La Produzione Antica

 

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strumenti e macchine – metodi di lavoro industriale

Nonostante alcuni abbiano affermato che, nel campo delle applicazioni della tecnica, l’evo antico sia molto vicino a noi, dobbiamo comunque premettere che Roma, malgrado le sue notevoli realizzazioni non si distaccò molto dal livello raggiunto durante la civiltà ellenistica.

Durante quest’ultima, infatti, si sviluppò il periodo d’oro della tecnica antica, che fu caratterizzato dalle invenzioni del mulino ad acqua, delle pulegge, della vite senza fine, delle pompe e di altre macchine idrauliche o di altro tipo.

Nell’età romana, invece, a parte l’attività di Erone, non vi furono particolari scoperte nel campo delle scienze sperimentali, ma piuttosto fu impiegata la tecnica ereditata dalle altre civiltà.

I Romani dell’età imperiale sentivano di vivere in un periodo di grande progresso tecnico che sbalordiva tutti, anche perché, quando il bisogno incalzava, si dava alla produzione industriale un ritmo molto veloce.

Bisogna comunque dire che, nel complesso, il quadro non è affatto da ricondurre al meccanicismo, perché a Roma il lavoro umano prevalse sempre su quello meccanico. È, quindi, l’ansia di perfezionamento che fornì un deciso contributo alla tecnica.

Dal confronto con quelle precedenti, l’età romana non risulta certo emergente nel campo delle invenzioni e delle scoperte atte a perfezionare quantitativamente la produzione.

Le cause da attribuirsi all’inefficienza dimostrata in tale ambito derivano sia dalla concezione che i Romani avevano del lavoro, inteso come un esercizio prettamente servile, sia dalla effettiva ristrettezza del potere di acquisto delle masse.

D’altra parte la scarsa disponibilità di capitali per i liberi artigiani ed in completo disinteresse degli schiavi, rendevano ancora più irrealizzabile alcun genere di innovazioni. Il principale ed unico fine che ci si poneva, pertanto, era quello di perfezionare le tecniche di produzione già in uso per un miglioramento qualitativo del prodotto destinato ad una ristretta cerchia di consumatori. Ne conseguì perciò anche una vera e propria specializzazione dell’artigiano nel suo più preciso operato.

Bisogna però precisare che in condizioni di necessità, ed in risposta anche a stimoli apprezzabili, l’ingegno dei Romani si rivelò capace di risolvere problemi di genere pratico, raggiungendo un livello tecnico assai elevato ed anticipando, in taluni casi, moderne innovazioni.

Il ritrovamento di un’ancora ripescata nel lago di Nemi testimonia, ad esempio, come i Romani avessero preceduto la soluzione di un problema di navigazione presentatosi in età posteriore e risolto allo stesso modo pur a notevole distanza di tempo.

In campo agricolo abbiamo l’inven-zione del torchio a vite e della macchina per la mietitura, il perfezionamento degli utensili e di nuovi metodi di coltura. Al periodo augusteo risalgono probabilmente la trebbiatrice e la ruota ad acqua.

Numerosi furono, poi, i progressi nella produzione di coloranti e nella chimica, la cui introduzione è tutt’oggi tenuta in considerazione.

Se, quindi, l’apporto di Roma in campo strettamente innovativo non è molto considerevole, è da attribuirle comunque la grande opera di diffusione del patrimonio tecnologico greco orientale in Occidente.

Se agli scienziati greci ed ellenistici spetta il merito incontestabile di aver molto contribuito nel campo della tecnica e della meccanica strumentale con molte ingegnose invenzioni di strumenti e macchine, soprattutto nel campo agricolo, ai Romani spetta il merito di aver contribuito alla "volgariz-zazione" ed alla diffusione di essi e, soprattutto, motivo di lode per essi, è l’aver perfezionato, sul piano pratico, numerosi strumenti e macchine.

Come già accennato precedentemente, gli agronomi romani solevano distinguere gli strumenti dell’agricoltura in tre categorie, la prima era l’instrumentum vocale, ovvero utensile con la parola, cioè lo schiavo che esprimeva un altissimo potenziale tecnologico. Il mondo romano sfruttò moltissimo, quale fonte di energia, quella muscolare umana, soprattutto per la costruzione di opere pubbliche e nello sfruttamento delle miniere.

Alla seconda categoria appartenevano gli instrumenta semivocalia, ovvero gli animali; infine vi erano gli instrumenta muta, privi cioè della parola, ovvero gli utensili e le macchine.

In questo periodo questi ultimi si diffusero moltissimo, probabilmente grazie alla loro perfezione e specializzazione a tal punto che il complesso strumentale agricolo in uso presso i Romani, molto vario e ben assortito, ha suscitato la grande meraviglia degli studiosi.

Molto diffuso era l’aratro, usato per smuovere la terra e per prepararla alla semina; ve ne erano vari tipi, ciascuno dei quali caratterizzato da ingegnose particolarità allo scopo di essere adeguati alla varietà degli impieghi ,delle colture e dei terreni.

Vi erano, poi, l’ercipe, la crates, il rastrum simile al nostro rastrello, il sarculum o zappa a mano il sarchiello di legno: tutti strumenti impiegati per smuovere la terra, eguagliarne la superficie, rompere le zolle ed estirpare le erbacce.

Nelle ville e nei giardini si usavano strumenti più specializzati, quali bides, per una cultura più accurata dei terreni, il ligo e la pala, affini alla nostra vanga; la marra, per svellere le erbe e strappare le radici, simile ad una zappa fornita di denti; la gruccia; il pennato, strumento tipico dei vignaiuoli utilizzato per svariati usi :gioghi, legnature per sostenere le viti e gli alberi, ecc…

Per recidere i rami e le radici si usavano la securis e la dolabra, talvolta riunite in un unico utensile, la securis dolabrata.

Per la mietitura: dalle più diverse forme di falci (vericulate, denticulate, rostrate, ecc.), a strumenti dentati, a vere e proprie macchine anche a trazione animale, molto diffuse in Gallia.

Per trebbiare si adoperava il tribulum, mentre per vagliare il grano si usavano i ventilabra e i velli, strumenti a forma di pala.

Molto diffusi ed importanti erano i cesti, adoperati come sacchi o da collocare su carretti. Oltre agli strumenti a trazione umana o animale vi erano quelli a trazione idrica, soprattutto per la macinazione (le molae). Diffuso era anche il torchio; ve ne erano di vari tipi: arbores, prelum, sucula, regulae, ecc…. Questo era adoperato per la pigiatura delle vinacce e la premitura delle olive; indispensabile erano i recipienti (dolia, aphorae), per la raccolta e la conservazione dei prodotti.

Ciascun complesso di molae era chiamato trapetum ed era affiancato da strumenti accessori più o meno semplici.

Solo più tardi, nel 50 d.C., furono perfezionati ulteriormente tali strumenti e ne furono inventati dei nuovi, come ad esempio il torchi a vite, cochlea.

Mentre macchine per seminare, mietere e trebbiare erano largamente in uso, in Egitto diffuse erano speciale macchine idrauliche per far salire l’acqua da irrigazione.

Per quanto riguarda il campo mercantile lo strumento di scambio fondamentale era la moneta. Infatti fino al IV secolo a.C. nell’Italia romana il bestiame era mezzo di scambio, poi con lo sviluppo del commercio sopravvennero le monete. Nel 269 furono coniate quelle d’argento, il denarius ed il sestertius, poi nel 217 le prime monete d’oro, gli aurei.

Dobbiamo ricordare, inoltre, i mezzi di trasporto. Alcuni imperatori romani proibirono l’uso dei veicoli con ruote durante le ore del giorno. Per i lunghi viaggi si andava a cavallo o in carrozza tirate da cavalli. Ma i mezzi di trasporto più importanti erano decisamente le navi, soprattutto per il commercio.

Le navi romane erano mosse o dalle vele o dai rematori seduti in più ordini di banchi ed erano molto grandi. Si navigava solo lungo la costa e solo nella bella stagione.

Dobbiamo, però, tener presenti anche gli innumerevoli utensili in uso e la varietà degli strumenti di lavoro, come i recipienti per la conservazione dei prodotti, i banchi per le esposizioni delle merci, gli strumenti di misura, bilance, pesi, misure lineari, tenendo conto pure degli strumenti adoperati in alcune professioni come l’oreficeria e l’artigianato.

Lo scarso sviluppo dell’attività industriale a favore di quella agricola è dovuto prevalentemente alla ridotta produzione e, quindi, allo scarso impiego di macchine, che avrebbero permesso un’ingente aumento della produttività ed un minor costo del prodotto, ed all’esigua richiesta del mercato che non incentivava in alcun modo l’artigianato.

La meccanica, l’idrostatica e la chimica delle scuole di Archimede e di Alessandria in pratica ricevettero poca importanza poiché venivano applicati essenzialmente i loro principi di base, ed in maniera poco precisa. Nel mondo antico si incrementò moltissimo, col tempo, lo sviluppo della tecnica e della produzione sempre più automatizzata, tecnica risultata utile nelle epoche successive. Naturalmente il macchinismo moderno non è dovuto soltanto alla tecnica, ma anche a quelle scienze sperimentali che ne hanno permesso l’applicazione.

È anche vero che gli impulsi e gli stimoli moderni sono molto diversi da quelli del mondo antico che, quando si trovò di fronte a qualcuno di questi, riuscì ad appagarlo attraverso sempre nuove produzioni tecniche.

L’apice del progredire della tecnica lo si ebbe nel mondo romano tra il II sec. a.C. ed il II sec. d.C., in quanto successivamente non è possibile notare alcuna forma di progresso, a parte qualche caso anomalo come quello della fabbricazione del vetro. Già nello stesso secolo II d.C. si possono rilevare molteplici differenze rispetto al I secolo soprattutto nel campo della gioielleria e della ceramica: in entrambi è palese una lavorazione più rozza nel II sec. rispetto ai prodotti "mirabili per grazia e senso artistico" del primo secolo.

Il ferro e l’acciaio che venivano impiegati dai Romani a scopo bellico ed agricolo, erano il risultato di una lunga e paziente lavorazione.

Infatti il ferro, dopo essere stato estratto, veniva portato alle fornaci, dove però esso non si fondeva mai del tutto perché non era possibile con i mezzi allora esistenti raggiungere la temperatura richiesta per la fusione. Perciò il ferro, che si trasformava in un grossa massa spugnosa, veniva raffreddato con l’acqua e, poi, conservato per essere lavorato con l’incudine in caso di necessità.

Molto più semplice si presentava, invece, la lavorazione di altri metalli più duttili e malleabili, come l’oro, l’argento e, soprattutto, il bronzo, che veniva largamente adoperato nel campo artistico per la statuaria.

Questo metallo veniva lavorato ridotto in lamine che, riscaldate, potevano essere trasformate in vari oggetti.

C’era, poi, anche il mercurio che poteva essere ottenuto, oltre che ricavandolo allo stato libero, anche per sublimazione del cinabro.

Una grandissima importanza, infine, rivestiva, nella lavorazione dei vari metalli, la tecnica della saldatura. Essa fu usata dai romani soprattutto per la fabbricazione di tubi di piombo per le condotture, che venivano ottenuti piegando le lamine di piombo su se stesse e poi saldandole.

Per quanto riguarda, poi, l’estrazione dei vari minerali, essa era molto primitiva e veniva ancora effettuata manualmente o con macchinari comunque molto rudimentali.

lavoro libero e lavoro servile – lavoro nero

Il rapporto tra il lavoro libero e lavoro servile nel mondo romano è oggetto di polemiche e contrasti tra gli studiosi di economia antica; alcuni, infatti, sostengono che quest'ultima era fondata interamente sul lavoro servile, altri, invece, tendono a limitare gli effetti del lavoro servile sia nel tempo che nei singoli settori di produzione.

Bisogna precisare che, parlando di lavoro servile, si è soliti in genere riferirsi alle prestazioni dei liberti, anche se il lavoro del liberto, per le condizioni in cui era svolto, per il rendimento e l'abilità evidenziata dal lavoratore nella esecuzione tecnica del prodotto, non era paragonabile al lavoro dello schiavo.

In sostanza, dal punto di vista economico, la prestazione lavorativa dei liberti può essere considerata sullo stesso piano di quella degli ingenui, per la possibilità di appropriazione immediata del prodotto e l'interesse personale ad un massimo rendimento; si può anzi affermare che i liberti rispetto agli ingenui ebbero maggior senso del lavoro, riuscendo spesso ad elevarsi socialmente ed a venire a capo di cospicui patrimoni.

Dal punto di vista intellettuale non doveva esserci gran differenza tra ingenui e liberti, in quanto solo i più intelligenti ed i più docili degli schiavi riuscivano ad ottenere la libertà: se, al limite, c'era una differenza tra le due categorie, essa, per ciò che riguarda lavoro e produttività, doveva essere a vantaggio dell'elemento libertino. E vero che essi portavano dai propri luoghi di origine usi e costumi diversi da quelli in uso tra le popolazioni indigene, ma ciò si risolveva in genere in applicazioni vantaggiose per il rendimento produttivo; la loro posizione può essere considerata affine a quella degli stranieri immigrati, con in più il possesso della cittadinanza romana, che la maggior parte di questi ultimi non possedeva.

Sebbene le origini della schiavitù a Roma risalgano alla preistoria, è certo che presso i Romani il numero degli schiavi rimase a lungo relativamente limitato; nella fase iniziale delle guerre puniche i proprietari romani possedevano in media due, o tre schiavi ciascuno e tale situazione non deve apparire sorprendente in un periodo in cui la vita economica procedeva senza scosse in un ambiente rurale dominato dalla piccola proprietà.

Non bisogna dimenticare, infatti, che un largo impiego di mano d'opera servile avrebbe richiesto ai proprietari terrieri un accertamento di capitali che in quell'epoca non poteva essere frequente.

La situazione mutò radicalmente quando l'organizzazione economica dell'Italia fu sconvolta dall'afflusso continuo di capitali che rese insufficienti o inadeguate le antiche forme di produzione.

Fino ad allora il lavoro domestico, integrato dall'artigianato libero si era ben adeguato alla scarsezza dei bisogni; però, con l'improvviso aumento delle esigenze, questa organizzazione si trovò nell'impossibilità di farvi fronte: l'equilibrio tra domanda ed offerta di lavoro venne spezzato e l’impos-sibilità di servirsi dei lavoratori liberi avviò la richiesta di mano d'opera servile, favorita anche dalle guerre vittoriose in seguito alle quali furono riversate sul mercato considerevoli quantità di schiavi a prezzi sempre più bassi.

La crisi della mano d'opera fu partico-larmente grave nel campo dell'agricoltura: dopo le guerre di espansione la classe dei piccoli contadini-proprietari, che aveva fornito all'agricoltura gran parte della forza lavoro, si trovò decimata e distolta dalla terra, per una serie di cause che determinarono l'espansione del latifondo a danno dell'economia domestica.

A causa della sempre più accentuata rarefazione dei contadini-proprietari le grandi industrie dovettero fondare la organizzazione del lavoro solo sulla mano d'opera servile, anche se in parte la popolazione contadina continuò a rimanere nelle terre trasformata in affittuaria delle grandi tenute.

Già nell'età di Augusto il fenomeno aveva raggiunto un'estensione generale: l'Italia agricola e guerriera andava scomparendo e si manifestava sempre più la tendenza a limitare l'impiego di mano d'opera libera.

In conclusione si può affermare che negli ultimi due secoli della repubblica il lavoro servile era penetrato nei vari settori della vita economica, sebbene l'impiego di uomini liberi non venne abbandonato, soprattutto per i lavori di maggiore importanza e delicatezza.

Non possiamo precisamente stabilire, per carenza di dati, quale fosse la consistenza numerica degli schiavi in questo periodo; sappiamo, però, che ai Romani doveva sembrare enorme (almeno a sentire le testimonianze di Plinio, Cicerone ed altri) e forse in realtà lo era, tanto da emanare la legge Fufia Canina che riguardava coloro che possedevano fino a cinquecento schiavi.

C'è da chiedersi, quindi, quale fosse il rapporto tra la forza-lavoro dell'elemento servile e di quello libero: questione, questa, che ha sollevato numerosi dibattiti tra gli studiosi.

Noi potremmo basarci sui più probabili dati dello storico Mayer (che opta per un rapporto di due schiavi per un libero) da cui, considerando che gli schiavi erano quasi tutti adibiti al lavoro mentre i liberi lo erano solo per un quarto, deriviamo che nel I sec. a.C. c'era una netta preponderanza della forza-lavoro servile.

Nei primi tempi dell'impero, poi, vi fu un forte incremento del fattore servile sia nelle case dei ricchi, che brulicavano di schiavi, sia nelle aziende agricole medie e grandi, gestite dalle cosiddette familiae servili.

Ma, per valutare l'effettiva importanza degli schiavi sull'economia imperiale, dobbiamo prima conoscere la loro consistenza nelle classi medie e poi stabilire i rapporti tra la azienda contadina, gestita direttamente dal proprietario senza quasi impiego di mano d'opera non libera, e le medie e grandi proprietà di cui abbiamo parlato prima.

Vediamo che, iniziato con Catone, il quale accentuava la convenienza degli schiavi nei campi, il processo della loro affermazione raggiunge con Augusto la sua pienezza: tutte le grandi e medie aziende sono condotte tramite gruppi di familiae rusticae, sotto la sovraintendenza di un vilicus, anch'egli schiavo.

Nonostante ciò, la piccola fattoria indipendente, gestita direttamente dal proprietario, non scompare del tutto, ma anzi mantiene la prevalenza sul latifondo in Spagna (vedi Marziale), in Africa ed in Italia (vedi Orazio, Catullo, ecc..).

Ricordiamo, inoltre, che erano liberi, e quindi relativamente indipendenti, anche i lavoratori di affitto parcellare, che troviamo in Italia largamente diffusi ai tempi di Traiano e di Nerva (vedi le iscrizioni di Piacenza e di Benevento), poi anche in Africa e forse in tutte le altre province, ad eccezione dell'Egitto.

Il lavoro servile, quindi, non soppiantò mai quello libero, che mantenne la sua posizione anche grazie a mercenari che fittavano le loro prestazioni e ad operai specializzati in operazioni delicate, alle quali probabilmente erano inadatti gli schiavi.

Addirittura vediamo che successivamente si innestò un processo, e ciò è attestato da Varrone, secondo cui le forze servili vennero a subire la concorrenza delle forze libere, sia per quanto riguardava l'affidamento di mansioni di maggiore presa economica, sia quello di fondi privati in generale.

Si può ben dire, quindi, che nel I sec. d.C., anche considerando le testimonianze di Plinio riguardo addirittura la detestabilità dell'opera servile, lo "schiavismo" promulgato da Catone si estinguerà totalmente.

Sempre di più, dunque si diffondevano i liberi lavoratori, sia per le motivazioni economiche prima menzionate, che per ragioni di ordine politico: lo Stato, infatti, cercava di favorire la suddivisione dei grandi appezzamenti di terreno in piccoli lotti da distribuire equamente ai coltivatori, in modo da sostituire le grandi aziende a mano d'opera servile con piccole fattorie contadine.

In questo modo veniva eliminato il rischio di disordini e sommosse che potevano essere fomentate dall'eccessiva concentrazione degli schiavi nei latifondi.

A questo scopo vennero presi provvedimenti quali la legge agraria di Tiberio Gracco, la concessione di terre ai veterani e la legge di Cesare.

I liberi lavoratori non venivano impiegati in larga misura nelle industrie, dove piuttosto prevaleva la mano d'opera servile, parte della quale, talvolta, prendeva addirittura parte all'amministrazione dell'azienda.

Superiore a quello degli schiavi era, invece, il numero dei lavoratori liberi dediti all'artigianato. Se, in effetti, antichi giuristi, come Varo e Testa, testimoniano che, talora, proprio agli schiavi era affidata la gestione di botteghe ed officine per conto del padrone, molti altri dati rivelano che, in questo genere di attività, prevalevano i cittadini liberi: infatti su 1854 iscrizioni di nomi di lavoratori pervenuteci, toltene 919, solo 67 sono sicuramente attribuibili a schiavi mentre le altre riguardano i liberi. Ancora... anche dagli scavi di Pompei si è potuto desumere che esisteva, in quella città, una grande quantità di artigiani liberi.

È certa, infatti, l'esistenza di numerose associazioni professionali-artigianali che, tra l'altro, avevano un rilevante peso politico, in quanto potevano offrire un valido sostegno ad un candidato nelle elezioni.

È evidente che tali artigiani non potevano essere schiavi, perché a questi era proibito riunirsi in associazioni e, comunque, ben poco valore avrebbero avute le loro raccomandazioni.

La presenza, in questo periodo, di una numerosa componente di lavoratori ed artigiani liberi è stata accertata anche in altre località: a Tiro, a Pozzuoli, nel paese dei Calibi od in Egitto (dove veniva adoperata, per lo più, mano d'opera libera per sino nelle miniere).

I lavoratori liberi trovavano largo impiego anche nei lavori pubblici e nelle attività commerciali. In verità nel campo del commercio sono stati rilevati casi in cui padroni, dando agli schiavi un piccolo capitale (peculium), affidavano loro il controllo dei propri commerci, avvalendosi, spesso, della naturale abilità e dell'intuito propri degli orientali. Così gli schiavi, in alcuni casi, ricevevano le più varie mansioni nell'ambito del commercio, ma in realtà si trattava di casi-limite od almeno non molto frequenti erano i momenti in cui ricchi signori di Roma decidevano d adoperare degli schiavi per la gestione dei propri affari commerciali, perché l'esercizio diretto del commercio era considerato disonorevole per il nobile romano.

Al personale servile, dunque, venivano affidate non funzioni direttive, ma incarichi operativi e pratico-manuali. Un gran numero di schiavi, poi, era impegnato in attività servile di ogni genere e molti di loro diventavano amministratori, precettori, cuochi, addetti alle librerie, corrieri, medici,

A Roma la forza-lavoro viene sempre divisa tra schiavi e liberti, ma non abbiamo notizie che attestino il rapporto secondo il quale essi si siano distribuiti in tutte le regioni.

È logico comunque credere che nei luoghi in cui vi era un forte accumulo d capitali, quindi presso aziende agricole ed industriali, il concentramento servile fosse di gran lunga maggiore che nelle altre zone. Ma il fatto non va generalizzato, perché in alcune grandi aziende troviamo accanto agli schiavi famiglie di coloni liberi che si occupano della gestione del terreno a loro affidato.

La scarsa produttività del lavoro servile portò i Romani a cercar di studiare i mezzi per aumentarne il rendimento.

Infatti, oltre alle spese di sorveglianza o alla necessità di assicurare all'azienda un lavoro continuo per tutto l'anno, si aggiunse anche il limite insuperabile della mancanza di interesse diretto del lavoratore alla produzione, tale che si giunse a calcolare che esso era di due terzi inferiore a quello di un operaio libero.

Quindi per porre rimedio a questa situazione non c'era altro modo che eliminare i motivi di disinteresse e la mancanza di autonomia nell'esecuzione. Si ricorse, quindi, a due istituti giuridici, il peculio e la manomissione: con il primo lo schiavo non ebbe più potere di possedere e di contrattare; il secondo fece si che egli potesse divenire libero e lavorare liberamente.

Per attirare lo schiavo ad un lavoro maggiormente produttivo si pensò di con cedergli un piccolo patrimonio che, col passare del tempo, sarebbe potuto aumentare e di cui lo schiavo aveva la piena disponibilità; anche se solo di diritto, esso apparteneva ancora al padrone, che prelevava solo una somma di denaro fissata a priori, lasciando così l'intera gestione di un'azienda commerciale allo schiavo.

Così lo schiavo fu stimolato ad un perfezionamento tecnico del lavoro che svolgeva.

In questo nuovo sistema che si sperimentò, però, vi erano anche lati negativi, come quello di vedersi tolto tutto il patrimonio accumulato dal padrone da un giorno all'altro. Comunque questo sistema fu attuato sia nella coltivazione dei campi che nell'industria e nel commercio mediante l'autorizzazione data allo schiavo o di coltivare per conto proprio un pezzo di terreno, o di metter su bottega.

E fu così che lo schiavo partecipò in società più come "persona" che come res. La manomissione fu l'altro mezzo con cui la società pensò di accrescere il rendimento della mano d'opera.

Dal punto di vista sociale, infatti, si cercò di sostituire al lavoro meccanico ed indisciplinato dello schiavo quello interessato e diligentissimo di coloro i quali erano capaci di svolgere un lavoro autonomo. Così i liberti costituirono nell'impero una classe che, anche se sotto certi punti di vista era considerata poco raccomandabile, si seppe distinguere nei settori della produzione e, spesso, in una posizione finanziaria dominante. Essi costituirono una classe molto differenziata di uomini validi, perché, sin dall'epoca di Augusto, ebbero una parte di primo piano nell'amministrazione, mentre assunsero un posto di grande rilievo nella borghesia municipale, riuscendo con le proprie doti, talvolta, a costituire enormi patrimoni.

 

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Ultimo aggiornamento: 05-05-03

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