battistello Caracciolo.

            Il dipinto da lui realizzato per la Chiesa del Pio Monte corrisponde all’ opera di misericordia verso i carcerati, raffigurata dal Caravaggio nel quadro posto sull’ altare maggiore attraverso l ‘ episodio di Pero che allatta il prigioniero Cimone, suo padre.

            E come il maestro lombardo aveva raffigurato il concetto astratto delle opere di misericordia in termini di vita vissuta, così il Battistello interpreta l’ evento miracoloso come un fatto di vita quotidiana e reale.

            Nella tela, infatti, viene rappresentato un angelo, la cui veste luminosa allude ad un intervento divino, che trascina fuori dalla prigione un vecchio ed incredulo Pietro, incamminandosi con lui, fra una schiera di soldati addormentati verso una porta aperta a sinistra, dalla quale penetra la luce che ha il compito di illuminare la scena che è avvolta in una suggestiva oscurità.

            L’ uso dell’ intenso chiaroscuro, il realismo dei personaggi e la profonda comprensione del messaggio artistico caravaggesco rendono l’ opera molto vicina a quella del Merisi, che Caracciolo dovette conoscere di persona.

            Fra le analogie più significative basta citare il soldato in basso a destra del quadro, con le piante dei piedi sporche e le spalle rivolte all’ osservatore, che riprende la figura dell’ ignudo situato nella parte inferiore delle sette opere di misericordia di Caravaggio e ancora il guerriero di sinistra che indossa un elmetto identico a quello del soldato della “Negazione di Cristo” dello stesso artista.

            Nel dipinto, tuttavia, non mancano elementi che differenziano il fare pittorico del Caracciolo da quello del maestro lombardo e che legano l’artista anche ai grandi pittori romani e ai classicisti bolognesi.

            La luce, ad esempio, che fa brillare l’elmetto del soldato e rende abbagliante il bianco della veste dell’ angelo crea un effetto particolare che dà alle figure una consistenza scultorea.

            L’ opera è firmata sulla palla della catena con due monogrammi.

LUCA GIORDANO

- DEPOSIZIONE DI CRISTO -

            Questa tela sostituisce una “Sepoltura del Redentore” eseguita nel 1656 da Giovanni Baglione (attualmente nella quadreria del Pio Monte), che, per i rapporti di simmetria voluti dall’architetto F.A. Picchiatti all’interno della Chiesa, non risultava in sintonia con le altre opere realizzate per gli altari.

            Essa, come si legge accanto alla firma dell’ artista, è datata 1677, anche se alcuni critici sostengono che sia stata elaborata nel 1669.

            L’ autore del dipinto è Luca Giordano, nato a Napoli nel 1634 e morto nelle stessa città nel 1705, un artista versatile e ricco di capacità di rielaborare con estrema facilità la influenze più diverse e significativo per il fatto che, attraverso le sue produzioni, si può cogliere bene il cammino e l’evoluzione, in termini barocchi, dell’arte nell’ ambito del 600.

            L’ opera che illustra l’azione caritatevole di seppellire i morti, rappresenta il momento in cui Cristo, deposto dalla croce, viene sepolto secondo il racconto dei Vangeli.

            I personaggi maschili che, in primo piano, sorreggono Gesù, sono Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, le donne sono Maria di Magdala e Maria, madre di Giuseppe, che assistono alla scena pregando insieme ad altri fedeli giunti dalla Giudea.

            In alto a sinistra una schiera di angeli partecipa addolorata all’evento.

            In basso a destra, per chi guarda, sono visibili i simboli della Crocifissione (la corona di spine, un chiodo, un martello).

            Dal punto di vista stilistico, nell’opera ricordi naturalistici e ribereschi presenti nei volti dei due vecchi impegnati nell’opera di sepoltura e nella luce (che allude all’ora del tramonto)  si associano ad un fare pittorico più sciolto, che permette all’ artista di rendere fluido, chiaro e talvolta argenteo il colore e di sciogliere i contorni in una luminosa vibrazione atmosferica.

            Quando realizza il dipinto il Giordano ha, infatti, già assimilato bene l’ esperienza coloristica dei pittori veneti.

COSIMO FANZAGO

(CLUSONE, BERGAMO 1591 - NAPOLI 1678)

            Personalità di spicco nella scultura e nell' architettura napoletana, tanto da creare intorno a sè un grosso seguito, giunse giovanissimo in città, nel 1612, e vi rimase fino alla morte. Tra il 1623 e il 1631 realizzò l' opera più nota, il grande Chiostro di San Martino che al nitore neoquattrocentesco delle strutture, unisce un apparato plastico decorativo di gusto già barocco. A questo stile appartengono anche alcune delle sue più belle sculture (figure del Beato Albergati e di S. Ugo, inserite sulle porte). Pienamente barocche le sue opere napoletane più tarde : la Guglia di San Gennaro, la Chiesa di S. Teresa a Chiaia, il Palazzo di Donn' Anna a Posillipo (1635-1644), la cappella del Palazzo Reale. Realizzò anche la Chiesa di S. Maria Maggiore a Pietrasanta (iniziata nel 1653, molto danneggiata nel 1943), quella dell' Ascensione a Chiaia (1657) e di S. Maria Egiziaca a Pizzofalcone (1651).

GIOVAN GIACOMO (DI) CONFORTO

(1569 - 1630)

               Lavorò a Napoli tra il 1595 e il 1630. Nelle sue opere vengono sviluppate in modo acculturato e decoroso le proposte architettoniche del Vignola (Vignola 1507 - Roma 1573), che auspicava per l' arte del suo tempo una "regolata mescolanza" dell'antichità romana e delle esperienze architettoniche cinquecentesche e aderiva alle richieste controriformistiche della Chiesa in materia di costruzione di edifici sacri. L' attività del Conforto a Napoli fu di grande spessore culturale specialmente per il ruolo che egli ebbe nella mediazione tra le severe formule controriformistiche e l' avvio al barocco. Stimato e ricercato, l' artista si avvalse nella direzione dei suoi lavori della collaborazione dm Fanzago giovane e contribuì molto alla sua formazione e alla sua affermazione. Oltre che alla prima costruzione del Palazzo e della Chiesa del Pio Monte della Misericordia, il Conforto eseguì a Napoli anche altre opere tra cui : la Chiesa di S. Teresa agli Studi (1602-1612) ; la Chiesa di S. Agostino degli Scalzi (1604-1630) ; il Campanile del Carmine (1615-1622) ; inoltre intervenne nella realizzazione della Chiesa della SS. Trinità alle Monache (1616-1623) ; lavorò anche alla Certosa di San Martino (1609-1623) e alla Chiesa di S. Maria della Sapienza (1625-1630).

FRANCESCO ANTONIO PICCHIATTI

(DA NAPOLI 1617 - 1694)

             Figlio di un architetto, Bartolomeo, ereditò da lui (dal 1644) la carica di ingegnere maggiore del regno, impostando subito la sua attività in una prospettiva di ufficialità. Le sue opere insieme a quelle di  Cosimo Fanzago sono molto significative, in quanto hanno concorso in maniera sostanziale a caratterizzare l' aspetto di Napoli nel 600. Il suo discorso artistico resta a metà fra i canoni tradizionali classici e la ricerca dell' effetto barocco, fra una proposta basata sull'essenzialità possente ed un' altra basata sulla mobilità di particolari infiniti. Le sue opere in città sono numerose. Tra le più significative, oltre il Palazzo e la chiesa del Pio Monte della Misericordia, si elencano: il convento della Croce di Lucca (ricostruzione a partire dal 1643) ; il portale della facciata della Chiesa di S. Caterina a Formiello (1655) ; la ristrutturazione della facciata del complesso di S. Maria dei Miracoli (1662) ; il Castello del Carmine (1662) ; la Chiesa del Divino Amore (1662) ; la decorazione del Coro della Chiesa di Donnaregina (1682).

ANDREA FALCONE

(DA NAPOLI 1630 CA. - 1675)

                Rappresenta uno dei più significativi scultori a Napoli fra il 1650 e il 1675. Probabilmente fu allievo di Cosimo Fanzago, ma di sicuro fu suo collaboratore, anche se si mantenne su posizioni in parte diverse, attenendosi ad un classicismo più aggiornato. Nel 1659 si recò a Roma, dove ebbe modo di approfondire la conoscenza dell'arte classica. L' importanza di Falcone a Napoli è rappresentata dalla sua capacità di raccordare le esperienze degli scultori stranieri presenti in città agli inizi del secolo, sviluppando una singolare cultura plastica napoletana. Tra le sue opere, oltre a quelle eseguite per il Pio Monte della Misericordia, ricordiamo : il "San Domenico" nella Chiesa di S. Domenico Maggiore (1664 ca.) ; i lavori alla Cappella del Tesoro del Duomo di S. Gennaro (insieme a Giordano e a Dionisio Lazzari) ; le statue in stucco dei Santi Pietro e Paolo per la facciata di San Paolo Maggiore (ancora insieme al Lazzari) ; l' effigie di Isabella Guevara nella Chiesa di Gesù e Maria. Inoltre l' artista riveste una posizione importante, in quanto si occupa anche di scultura lignea, di decorazione marmorea, di progettazione architettonica e di settori più speciali dell' attività scultorea come la statuaria in argento.

MICHELANGELO MERISI

DETTO DAL SUO PAESE DI ORIGINE NEL BERGAMASCO IL CARAVAGGIO

(1573-1610)

             Segna la terza tappa dell’arte italiana, dopo Giotto e Masaccio, verso la resa della verità naturale, per raggiungere la quale fa cadere l’ultimo diaframma, cioè la stereotipa idealizzazione manieristica.

            Ma alla fine del ‘500 gli aspetti della realtà si presentano molteplici, non sono più riconducibili all’Umanesimo del tempo di Masaccio e meno ancora alla umana coralità dipinta da Giotto.

            Caravaggio deve ora fare una scelta ed eleggere la resa immediata ed essenziale di qualunque oggetto che una luce direzionale, guidata con sicurezza da lui, fa diventare perentorio soggetto, strappato, quasi, alle tenebre e costruito plasticamente in primo piano a dimostrare il suo valore di esistenza, sia caduca, come la frutta in un cesto, sia eterna per il messaggio che si rinnova, come un episodio del Vangelo.

            Questo suo realismo fu considerato rivoluzionario ed anche osteggiato, mentre il classicismo riformato di Annibale Carracci ebbe contemporaneamente maggiori consensi come li ebbe, poi, incondizionati, il barocco del Bernini.

            Formatosi giovanissimo a Milano, più che alle varianti manieristiche dominanti egli guardò indietro, risalì a quella pittura della provincia lombarda, non lontana da Caravaggio, del Moretto, del Savoldo, del Moroni, dello stesso Lotto, dal moderato naturalismo, dalle immagini concrete, dalla luce costruttiva radente o notturna e nota gli fu anche la pittura veneta.

            Giunto a Roma intorno al ‘90, il linguaggio plastico di Michelangelo nei nudi “senza ornato” della Sistina è per lui una grande lezione.

            Dopo un periodo di umile tirocinio comincia a lavorare per il cardinale Del Monte e per una committenza di alto livello che accetta nuove proposte artistiche.

            Dipinge ora immagini di giovani a mezzo busto perentoriamente illuminati da una luce frontale contro un fondo unito, ambigui come il Bacco degli Uffizi o malaticci, panneggiati di bianco sui torsi nudi davanti a coppe di cristallo e frutta, immagini che nel colto ambiente per cui erano dipinte dovevano alludere al alti concetti, come, fra l’altro alla caducità delle cose umane, ma che per essere così chiare, dopo tanta concettosa pittura allegorica manieristica, assumono per noi un emblematico carattere vitale.

            Ed a dimostrare che non sono i temi a fare arte egli isola e trasforma in soggetto anche un cestino ricolmo di frutta, il ben noto Canestro di frutta, all’Ambrosiana di Milano.

            Esegue inoltre in questo tempo un Riposo nel viaggio in Egitto, ora nella Galleria Doria Pamphili, unica opera che contenga un paesaggio.

            Vengono poi gli anni, gli ultimi del secolo, in cui dipinge le tele per la Cappella Contarelli e a queste prime opere pubbliche altre ne seguirono, prevalentemente religiose.

            Trattati con immediatezza sono i due dipinti, La Conversione di Paolo e La Crocifissione di Pietro, per la chiesa di Santa Maria del popolo, con Paolo folgorato dalla luce, riverso sotto il suo cavallo, e, di contro, la “macchina” della croce di Pietro faticosamente issata dai sicari: poche figure, poste in primo piano contro l’oscurità che cancella ogni riferimento ambientale.

            Tra i quadri di dimensione maggiore vi è La Morte della Vergine, ora al Louvre, rifiutata dai committenti ma subito acquistata dal duca di Mantova, in cui la desolazione degli apostoli grava tutto intorno al letto sul quale è adagiato il corpo di Maria, un donna appena spirata, non ancora composta per le esequie.

            Nel 1606 il Caravaggio deve fuggire da Roma perchè accusato di omicidio: va a Napoli e vi tornerà tre anni dopo, poi a Malta, quindi in Sicilia dove lavora a Palermo, a Siracusa, a Messina.

            A Napoli dipinge fra l’altro Le sette opere di Misericordia, mirabilmente compendiando in una composizione unitaria i sette temi; a Malta la sua stringatezza allenta la tenuta e nella Decollazione del Battista, alla Valletta, lo squallido cortile della prigione raccoglie il silenzioso gruppo dei sicari, dell’ucciso e della giovine col bacile.

            Lo smarrirsi di una sicurezza espresso nella minore forza della luce e del plasticismo, è evidente oltre che nel Seppellimento di Santa Lucia, anche nella Adorazione dei pastori di Messina.

            E sarà invece la luce implacabile di luglio a Porto Ercole, sulla via di ritorno a Roma, ad aggravare un attacco di febbre che lo porterà a morire, solo, non ancora quarantenne.

            Tutta l’arte del Seicento è in rapporto più o meno diretto col Caravaggio, sia quella di grandi pittori come Velasquez, Rubens e indirettamente Rembrandt, sia di coloro che  trasformarono il rigore del Maestro in émpito barocco, come gli artisti della scuola napoletana, sia infine quei seguaci che si arrestarono ad un realismo di genere volgarizzando il suo linguaggio.

GIOVAN VINCENZO D' ONOFRIO DA FORLÌ

DETTO GIOVAN VINCENZO FORLI O FORLÌ

(CAMPOBASSO - ATTIVO A NAPOLI TRA IL 1592 E IL 1639)

              Dai documenti che si riferiscono all'operato del pittore nella città si ricava che la sua attività fu molto feconda. Nel 1594 fu console dell'arte dei pittori insieme ad altri artisti, (tra cui Teodoro d' Errico). Atti relativi ad acconti e saldi tributatigli da parte di persone preposte alla gestione della Chiesa e del Brefotrofio dell'Annunziata indicano che gli furono affidati per questa istituzione e per la Chiesa numerosi lavori. Oltre che nella Chiesa del Pio Monte della Misericordia, sue opere oggi sono visibili nella Chiesa di S. Maria del Carmine (una "Madonna delle Grazie"), nella Chiesa dello Spirito Santo (una "Annunciazione" del 1602), nella Chiesa di S. Giovanni a Carbonara (una "S. Orsola e le compagne"), nella Chiesa di S. Maria della Sanità (una Circoncisione, saldata nel 1610). Il Previtali in "La pittura del Cinquecento a Napoli e nel vicereame" gli attribuisce inoltre una "Madonna con Bambino che appare ai Santi Francesco, Agostino, Biagio e Antonio da Padova" nella Chiesa del Gesù delle Monache. Lo stesso Previtali dice del Forli che egli "al pari di altri artisti italiani e spagnoli prima di adeguarsi alle nuove rivoluzionarie tendenze naturalistiche", avrebbe partecipato "al gran corale baroccesco di fine secolo". La corrente baroccesca, che prende nome da Federico Fiori detto il Barocci (1528/35 - 1612, urbinate) e riconoscibile nelle "sfaldature cangianti" del colore (di derivazione veneta) e in una linea e in un disegno preciso ma morbido per l'uso di un chiaroscuro modulato, si sviluppò in sintonia con un modo di dipingere dolce e pastoso. Una pittura raffinata e cantabile nella quale non mancano intonazioni pietistiche e coinvolgimenti psicologici in linea con le indicazioni controriformistiche che prescrivevano figure facilmente "didattiche".

GIOVAN BERNARDINO AZZOLINO, DETTO IL SICILIANO

(CEFALÙ, 1572- NAPOLI, 1645)

             Giunto a Napoli nel 1594, si formò in ambito tardo-manieristico e operò negli anni che videro l'affermazione di Caravaggio e della scuola caravaggesca napoletana, cui rimase sostanzialmente estraneo, nonostante alcune citazioni para-caravaggesche che ricorrono nei suoi quadri (cfr. lo schiavo in basso a sinistra nel "San Paolino", l' infermo a sinistra nella pala di San Pietro Martire e i tagli  d'ombra sul volto della figura femminile in basso a sinistra nella "Circoncisione" della Chiesa di Gesù e Maria). La sua produzione fu spesso segnata da un  convenzionale pietismo secondo un'impostazione controriformata che derivava da Santafede e dalle sue matrici toscane (Ciampelli, Passignano, Santi di Tito) e si mantenne costante con momenti di sofisticata eleganza.

GIOVAN BATTISTA CARACCIOLO, DETTO BATTISTELLO

(NAPOLI 1578-IVI 1635)

                La sua formazione disegnativa di stampo manierista gli deriva da un probabile apprendistato presso la bottega del pittore Belisario Corenzio, con il quale è documentata una sua collaborazione nel 1601 alla decorazione ad affresco del Monte di Pietà. L' arrivo del Caravaggio a Napoli nel 1606 lo vede artista già affermato e registra la sua immediata coesione al nuovo linguaggio naturalista, che si esplica in opere come l' "Immacolata Concezione con San Domenico e San Francesco di Paola" (1607) a Santa Maria della Stella, il "Battesimo di Gesù" della Quadreria dei Gerolamini, la "Madonna col Bambino" del Museo di San Martino. Dopo un viaggio a Roma nel 1614, dove ebbe contatti con Orazio Gentileschi e con altri caravaggeschi riformati, ritornò in patria ed eseguì la "Liberazione di San Pietro"(1615, Napoli, Pio Monte della Misericordia) e la pala della "Trinitas terrestris" (1617, Napoli, Pietà dei Turchini). Un nuovo e più lungo viaggio lo portò a Genova nel 1618, città in cui eseguì i perduti affreschi per il Casino di Sanpierdarena per Marcantonio Doria, uno dei suoi maggiori committenti. Durante il suo viaggio sostò a Roma, dove viene ricordato per aver copiato la Galleria Farnese e per aver intrattenuto legami con i pittori attivi al Quirinale. A Firenze, invece, studiò i manieristi del Cinquecento, conobbe forse Bilevert, Allori e Artemisia Gentileschi e viene citato dalle fonti per la sua abilità di ritrattista. Il ritorno a Napoli segna l'inizio della sua maturità artistica con le commissioni dei Certosini per San Martino: la "Lavanda dei piedi" del 1622 per il coro della chiesa, momento cruciale di riforma dell'iniziale caravaggismo verso i modi del classicismo bolognese e il ciclo di affreschi per le cappelle dell'Assunta e di San Gennaro. La sua attività di frescante si esplica lungo tutto il corso della sua carriera: nel 1623 ebbe l'incarico di eseguire un pennacchio nella Cappella del Tesoro nel Duomo di Napoli, poi rimosso per lasciar posto all'intervento del Domenichino. Intorno alla metà del terzo decennio attese alla decorazione della Sala del Gran Capitano in Palazzo Reale, rivelando le sue qualità di "pittore di storia". Altri cicli ad affresco furono da lui eseguiti nella Cappella Severino in S. Maria la Nova e nella Cappella di S.Maria in S. Diego all'Ospedaletto. Le numerose tele eseguite nella fase matura esprimono, nella dilatazione delle forme, la ripresa da esempi di Lanfranco e un gusto retorico e scenografico. Nelle opere dell'ultimo periodo, dalla "Madonna col Bambino e S. Anna" (Vienna, Kunsthistorisches Museum) al "Giudizio di Salomone" (Firenze, Coll. privata) si manifesta chiaramente il suo nuovo indirizzo estetico, frutto di una sempre maggiore attenzione per la presenza a Napoli di Domenichino e Lanfranco.

LUCA GIORDANO

(NAPOLI, 1634 - IVI, 1705)

                 Avviato al caravaggismo dal padre Antonio, anch' egli pittore, Luca Giordano ebbe la sua precoce educazione artistica nella cerchia di Jusepe de Ribera. Tuttavia, prima dei vent'anni fu in viaggio attraverso l' Italia per assimilare, con prodigiosa facilità, i diversi stili, studiando gli esempi della pittura antica e moderna con occhio critico e spregiudicato. Nel 1652 fece il suo primo viaggio di studio a Roma, a Firenze e a Venezia, interessandosi particolarmente dell'arte di Pietro da Cortona e della grande tradizione veneta del Cinquecento, sugli esempi di Tiziano e Paolo Veronese. Nel 1653, tornato a Napoli, sviluppò, in senso barocco, ciò che aveva appreso durante il precedente viaggio, senza mai, comunque, abbandonare del tutto i rapporti con la tradizione del "naturalismo" riberesco. Ebbe così inizio quell' attività prodigiosa, caratterizzata da una straordinaria prolificità che gli valse il soprannome di "Luca fa presto". Nel 1665 fu nuovamente a Firenze, dove lavorò anche per i Medici e poi a Venezia. A Napoli realizzò, fra il 1677 e il 1679 circa, alcune grandi decorazioni ad affresco: quella - distrutta durante la seconda guerra mondiale - nell' abbazia di Montecassino, quella della cupola della Chiesa di S. Brigida e il ciclo delle storie di S. Gregorio Armeno nell'omonima chiesa. A Firenze, nel 1682, decorò la cupola della Cappella Corsini nella Chiesa del Carmine e realizzò i primi bozzetti per la decorazione della Biblioteca e della galleria di Palazzo Medici Riccardi. La fama di Giordano era ormai grandissima in Italia ma anche all' estero, tant'è che Carlo II lo chiamò in Spagna, ove soggiornò per dieci anni, realizzando grandiose decorazioni. Dopo la morte di Carlo II, tornò in patria, a Napoli ; nella città natale eseguì le tele per la Chiesa di S. Maria Egiziaca a Forcella, la decorazione della Cappella del Tesoro nella Certosa di S. Martino e l' "Incontro di S. Carlo Borromeo con S. Filippo Neri" nella Chiesa dei Gerolamini. Al momento della morte, Giordano era impegnato ancora in altre decorazioni, come quella della chiesa di S. Brigida a Napoli, completata, poi, dai suoi allievi sulla base dei bozzetti lasciati dal maestro. Durante le varie fasi della sua attività, Giordano esercitò una vasta influenza sui contemporanei pittori fiorentini, veneziani e soprattutto napoletani : senza dubbio all' esaltazione della libera invenzione e alla versatilità dell' artista si deve un rinnovamento profondo della pittura partenopea che, con lui, giunse ad una splendida maturità barocca.

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Ultimo aggiornamento: 05-05-03

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