Cenni storici sui secoli III / I
Lo smembramento dell’impero di
Alessandro non segnò la fine di una straordinaria creazione, ma
diede l’avvio alla formazione degli Stati ellenistici e della
civiltà ellenistica, la quale costituì un’importante tappa
nello sviluppo della civiltà mediterranea.
Mentre la civiltà della
città-stato entrava definitivamente in crisi, si affermava la
monarchia ellenistica, che riprendeva la tradizione teocratica dei
sovrani orientali, arricchendola del senso organizzativo e
razionalistico dei Greci.
Le città greche, ormai
sottoposte quasi tutte al controllo macedone, cercarono di
costituire nuovi organismi come la Lega Etolica e la Lega Achea,
capaci di meglio fronteggiare i potenti regni ellenistici.
Queste formazioni pluricittadine,
che costituirono l’ultimo prodotto della fantasia politica
greca, si sforzavano di superare una volta per tutte il
tradizionale spirito municipale dei Greci, pur conservando alcuni
aspetti della tradizione della "pòlis".
I regni ellenistici ebbero vita
piuttosto breve, salvo l’Egitto che si mantenne indipendente
fino al 30 a.C., perchè tutti tra il II ed il I secolo a.C.
finirono sotto il dominio di Roma; questo fatto fece sì che la
civiltà romana ereditasse i caratteri fondamentali della civiltà
ellenistica e li trasmettesse all’avvenire.
L’Ellenismo non fu solo un
fenomeno culturale, ma riguardò ogni possibile campo dell’attività
umana; la realtà politica, giuridica ed economica venne
profondamente imbevuta dallo spirito della civiltà greca che in
questi secoli si dimostrò elastica e facilmente assimilabile, a
differenza di altre civiltà più antiche che, come quella
egiziana o persiana, per la loro rigidezza non erano mai state
capite ed assorbite da altri popoli.
La monarchia ellenistica è
caratterizzata dallo statalismo, cioè dalla tendenza del potere
centrale a controllare tutti gli aspetti della vita del paese ed
in particolare dell’economia; questo fatto, tipico specialmente
del Regno d’Egitto, fu reso possibile dal forte senso
organizzativo che animava la civiltà greca.
Le maggiori filosofie dell’età
ellenistica, l’epicureismo e lo stoicismo, esaltarono la figura
del "saggio" che trova nella sua interiorità e
nella sua vita privata le ragioni della propria esistenza.
Perciò queste filosofie furono
spesso critiche nei confronti della società e delle sue leggi, ed
i sovrani ellenistici preferirono, quindi, incoraggiare le scienze
specialistiche i cui cultori non erano indotti ad occuparsi dei
grandi problemi etico-politici.
I culti orientali influenzarono
potentemente la religione greca, in quanto suscitarono i problemi
dell’aldilà, interiorizzarono l’esperienza religiosa, facendo
così nascere prospettive e concetti originali come quello di
"peccato" e di "purezza morale";
questa nuova sensibilità religiosa prepara il terreno alla futura
diffusione del Cristianesimo.
o o o
323 a. C.: muore Alessandro
Magno e il suo sconfinato impero viene diviso fra i suoi generali;
si vengono a creare numerosi regni di varie dimensioni, ma
accomunati dalla stessa lingua, il greco della koinh dialektoV.
Tra loro s’instaura una fitta rete di scambi commerciali e su
questo nuovo assetto politico si sviluppa una nuova cultura;
questa cultura verrà chiamata Ellenismo.
Regno di Macedonia: il più
stabile dei regni ellenistici, perché mancava la contrapposizione
tra l'aristocrazia, classe dominante, ed il popolo, dualismo
tipico della maggior parte degli altri regni. Vi regnò la
dinastia degli Antigonidi. Il cammino verso l'acculturamento fu
molto lineare e conseguenza della stabilità politica, favorita
anche dal fatto di essere lo stato originario d’Alessandro
Magno.
Regno di Pergamo: al centro
dell'attuale Turchia, era piccolo ma ricco di miniere d'argento.
Vi regnò la dinastia degli Attalidi, ma questa si esaurì ben
presto. L'ultimo re, Attalo III, fu molto lungimirante; prevedendo
che il suo regno sarebbe stato diviso tra gli stati confinanti, lo
lasciò in eredità a Roma. Infatti, il regno di Pergamo fu l’unico
a non essere stato conquistato dai Romani. A questo riguardo, va
rilevato che l'unico autore greco a capire che la Grecia doveva
cedere il passo a Roma fu Polibio, che scrisse un’opera (le Storie)
in cui esaltava la grandezza di Roma e della sua costituzione.
Regno di Siria: i Seleucidi
controllavano una vasta zona, corrispondente più o meno alle
attuali Siria, Giordania e Palestina. L'economia, erede di quella
fenicia, era basata sui commerci marittimi.
Regno d’Egitto: politicamente
visse un dualismo fortissimo, favorito dalla sua posizione
geografica di pressoché totale isolamento; il faraone,
appartenente alla dinastia dei Tolomei, era considerato un dio
vivente, non un semplice imperatore, e veniva appoggiato dall’unica
casta istruita, quella dei sacerdoti, mentre le masse popolari
erano totalmente tagliate fuori dal potere politico e da buona
parte di quello economico. In seguito ad una fitta rete di scambi
commerciali via terra e soprattutto via mare, Alessandria (il
porto principale) divenne la città più importante
dell'ellenismo. Il resto dell'Egitto rimase in una condizione d’isolamento
e d’arretratezza, sempre tenuto sotto stretto controllo dalla
mano del faraone. Da un punto di vista culturale, di tutto
l'Egitto solo la città d’Alessandria fu interessata
dall'ellenismo, ed anzi ne divenne uno dei poli più importanti,
in quanto fu sempre proiettata verso il mare e verso gli scambi
commerciali (l’Egitto era un grande esportatore di frumento) e
culturali con gli altri regni ellenistici.
Le date da ricordare
323 - morte di Alessandro Magno
e prima divisione dell’Impero
322 - Antipatro doma la
ribellione dei Greci
301 - definitiva sistemazione
dei regni ellenistici
235 - riforme di Cleomene a
Sparta
222 - Antigono Done sconfigge
Cleomene a Sellasia
215 - inizia la prima guerra di
Roma contro Filippo V: durerà dieci anni
200 - seconda guerra macedonica
e sconfitta di Filippo V a Cinocefale
196 - Roma proclama la libertà
di tutte le città greche
189 - Roma sconfigge Antioco III
di Siria
168 - Roma sconfigge Perseo di
Macedonia a Pidna
148 - la Grecia è provincia
romana
146 - Roma sconfigge la Lega
Achea; distruzione di Corinto
63 - Roma si impadronisce del
Regno di Siria
30 - Roma conquista l’Egitto
L’ELLENISMO
Con tale termine si indica il
periodo che intercorre tra il 323, anno della morte di Alessandro
Magno, ed il 31, anno della battaglia di Azio: esso si divide nei
periodi "alessandrino" e "romano".
Alessandro Magno aveva creato un
impero universale come conseguenza della fusione eterogenea di
popoli diversi etnicamente, religiosamente e politicamente, e la
sua morte segnò, quindi, il tramonto di tale impero e la nascita,
sulle sue rovine, di regni affidati ai successori di Alessandro,
ai Diàdochi.
Si formarono quattro regni: il
regno d’Egitto, sotto i Tolomei; il regno di Siria, sotto i
Selèucidi; il regno di Macedonia, sotto gli Antigònidi ed il
regno di Pergamo, sotto gli Attàlidi.
Il più importante fu il regno d’Egitto
che con i Tolomei raggiunse un ampio sviluppo: in esso c’era un’organizzazione
centralizzata del potere, in cui il sovrano era il padrone della
terra e controllava praticamente tutto, dalle esportazioni alla
moneta.
Simile all’Egitto era la
Siria, dove pure c’era un re che era visto come coordinamento di
tutto e come un faraone, coadiuvato nell’amministrazione del
potere da strateghi: in essa la terra veniva data in usufrutto a
casati e famiglie che, così, diventavano centri di potere
economico con la possibilità di poter stipulare autonomamente
trattati.
L’Egitto, fiorentissimo,
raggiunse l’apice culturale con i Tolomei sotto i quali sorsero
un’accademia che ospitava dotti ed eruditi (il "Mousèion"),
una biblioteca in cui erano conservati i doppioni dei libri del
Mouseion (il "Serapèion") e la grande biblioteca
di Alessandria, che giunse a possedere 700.000 volumi sotto i vari
suoi direttori: Zenodoto di Efeso, Apollonio Rodio, Eratòstene,
Aristofane di Bisanzio, Apollonio detto "Eidògrafo"
(= "classificatore di generi letterari").
Se l’impero universale di
Alessandro Magno è una sintesi di popoli diversi, allora la prima
caratteristica dell’Ellenismo è la disgregazione:
letterariamente l’Ellenismo è un momento di sintesi dell’umanità,
non di creatività; la crisi degli ideali politici determina,
infatti, la decadenza della tragedia e dei generi letterari
tradizionali greci che quei valori rappresentavano.
Conseguenza di questa crisi di
valori letterari e sociali è anche l’assenza di grossi autori e
la tendenza, quindi, dei letterati a riunirsi in accademie, come
quella della "Plèiade".
Anche la commedia cambia; non è
più aristofanesca, ma diventa borghese, attenuata, introspettiva,
soprattutto con Menandro.
Nel momento in cui cadono i
valori tradizionali e, quindi, non c’è più una produzione con
finalità generali e comuni, cambia anche il pubblico che, ora,
non è più la massa, ma l’"élite", gli
eruditi.
Gli autori, non essendo capaci
di originalità per la decadenza dei valori, ripiegano sul
passato, su antichi miti, sulla ricerca del particolare
mitologico, sulla ricerca eziologica: ricercano, dunque,
attraverso questi temi, l’effetto, lo stupore, del pubblico.
Accanto alla produzione d’"élite"
abbiamo una produzione che viene fuori dal passaggio del cittadino
greco a suddito, che spinge questi autori ad abbandonare la
realtà ed a ripiegare nell’interiorità.
Anche se continua ad esistere
una letteratura ricreativa, una poesia realistico-popolareggiante,
si può dire che l’unica forma letteraria ellenistica veramente
valida ed originale sia la poesia bucolico-pastorale con Teocrito,
il suo principale esponente.
Il termine "Ellenismo"
venne usato per la prima volta dal tedesco Droysen nella sua opera
"Storia dei Greci".
Il Droysen intese contrapporre
il termine "Ellenismus", che secondo lui indicava
i rapporti tra i Greci ed i popoli dell’impero di Alessandro
Magno, a "Romanismus", che invece indicava i
rapporti tra i Romani ed i popoli barbari germanici.
Circa il termine "Ellenistés",
lo riprese dagli "Atti degli Apostoli", in cui
appare in due parti: nella prima si afferma che a Gerusalemme
esisteva un contrasto tra "Ebràioi" ed "Ellenistài",
mentre nella seconda si dice che l’apostolo Paolo corse un
pericolo di morte perchè gli "Ellenistài",
considerandolo un traditore, volevano ucciderlo.
Nel primo passo c’è, dunque,
la contrapposizione tra "Ebràioi" ed "Ellenistài",
e da ciò il Droysen ritenne che il termine "Ellenistài"
indicasse gli Ebrei che parlavano il greco in contrapposizione a
quelli che parlavano solo la loro lingua, l’aramaico.
Ma questa è una valutazione
impropria, perchè il Droysen considera il problema solo sotto il
punto di vista dotto, mentre in realtà la contrapposizione tra
"Ellenistài" ed "Ebràioi" non
esisteva.
Infatti Giovanni Crisòstomo
disse che "Ellenistài" indicava la lingua e,
più in generale, coloro che, pur non essendo Greci di origine,
parlavano il greco, come poi affermò anche il Salmosius.
Se l’Ellenismo è un periodo
di mescolanza di popoli linguisticamente, e sotto molti altri
aspetti, diversi, il termine "Ellenistài" indica
allora un linguaggio comune, con finalità pratiche di
comunicazione fra etnie diverse.
Il Niebhur, a tal proposito,
studiò un’epigrafe detta "di Adulis",
località dell’Eritrea (o anche "Monumentum Adulitanum"),
divisa in due parti: nella prima si loda un sovrano egizio,
Tolomeo Evergete (= "Benefattore"); nella seconda
in prima persona il sovrano parla della sua impresa in Arabia.
Sappiamo che questo documento fu
compilato da schiavi fuggitivi egizi, appartenenti al popolo dei
Troglodìti, che lo redassero in un linguaggio egiziano con
annotazioni in greco.
Ecco allora perchè il Niebhur
parlò di un greco etiopico, necessario, come altri simili, per
comunicare con popolazioni locali.
Ciò dimostra l’esistenza di
un greco non classico, che aveva finalità pratiche di
comunicazione: allora gli "Ellenìzontes" sono
coloro che parlavano questo greco degenerato e si oppongono,
quindi, agli "Attikìzontes" che parlavano il
greco puro, classico.
Analogie che ricorrono anche tra
la prima parte dell’epìgrafe "di Axum" in
Abissinia (scoperta dal Salth) e la prima parte dell’epìgrafe
"di Adulis" fanno ritenere, allora, giusta la
definizione di Herder ed Hegel di "Ellenismo"
come lingua della mescolanza, non letteraria e con finalità
pratiche.
o o o
Una fitta rete di scambi
commerciali accrebbe il potere economico delle singole città e
favorì il fenomeno dell'urbanesimo; in quest'epoca avviene la
nascita della borghesia, nuovo ceto emergente creato da bottegai
arricchitisi grazie al commercio. Questi fatti portano gli artisti
ad interessarsi delle classi umili: lo vediamo nelle tragedie
(pullulano servi e nutrici tra i personaggi), in architettura
(dove si afferma lo stile Corinzio, che si applica solo alle
colonne, le quali consentono una maggiore visibilità rispetto ai
pilastri) e in scultura.
Mentre nella Grecia classica,
dove si erano sviluppati governi democratici ed era permessa ogni
libertà di pensiero ed espressione, esisteva il concetto della
libertà di ogni cittadino di potersi acculturare a spese dello
stato, nella cultura ellenistica i dotti rivolgono la loro opera
non agli studenti, ma solo ad altri, pochi dotti. I monarchi
ellenistici, infatti, non avevano nessun interesse a incoraggiare
la diffusione della cultura nei vari strati della popolazione, ed
era assolutamente vietato ai dotti trattare di politica. Per la
prima volta per i Greci la politica veniva scissa dalla cultura.
Per l'età ellenistica si può parlare esclusivamente di centri,
isolati dal resto della nazione e in fitta comunicazione tra di
loro.
Nell'Ellenismo l'oggetto dello
studio si modifica, e l'interesse per la scienza comincia a
differenziarsi da quello per la filosofia; cominceranno ad essere
eseguiti studi scientifici fini a se stessi, slegati da
convinzioni filosofiche. Atene diventa il principale centro della
filosofia e Alessandria quello della scienza. La filosofia trova
il suo campo di interesse nella morale dell'uomo, e nascono le due
correnti filosofiche dello Stoicismo e dell'Epicureismo;
"vivi di nascosto" dicevano gli Epicurei, portatori di
una filosofia prettamente soggettiva e contrapposti agli Stoici,
che propugnavano un cosmopolitismo coagulato dal logos, fiamma
presente in ogni uomo. I rapporti tra Atene ed Alessandria si
guastarono ben presto, essendo Atene molto invidiosa
dell'importanza culturale di Alessandria. Ad Atene si sviluppò
solo una filosofia di taglio moralistico (Epicuro e gli Stoici) e
non più la ricerca all'interno dell'uomo.
Dal punto di vista pratico gli
autori si staccano dal mondo esterno e si dedicano ad una ricerca
interiore da un lato, dall'altro studiano le idee provenienti da
altri paesi, sviluppando un pensiero cosmopolita. Callimaco, padre
dell'Ellenismo, abbraccia non solo tutti i generi letterari, ma
anche entrambe le correnti di pensiero; infatti gli autori non si
specializzano su un genere specifico, ma abbracciano più di un
genere e più di un ideale, sempre restando però esclusi dalla
politica.
Tutti i temi letterari vennero
trattati nell'Ellenismo; anzi, questo periodo vide nascere un
nuovo genere letterario: il romanzo. Il tema amoroso vide la
distinzione tra elegia ed epigramma; l'elegia, che precedentemente
era usata per trattare vari temi (bellica, gnomica, amorosa,
quotidiana, politica), nell'Ellenismo si sofferma prettamente sul
quotidiano, in quanto l'amore viene ad inglobare tutti gli
argomenti e non rimane settorializzato. Gli autori si dedicarono
indifferentemente a cantare l'amore provato nei confronti della
propria donna o quello nel confronti del mito, ma anche questo
secondo caso viene approfondito come il primo perché l'autore
cerca di immedesimarsi nel mito. L'amore cantato è un amore vero,
reale, scavato in tutti i sensi e contrapposto al sentimento del
dolore. L'amore viene codificato in eroV (passione d'amore),
imeroV (amore in senso generale) e paqoV (desiderio d'amore).
Anche per il dolore ci sarà un'attenta analisi di tutte le
possibili sfumature.
I personaggi, in ogni genere
letterario, vengono analizzati tutti nella loro interezza e non
più visti solo in funzione del protagonista (come accadeva nella
cultura classica). Fu in questo periodo che nacque il concetto di
arte per l'arte; l'opera letteraria è concepita in piena libertà
e non è scritta con lo scopo di diffondere un messaggio. Lo stile
è, per l'appunto, molto curato; l'autore riversa tutta la sua
attenzione ad una cura formale volta alla perfezione, facendo
sfoggio non di cultura, ma di erudizione (avviene per questo
motivo un recupero dei miti minori ed una ricerca delle
particolarità di quelli famosi). Molte opere ellenistiche saranno
da leggere in quanto perfette dal punto di vista formale, ma
totalmente prive di contenuti. Tuttavia non tutte queste opere
d'arte sono sterili perché il lettore è libero di scegliere
linee di interpretazione a suo piacimento. In quest'epoca nasce il
libro.
CRITICA
DE ROMILLY - In questo mondo
che non si limita più alla città, e dove le città in generale
esercitano un’importanza sempre minore, la letteratura cessa in
parte di essere politica: la commedia nuova non è più impegnata,
e le allusioni vi si fanno rare; nè Teocrito nè Callimaco
scrivono componimenti politici; i filosofi sono in cerca di una
morale per l’individuo, e considerano il sapiente come senza
patria. Occorrerà la cura dello storico e soprattutto la crescita
di una nuova potenza politica che ben presto si impone fino in
Grecia, per riportare, con Polibio, l’antico interesse per i
problemi generali dello Stato.
TARDITI - Possiamo dire che,
con l’eccezione della commedia nuova, tutta la poesia
ellenistica si rivela come opera di "poetae docti":
nasce nelle biblioteche o comunque attraverso un lungo studio
condotto sugli autori dell’età arcaica. Qualche volta l’erudizione
è scoperta, costituisce la materia stessa del componimento, altra
volta il poeta la dissimula, quasi aspirasse ad evadere dal suo
mondo di libri in un clima di spontanea semplicità, ma anche
allora nella ricchezza di parole rare, nelle allusioni tematiche,
nella struttura del verso, nel livello stesso dello stile la
poesia risulta filtrata da un’inconsueta dottrina.
DEL CORNO - La nuova
dimensione assunta dalla civiltà greca si riflette anche nello
strumento linguistico che è proprio dell’Ellenismo. Le
necessità dell’uso pratico e della stessa diffusione dell’ambiente
greco impongono l’adozione di un linguaggio unificato, che
soppianti l’antico particolarismo dialettale. E’ questa la
cosiddetta "koiné", una lingua "comune" su
base prevalentemente attica con elementi ionici ed infiltrazioni
sporadiche di altri dialetti e di parlate straniere, una lingua
pratica e semplice, da cui sono scomparsi duale ed ottativo e che
viene usata soprattutto nella prosa.
La Commedia
Tra la commedia "antica"
(che vide autori quali CRATINO, noto per le violente invettive
contro Pericle e per la vittoria su Aristofane con la "Bottiglia",
CRATETE, che ne "Le bestie" immaginò animali
parlanti, FERECRATE, elegante e raffinato nella lingua, EUPOLI,
ARISTOFANE, il più conosciuto soprattutto per quel suo trattare
in ogni commedia una tesi) e la "nuova" si
colloca la cosiddetta commedia "di mezzo",
secondo una classificazione dei grammatici alessandrini, che, in
questo modo, intesero suggerire "la graduale
trasformazione dell’antica commedia politica nella nuova
commedia di carattere" (CANFORA).
CRITICA
CHIOSSI - LONGHI - La
commedia nuova ha struttura diversa rispetto all’antica; la
trama è più complessa; gli attori erano forse più di tre;
portavano la maschera, e di maschere ce n’era un gran numero per
caratterizzare i vari tipi di personaggi; così l’abbigliamento,
che era quello della vita comune, presentava alcuni elementi fissi
per individuare la condizione dei personaggi stessi. Quasi tutto
ignoriamo del coro. La paràbasi è scomparsa. La sigla "XOPOY"
nei papiri indica gli intervalli tra le parti della commedia,
corrispondenti per lo più a cinque atti: doveva trattarsi di
intermezzi musicali, slegati dall’azione, non sappiamo se
composti dall’autore o frutto d’improvvisazione. Il prologo ha
funzione espositiva, resa necessaria dai complicati intrecci, e
deriva dalle tragedie di Euripide: informa sugli antefatti, sui
personaggi o anche sulla conclusione della vicenda. La lingua è
attica con elementi della "koiné". I metri più usati
sono il tetràmetro trocàico ed il trìmetro giàmbico. Le
rappresentazioni avevano luogo in Atene, durante le feste Lenee,
nel teatro di Diòniso; la scena fissa, in pietra (da Licurgo in
poi) comportava l’unità di luogo; la vicenda si svolgeva di
solito in una giornata, osservando l’unità di tempo.
MENANDRO
Nasce e muore ad Atene, nè si
allontana mai da questa città. Nipote del commediografo Alessi
è, forse, in rapporti con Epicuro e lo è anche con Demetrio
Falerèo, che Menandro segue anche dopo il 307, cioè dopo la sua
caduta dopo aver governato Atene per un decennio.
Questa amicizia, non vista di
buon occhio dal nuovo "padrone" Demetrio
Poliorcète, forse è causa dei suoi insuccessi ai giuochi.
Ardente è il suo amore per Glicera, a cui Menandro intitola una
commedia.
Scrive 109 o 108 o 105 commedie,
ma abbiamo solo titoli (100 ca.), frammenti di tradizione
indiretta (1.000 ca.), una raccolta di sentenze (877); resti
papiracei (dal 1844 al 1969) ci permettono di leggerne, più o
meno mutile, solo sette:
1 - "Dìscolos"
(Il misantropo) - completa, opera giovanile;
2 - "Epitrèpontes"
(L’arbitrato) - vv. 785, del 304 ca.;
3 - "Sàmia"
(La fanciulla di Samo) - vv. 750;
4 - "Pericheiromène"
(La tosata) - vv. 450;
5 - "Siciònio"
(La fanciulla di Sicione) - vv. 450;
6 - "Aspis" (Lo
scudo) - vv. 550;
7 - "Misùmenos"
(L’odiato) - vv. 500.
Singole parti dei testi possono
far pensare ad influssi epicurei o stoici, ma motivi cronologici (Menandro
conosce Epicuro molto tempo prima che fondi il "képos")
sconsigliano questi indizi; sono, invece, valide per Menandro le
influenze della commedia antica e di mezzo e soprattutto di
Euripide ("L’arbitrato" è quasi privo di
elementi comici; il "Dìscolos", opera giovanile,
ha struttura tragica per la presenza di un monologo e per il metro
adoperato).
Menandro, dunque, è l’erede
di una grande tradizione teatrale ed uomo sensibile sia alle nuove
dottrine filosofiche, sia al mutato gusto del pubblico.
Egli mira a riprodurre i tratti
della società, i piccoli drammi degli uomini comuni, non quelli
grandi della storia; egli cerca di smussare gli angoli troppo
aguzzi, coerente con la commedia nuova che vuole non si urti il
sentimento intimo dello spettatore medio, del benpensante.
Menandro, vero poeta, sente il
fascino delle creature deboli e succubi, scruta attentamente l’animo
umano e, soprattutto, quello degli umili, che riceve una sua
fisionomia in cui finemente si fondono riso e commozione, l’esilarante
ed il patetico.
Riflessi su... -> TERENZIO
CRITICA
DE ROMILLY - Il Caso gioca
una parte importante; e Menandro non manca di segnalarne la grande
potenza, o il suo accecamento, o la sua malizia. [...] Tuttavia l’arte
dell’autore ha un’importanza ancora maggiore; e questo gioco
di malintesi gli offre uno schema comico che diviene presto
convenzionale. Lo sarebbe per lo meno senza la varietà e la
finezza apportate dalla pittura dei caratteri. [...] Un aspetto
resta caratteristico del mondo di Menandro nel suo insieme: si
tratta di un mondo cortese e affettuoso. [...] Una grande
gentilezza regna quasi sempre tra i personaggi di Menandro, come
una delicata discrezione regna nel suo stile. Essa è il riflesso
del suo ideale umano.
DEL CORNO - La difficoltà di
vivere dei suoi contemporanei, turbati e quasi sfiniti dall’immane
travaglio di rinnovamento che attraversa la civiltà greca, si
riflette in molti dei suoi personaggi, svuotati da un’affranta
incapacità ad agire ed isolati in un’accorata
incomunicabilità. [...] Vi è una dolorosa antitesi tra la
volontà di ottenere il bene attraverso la conquista di una
dimensione esclusivamente umana dell’esistenza e la
constatazione delle forze che a tale aspirazione si oppongono; e
questa culmina nella drammatica incapacità di trovare una ragione
in cui questo dualismo giunga ad una conciliazione. Questa
sconsolata visione è peraltro fronteggiata dall’ottimistica
fiducia nella fondamentale bontà della natura umana. Menandro è
convinto che, se ogni evento della vita si adeguasse alle leggi di
questa natura, tutte le cose andrebbero per il meglio.
TARDITI - Il problema che si
sono posti gli studiosi moderni è di vedere fino a che punto la
commedia di Menandro rispecchi veramente la società ateniese del
IV secolo. Sorge infatti il sospetto che quel ripetersi di temi,
[...] quella monotonia degli spunti e delle conclusioni sia l’omaggio
ad una convenzione che si era ormai imposta con un certo schema,
ma che la vita fosse poi diversa. Certo, questa era più varia e
più complessa di come ce la presenta Menandro, ma è anche vero
che la società ateniese attraversava allora una delle sue più
gravi crisi morali
o o o
Fu il principale esponente della
commedia nea, che stravolse completamente i canoni della commedia
arcaia e della commedia mesa; per certi aspetti il suo concetto di
filantropia, principale caratteristica delle sue commedie, è
confrontabile con l'humanitas di Terenzio. Segnò la linea di
demarcazione fra la cultura del 1V° secolo e
l'ellenismo e ripose nell'uomo una fiducia illimitata, rifiutando
nel contempo la religione ufficiale.
La filantropia
(simile
all'humanitas latina) è la principale caratteristica della
commedia di Menandro; il concetto di filia non è nuovo nella
letteratura greca (basti pensare al fortissimo legame di amicizia
esistente tra Patroclo e Achille) e riguardava un forte sentimento
di unione tra due persone che si riproponevano i medesimi
obiettivi. In Menandro la filanqropia diventa un cercare di
capirsi con gli altri uomini, un sentimento di amicizia non
circoscritto a due persone ma allargato a tutti gli uomini; e qui
è evidente il parallelismo con Terenzio ("homo sum:
humanum nihil a me alienum puto"). Mentre però Terenzio
rivolge la sua humanitas ad una ristretta élite di
persone, Menandro concepisce la filantropia rivolta a tutti
gli uomini ("com’è cosa gradita per l'uomo essere uomo,
qualora l'uomo sia veramente tale"). Tutti gli uomini
sono uguali, sia il nobile cittadino sia l'umile servo; quest’aspetto
anticipa l'uguaglianza promossa dal Cristianesimo.
Le commedie menandree ci
presentano un uomo profondamente complesso psicologicamente,
specchio della reale complessità esistente nel rapporto tra uomo
e natura. Tutti gli uomini sono presenti nelle commedie di
Menandro, con una particolare attenzione all'uomo borghese, il
quale non può che comportarsi in modo morale conformemente ai
canoni della cultura ellenistica. Questo dà origine al
perbenismo, tipica chiave di lettura di tutte le commedie di
Menandro. In ogni situazione troviamo un atteggiamento di ironico
rispetto verso gli altri, rispetto che spesso sottintende una
velata condanna ma che è manifestazione del dovere di rientrare
nei canoni ellenistici, che prevedevano un assoluto rispetto del modus
vivendi altrui. Perbenismo quindi sia nel nostro significato
positivo che negativo del termine. L'uomo di Menandro, infatti,
deve rispettare i dettami della sua società conservando sempre le
apparenze. Ciò è innovativo per la cultura greca. Questo
rispetto si traduce in un sorriso benevolo nei confronti
dell'agire umano (anziché nel riso sguaiato di Aristofane, nelle
cui commedie l'unico punto di contatto tra realtà e fantasia era
rappresentato dalla politica), con una serenità che esclude la
tristezza esacerbata e sfumando tutti i sentimenti anche nelle
situazioni in cui la realtà spinge l'uomo alla tristezza. Lo
scavo psicologico dei personaggi (tropos) è profondo ma non
completo, a causa appunto del perbenismo. Menandro ripone
nell'uomo una fiducia pressoché illimitata, rifiutando la
religione ufficiale; egli vede un pericolo per l'uomo nel fatto
che esso dipenda troppo da se stesso e dalla propria razionalità.
Questa visione, pur contraddetta dall'uso di scrivere commedie, lo
porta ad introdurre il concetto di tuch, che limita la
possibilità dell'uomo di cambiare la realtà, ma che non
corrisponde ad una divinità, poiché non guida l'uomo secondo un
andamento logico (nell'Ellenismo era possibile dare ogni possibile
risposta sul divino). Questa limitatezza dell'agire umano si
rispecchia nel fatto che le commedie contengono un susseguirsi di
azioni che s’incastrano tra loro, facendo sì che non tutto
dipenda dall'uomo e consentendo allo stesso tempo lo scavo
psicologico. Le commedie di Menandro finiscono tutte in maniera
positiva, con una certa contentezza per l'uomo. Questo avviene per
due motivi: la necessità di rispettare le regole della commedia e
la fiducia estrema che Menandro ripone nella bontà umana
dell'uomo. A far sì che le sue opere finiscano sempre bene
provvede il perbenismo, chiave di lettura di tutto l'Ellenismo e
tipico della borghesia del tempo.
Epitrépontes
Questa commedia verrà ripresa
da Terenzio con il nome di Ecira. Ne abbiamo due terzi; è andato
perduto quasi tutto il primo atto, che espone l'antefatto.
Carisio, borioso e goliardico figlio di un ricco mercante, ad una
festa si ubriaca e violenta una ragazza, Panfila, che in seguito
sposerà senza riconoscerla. Dopo cinque mesi di matrimonio
Panfila partorisce il bambino nato da quell'episodio, ma non
rendendosi conto che era figlio di suo marito lo espone in un
bosco mettendogli al dito un anello che aveva strappato a Carisio
alla festa. Carisio, venuto a conoscenza del fatto, abbandona la
moglie credendola adultera e cercando invano di dimenticarla
insieme alla flautista Abrotono. Due pastori si litigano l'anello
e si rivolgono ad un arbitro per appianare la questione (da qui il
titolo della commedia, che significa "coloro che si rivolgono
ad un arbitro"). Abrotono nel frattempo s’impossessa
dell'anello con 1’intenzione di ottenere la libertà facendosi
credere la madre del bambino; poi però incontra Panfila e
riconosce in lei la ragazza violentata alla festa cui anche lei
era presente. Capisce allora che il bambino è figlio dei due
sposi e decide di abbandonare i suoi interessi e svela a Panfila
la verità. Intanto il padre di Panfila, Smàrine, tenta di
convincere la figlia ad abbandonare il marito; Panfila, da sposa
fedele, si rifiuta e Carisio, che aveva ascoltato, non visto, il
colloquio, perdona la moglie e decide di ritornare con lei.
Carisio, che si era dunque comportato crudelmente verso sua
moglie, ma non aveva mai smesso di volerle bene, si riscatta
attraverso il pentimento e perdonando la moglie. Panfila ha
sbagliato ad esporre suo figlio, ma comprende il marito che
l'offende con la flautista e non lo abbandona. Abrotono smentisce
la fama di etera avida e corrotta ed anzi, avendo pietà di una
madre, contro i suoi stessi interessi salva un matrimonio. Infine,
nella figura dei due sposi, Menandro c’insegna che solo
comprendendo e perdonando si può rendere meno difficile il peso
della vita e del rapporto coniugale, e si può raggiungere quella
dignità che ci rende veramente uomini.
La poesia elegiaca: CALLIMACO
In due epigrammi (415 e 525) si
vanta di discendere da Batto, fondatore di Cirene, città in cui
nasce da nobile famiglia. Si trasferisce ad Alessandria dove fa il
maestro ad Elèusi. E’ accolto da Tolemeo II come paggio con
incarico nella Biblioteca.
Scrive 800 volumi su papiro. Ci
restano incompleti "Aitia", "Giambi",
"Ecale"; completi gli "Inni" e
62 epigrammi.
Abbiamo anche i "Pìnakes"
(Catalogo delle opere della Biblioteca).
"Aitia" - sono
in ll. 4 ed hanno un doppio proemio: uno di tipo esiodeo in cui
sogna di parlare alle Muse; uno, detto "prologo dei
Telchìni", in cui chiarisce i suoi principi estetici,
per una riedizione. Episodio più celebre: "L’amore di
Aconzio e Cidìppe"; l’episodio finale è "La
chioma di Berenìce". Si fonda su leggende per spiegare l’origine
delle città: da qui il titolo che trova la sua derivazione da
"àition", cioè "causa".
"Giambi" - 13
di numero, in cui si combinano più generi. Di sostanza combattiva
perchè si difende dall’accusa di aver usato vari dialetti (come
nel XIII).
"Ecale" - è un
"èpos" breve che riporta alcuni episodi della
vita di Tèseo. Ci restano numerosi frammenti.
"Inni" - 6 di
numero; i primi quattro scritti nella lingua dell’epica, mentre
nel 5° e nel 6° si notano dorismi. Nell’"Inno ad
Apollo" (2°) sono ribaditi i suoi principi estetici.
"Epigrammi" -
62 di numero tramandati dall’Antologia Palatina; l’80 è per
la morte di Eraclito ed è molto sentito; programmatico il 43.
Caratteristiche: si notano in
lui il gusto dell’antico, per il poco noto, per il sovrumano,
per il mitico immesso nel quotidiano. La sua poesia è senza
lacrime, controllata. Il poeta ha come avversario anche il
discepolo Apollonio Rodio ("Argonautiche", in ll.
4 e ca. vv. 6.000).
CRITICA
MARIANO/PACATI - Lo Snell
colloca Callimaco ad una svolta storica dell’umanità: al
tramonto cioè di una più che secolare cultura illuministica che
ha dissolto le antiche concezioni religiose, quando è venuto a
noia anche il razionalismo e incomincia a sorgere una nuova poesia
significativa. La poesia di Callimaco è rivolta in primo luogo
alla forma. Egli era un dotto; la sua grande e raffinata
cultura è penetrata dappertutto anche nella sua poesia, ma egli
non se n’è servito a scopi didattici, ma soltanto per porre in
rilievo molte cose, varie ed interessanti. Non per niente
Callimaco chiama la sua maniera di poetare "pàizein",
"gioco da fanciulli", e le sue poesie "paignìon",
"gioco". Senza Callimaco non fiorirebbe a Roma il
"lusus" della poesia neoterica, nè potremmo leggere le
"nugae" di Catullo.
CHIOSSI/LONGHI - E’ il
teorico della poesia ellenistica. Sotto questo aspetto la sua
opera ebbe importanza enorme e la sua poesia fu come il
"manifesto" di una nuova concezione della poesia stessa,
conseguenza delle condizioni politiche, sociali, e, quindi,
culturali radicalmente mutate nell’età ellenistica.
BALLOTTO - La statura di
Callimaco è legata alla sua moralità letteraria, la quale
consiste soprattutto nell’impegno di coerenza alle voci intime,
nella fedeltà dell’artista che, pur dotato di straordinaria
perizia tecnica ed erudizione, finisce con l’identificarsi nell’uomo
e l’uomo nel poeta.
Riflessi su... -> CATULLO -
movimento neoterico
-> VIRGILIO - nell’ecloga 6^ rifiuta il poema epico, come
Callimaco nel proemio degli "Aitia"
-> PROPERZIO - traspone l’elegia etiologica nel l. 4°
-> OVIDIO - usa la stessa tecnica callimachea nelle "Metamòrfosi",
la stessa struttura nei "Fasti"
o o o
Il maggiore dei poeti
alessandrini, è considerato sia il principale teorico sia il
migliore esponente della poesia ellenistica. Nato intorno al 300
a. C. a Cirene, in gioventù visse in ristrettezze economiche e si
guadagnava da vivere insegnando in una scuola di provincia; poi,
non sappiamo come, entrò a far pane della corte, ottenendo il
favore dei sovrani. Lavorò alla Biblioteca come poeta ed erudito,
ma sappiamo con certezza che non ne divenne mai il direttore;
tutte le sue opere sono dedicate ai sovrani che lo proteggevano,
Tolomeo Filadeflo e poi Tolomeo Evergete. Le sue opere gli
procurarono fama e gloria, ma scatenarono aspri dibattiti con
invidiosi contemporanei. Morì intorno al 240.
La produzione di Callimaco come
erudito e come poeta fu immensa: la tradizione gli attribuiva ben
800 volumi, oggi quasi tutti perduti. Fatto nuovo nella
letteratura greca, Callimaco s’interessò a diversi generi
letterari. Delle sue opere di prosa la più importante furono i
Pinakes, catalogo ragionato di tutti gli autori e di tutte le
opere raccolte nell'immensa Biblioteca di Alessandria. Oltre a
classificare le opere per genere e gli autori per ordine
alfabetico, Callimaco affrontava anche numerose questioni
biografiche e di autenticità. I Pinakes possono essere
considerati la prima opera di storiografia letteraria.
Aitia
Gli Aitia erano l'opera più
vasta di Callimaco: contenevano circa 4000 versi divisi in quattro
libri. Non si trattava di un'opera ordinata, bensì di una
raccolta di numerose elegie, in genere indipendenti tra loro. Ogni
aition era dedicato alla ricerca delle origini di una festa, di
una città, di un mito, di un'istituzione. Oggi ci rimangono il
proemio ed alcuni frammenti, tra cui la Chioma di Berenice. Nonostante
l'apparente contenuto scientifico, gli Aitia sono in realtà
un'opera di intrattenimento, uno sfoggio di erudizione in cui
risalta soprattutto la raffinatezza dell'arte di Callimaco.
Il proemio è un'invettiva di
Callimaco contro i Telchini, soprannome dato ai poeti invidiosi
del suo successo. Il poeta imputa ai Telchini di non rifarsi ai
canoni ellenistici del tempo, ma a quelli classici. C’è
pervenuto un elenco di questi Telchini, in cui stranamente non
figura il nome di Apollonio Rodio, ma vi troviamo Posidippo, che
ebbe con Callimaco un'aspra disputa riguardante non lo stile, come
quella con Apollonio Rodio, ma l'interpretazione di un'opera che a
noi non è pervenuta, probabilmente la Lide di Antimaco di
Colofone, risalente al 400 a.C. e antesignana dell'ellenismo
La Chioma di Berenice è
l'aition che chiude il quarto e ultimo libro dell'opera. La chioma
stessa narra in prima persona la sua storia: fu offerta in voto
dalla regina Berenice in occasione della partenza del marito,
Tolomeo Evergete, per una spedizione militare in Siria. Ma
scomparve dal tempio e l'astronomo di corte la scoprì in cielo,
trasformata nella costellazione che da lei prese il nome. Quest’elegia
piacque immensamente a Catullo, che la tradusse in latino nel carmen
66; ed è nella sua traduzione che oggi è a noi nota. In
quest’elegia l'esaltazione del faraone si unisce a quella della
nascente scienza: non si tratta solo di riscontrare una cosa umana
nella sfera celeste, ma piuttosto di assecondare il crescente
interesse verso la ricerca scientifica.
Inni
Gli Inni di Callimaco sono sei,
ciascuno indirizzato ad una divinità. Probabilmente furono
composti in momenti differenti e riuniti insieme solo in un
secondo tempo. Sono tutti in esametri, tranne Per il bagno di
Pallade che è in distici elegiaci. Il contenuto degli Inni è
di tipo arcaico e ripreso dagli inni agli dei dello pseudo-Omero,
ma affrontandolo con sensibilità totalmente nuova. Gli dei sono
messi sullo stesso piano degli uomini e compiono le loro stesse
azioni. La somiglianza arriva ad un punto tale che sono descritte
la nascita e la fanciullezza del dio, cosa che prima non si era
mai trovata se non in Eros, il cupido sempre bambino che
scagliando le frecce fa innamorare le persone. Callimaco scrive
non semplicemente per esporre il mito ma per fare sfoggio d’erudizione;
la sua opera è scritta innanzi tutto per il piacere di scrivere,
e solo in secondo piano c'è l'intenzione di erudire il lettore
(siamo in un'epoca in cui si diffonde il libro, e con lui si
allarga la diffusione della cultura).
Nell'inno A Zeus troviamo
un’Atena bambina che tira la barba di Zeus per farsi ascoltare:
una scena tipicamente umana che potrebbe avvenire tra qualsiasi
figlia e padre. Gli dei sono dunque descritti come esseri che
provano un coinvolgimento emotivo simile a quello umano.
In Per il bagno di Pallade è
ripreso il mito della dea che si bagna nelle acque del fiume e
viene vista per caso da Tiresia, il quale per punizione viene
accecato, ma riceve la capacità di predire il futuro. La madre di
Tiresia, una ninfa, supplica la dea di perdonare il figlio, ma
senza risultato; c’è dunque un distacco tra mondo divino e
mondo umano. Il contenuto è tipicamente aulico, ma non c'è la
passionalità tipica di una situazione del genere; troviamo
delicatezza, tedio, non appassionata richiesta. C’è la tendenza
a sfumare tutti i toni e a renderli il più delicati possibile.
L'inno A Demetra descrive
una processione in onore della dea, durante la quale viene portato
un cesto di offerte sulle cui pareti è raffigurato il mito di
Erisittone. Erisittone aveva tagliato delle querce sacre alla dea
ed era stato punito con una fame insaziabile che lo aveva portato
alla morte. Qui c'è il procedimento dell'enqrasis, in altre
parole l'inserimento di un mito nel mito.
Epigrammata
Gli epigrammi di Callimaco si
caratterizzano per la loro brevità e per il fatto che al centro
di ogni componimento è posto il sentimento. A noi ne sono
pervenuti 63, la maggior parte di argomento funerario, ma alcuni
anche riguardanti l'autore stesso.
A Conopio è
un epigramma che si riallaccia ad un altro del secondo secolo
a.C., il lamento della donna abbandonata, di cui ignoriamo
l'autore. Il fare collegamenti con altri epigrammi è una
caratteristica degli epigrammi di tutti i tempi. Compare il motivo
del paraklausiquron, il lamento davanti alla porta chiusa
dell'amato. L’unico desiderio dell’amata è quello di godere
ancora del tempo che passa, unito al rimpianto della giovinezza
ormai trascorsa. Questo tema sarà ripreso da Tibullo. Negli
ultimi due versi ("ma ai primi fili bianchi tu ricorderai
tutte queste cose") è introdotta un’innovazione per il
mondo greco, ma non per quello latino, in cui la senectus era
sinonimo di sapientia; per i greci il tempo che passa non
portava necessariamente alla sofia, accessibile a tutti gli uomini
meritevoli (ad esempio, per Ulisse ci si riferiva alla sofrosunh)
Nell'epigramma funerario Per
la morte del poeta amico Callimaco esprime il suo concetto di
amicizia lamentando la morte dell'amico con partecipazione
affettiva. Gli "Usignoli" di cui si parla erano
delle aure epicedi, ossia degli epigrammi funebri scritti per le
bestiole, ma che esprimevano forti sentimenti umani.
Per la morte
del piccolo Nicotele è un epigramma funerario dedicato ad
un bambino morto dodicenne. E' tipico dell'ellenismo dedicare
degli epigrammi alla morte dei bambini.
Giambi
Erano tredici componimenti
caratterizzati da una grandissima varietà di metro e di
contenuto. I meglio conservati sono il primo e il quarto;
quest'ultimo, bellissimo, narra un fortissimo contrasto tra
l'alloro e l'ulivo.
L'alloro e l'ulivo
si
sfidano su chi sia la pianta migliore, vantando ciascuno le
proprie qualità e l'uso che fanno gli uomini dei loro rami (le
piante non solo sono assunte a soggetto dell’opera, ma sono
addirittura personalizzate). Tra i rami c’è una coppia di
usignoli molto ciarliera (rappresentante della voce del popolo)
che fa da arbitro alla sfida. Chi li creò? Atena l'ulivo e Apollo
l'alloro; in questo sono pari perché gli dei sono tutti sullo
stesso piano. Chi li ha trovati? Pallade trovò l'ulivo, mentre
l'alloro, come tante altre piante, fu trovato dalla terra e dalla
pioggia; qui l'alloro perde un punto. A cosa servono? L'alloro a
dare gloria poetica, mentre l'ulivo costituisce il cibo dell'uomo
(c’è qui un’attenzione all'aspetto pratico delle cose,
anticipatore dell'utile latino); in definitiva vince l'ulivo.
Interviene nella disputa un vecchio rovo a fare del moralismo, ma
è subito messo a tacere. E' ovvio che alla base di questo giambo
ci deve essere stata una disputa letteraria, ma ne ignoriamo i
dettagli.
APOLLONIO RODIO
In genere i poeti alessandrini
attingevano alla tradizione epica per ricavarne non un ampio poema
volto all'esaltazione di gesta eroiche, ma un componimento breve e
raffinato; a questi fa eccezione Apollonio Rodio. Apollonio Rodio
nacque ad Alessandria d'Egitto intorno al 290 a.C. e soggiornò a
lungo a Rodi (da qui l'appellativo di Rodio). L'unica altra
notizia certa della sua vita è che divenne direttore della
Biblioteca.
Apollonio Rodio viene
generalmente visto in contrapposizione con il suo ex maestro,
Callimaco; in realtà questa rivalità è per alcuni aspetti solo
apparente. Apollonio aveva in effetti uno stile molto diverso da
quello dì Callimaco, e riteneva di poter scrivere un’opera di
carattere epico in età ellenistica. Scrisse effettivamente un’opera
gigantesca, le Argonautiche, unico poema ellenistico a noi
pervenuto. Non gli riuscì di raggiungere l'acme della poesia in
ogni punto dell’opera (era questo il suo intento), ma il III
libro è rispondente ai canoni ellenistici e anzi supera per
bellezza le opere di molti poeti a lui contemporanei.
Paradossalmente Apollonio Rodio, che non voleva assolutamente
essere vox dell’ellenismo, ne diventa una sorta di
emblema.
Le Argonautiche
Sono un poema in esametri lungo
circa seimila versi divisi in quattro libri. Narra le vicende
della spedizione degli Argonauti, dalla partenza da Iolco fino al
ritorno in Grecia. Il I, il II (che descrivono il viaggio di
andata nella terra della Colchide) e il IV (dedicato al ritorno in
patria) sono molto pesanti, ma il terzo, che racconta l'amore tra
Giasone e Medea, è considerato uno dei capolavori dell'ellenismo.
Eccettuato il terzo libro, si può affermare che Apollonio non si
inserisce a viva forza nel mito, mutandolo o spezzandolo, ma lo
mantiene sostanzialmente inalterato; ad esempio, il poema inizia
con la descrizione dei partecipanti alla spedizione, che ricalca
l'elenco delle navi che presero parte alla guerra di Troia
contenuto del II libro dell'Iliade. Giasone viene messo in
evidenza (è l'ultimo ad essere nominato), ma di lui sono
descritti i tratti più umani; non è presentato come anhr, ma
nemmeno come uomo emblema dell'ellenismo; ha dei sentimenti, ma
non c’è uno scavo psicologico profondo. Egli vuole raggiungere
il proprio fine (conquistare il vello d'oro), ma non scavalca il
suo mondo sentimentale (come invece fece Enea). Giasone resta
freddo (mentre il Giasone di Euripide ha un suo mondo sentimentale
in cui crede), a metà strada tra uomo e eroe.
Il III libro è incentrato su
Medea e sul suo amore per Giasone. Eeta, re dei Colchi e padre di
Medea, impone a Giasone durissime prove da affrontare prima di
entrare in possesso del vello d'oro con la speranza che il greco
muoia nel corso delle prove. Ma Medea, colpita da una freccia di
Eros, s’innamora a prima vista di Giasone; la ragazza trascorre
una notte agitata da angoscianti sogni, nei quali la vergine
fedele al padre si scontra con la donna colpita dalla passione per
l'amato. Nella mente di Medea balena anche l'idea del suicidio, ma
il bel ricordo della vita trascorsa la fa tornare sui suoi passi
e, momento dopo momento, matura l'idea di salvare Giasone,
procurandogli delle pozioni indispensabili per superare la prova.
Il mattino seguente Medea, con il cuore che le sobbalza in petto
(cuore reso con kardia, a rilevare la fisicità del sentimento di
Medea), incontra Giasone che si avvia per affrontare la prova e,
offrendogli le pozioni, gli confessa il suo amore. E Giasone la
rassicura dai suoi timori assicurando che la porterà con sé in
Grecia, dove, onorata da tutti per l'aiuto reso agli Argonauti,
vivrà per sempre accanto a lui: questo è il suo pegno d'amore.
Poi Giasone, grazie all'aiuto di Medea, supera la prova.
Nel corso del terzo libro
emergono dei concetti particolari. Innanzitutto quello della
maledizione, che colpisce non solo il diretto interessato ma anche
la sua famiglia e i suoi figli. Assume un valore particolare anche
la memoria del passato; il ricordo assume una connotazione
personale ed è privo di qualsiasi valore educativo (il contrario
avviene nel mondo latino, dove il ricordo è sempre oggettivo e si
riferisce alle gesta di tutto il popolo, sia belliche che
sociali). Si riscontrano anche delle caratteristiche peculiari
dell'ellenismo, come lo scendere nel particolare (ad esempio
quando Apollonio, anziché parlare di generici alberi, specifica
di quali alberi si tratta, querce e pioppi) o l'azione ripetuta
molte volte per aumentare il paqoV e la tragicità dell'azione. E'
invece tipico di Apollonio il gusto per l'avventura e per
l'esotico, e si sofferma a descrivere posti nuovi, distanti e
lontani (sullo sfondo c'è lo sviluppo commerciale raggiunto
dall'ellenismo). Questa voglia di conoscere è però diversa dalla
voglia di fare esperienza (swfrosunh) di Ulisse. Il gusto per
l'elemento naturalistico non si limita al livello descrittivo, ma
si presenta anche come interesse sentimentale nei confronti della
natura. Non è questa una novità per il mondo greco: la
partecipazione sentimentale verso la natura la riscontriamo in
Omero e Saffo (1a quale, addirittura, diventava natura); anche se
in Apollonio non c'è un annullarsi dell'elemento umano
nell'elemento naturalistico, ci si arriva vicino sul piano del
sentimento.
o o o
Dal 260 al 247 non solo
diventa il secondo direttore della biblioteca di Alessandria,
succedendo a Zenòdoto, ma anche precettore di Tolemèo II.
Si reca a Rodi dopo una lite con
Callimaco, evidenziata dall’"Ibis", e l’insuccesso
delle "Argonautiche".
Pubblica una seconda edizione
delle "Argonautiche", ma è un’ipotesi poco
credibile.
Ha un’intensa attività
filologico-letteraria (con poemi su fondazioni di città,
epigrammi e saggi), ma è famoso soprattutto per le "Argonautiche".
"Argonautica" -
Con i suoi quattro libri formati da 5.833 esametri
complessivamente è il quarto poema epico pervenutoci per intero
dopo "Iliade", "Odissea" ed
"Eneide". Riporta la leggenda degli Argonauti ed
il tentativo di Giasone di riportare in Grecia dalla Còlchide il
vello d’oro posseduto da Eeta, padre di Medèa e dio del sole,
tentativo che riesce con la magia di Medea. Precedenti notevoli si
possono rintracciare sia nei tre tragici che in Pindaro. Di
notevole importanza l’invocazione ad Apollo nel l. I e quella di
Eràto, musa della poesia amorosa, nel l. III.
Caratteristiche: motivo
dominante è l’amore, non freddo, ma profondo, mutevole,
possessivo, quale quello di Medea. Giasone, problematico ed
incerto, è un po’ il simbolo di un’epoca. Nel poema si notano
interessi per luoghi lontani, ma anche per l’orrido, il macabro,
il prodigioso; gli dei, invece, hanno un qualcosa di benestante e
di salottiero, con gli stessi modi degli umani mortali. Apollonio
in esso etichetta tutto, cioè ne cerca le cause e ne dà la
motivazione, mentre per la lingua attinge ad Omero, Esiodo ed ai
prosatori ionici e contemporanei.
CRITICA
GARZYA - Il poema ricalca
materia, tecnica narrativa e strutture dell’epos omerico ed il
mito, sempre alla base dell’opera, non ha altro contenuto se non
quello favolistico e leggendario. Ha singoli momenti felici
("Il sogno di Medea"), ma manca di forza unitaria e
sembra così confermare la teoria callimachea dell’impossibilità
di un carme continuo.
SBORDONE - L’opera manca di
omogeneità: vi sono imitazioni omeriche e pedanterie erudite ed
in ciò Apollonio è profondamente alessandrino. Riesce
soprattutto nelle scene brevi, nelle descrizioni di scorcio, negli
episodi.
CANTARELLA - Il poema è il
documento di un continuo compromesso fra la tradizione omerica ed
il desiderio di originalità. Esso in effetti è tutto episodico,
frammentario e per di più senza poesia, la sola che avrebbe
potuto galvanizzare un personaggio scialbo come Giasone che supera
tutte le prove con l’aiuto di Medea, non un eroe e nemmeno un
uomo, mentitore, profittatore, spergiuro, senza nemmeno il merito
del seduttore perchè Eros fa tutto per lui. Unica, autentica
gemma del poema la morte di Ila rapita dalla ninfa della fonte del
l. I.
Riflessi su... -> VIRGILIO -
l’opera di Apollonio è il presupposto dell’"Eneide",
mentre Giasone e Medea le brutte copie di Enea e Didone
-> VALERIO FLACCO - il cui unico merito è quello di aver
scritto un’"Argonautica" in ll. 8, incompiuta.
TEOCRITO
Fu il poeta che meglio
interpretò le esigenze dei tempi e che seppe unire alla
perfezione formale la sincerità del sentimento, riuscendo quasi
sempre ad evitare quelli che erano i pericoli più gravi
dell'ellenismo: l'erudizione e l'artificiosità. Uno dei suoi
principali meriti è quello di essere stato il padre della poesia
bucolica, raccogliendo il modello mitico di Dafni, il
pastore-poeta cantato da Stesicoro, ed elevandolo a nobile e
seguito genere letterario.
Incerte sono le vicende della
sua vita; sappiamo però con certezza che egli fu particolarmente
legato a tre località: Siracusa, Cos e Alessandria. A Siracusa il
poeta nacque poco prima del 300 a.C. e da questa terra ebbe
l'ispirazione per i suoi componimenti che cantano i pastori, la
vita dei campi, il paesaggio mediterraneo. A Cos il poeta visse a
lungo e conobbe Filita e Asclepiade, come è testimoniato dalle Talisie.
L'Encomio di Tolomeo ci mostra Teocrito legato alla corte di
Alessandria, dove certamente conobbe Callimaco, di cui fece suoi
gli ideali artistici. Ignoriamo il luogo e la data della sua
morte.
Di lui ci sono pervenuti 30
idilli (di cui una ventina di sicura attribuzione), 24 epigrammi e
la Zampogna. Gli idilli (quasi tutti in esametro e lingua
dorica) sono brevi componimenti di contenuto vario; appunto in
base al contenuto vengono divisi in:
· 8 Carmi bucoIici (da
boucolos =.pastore), composizioni in cui si canta la vita dei
campi ed i sentimenti dei pastori. Particolare bellezza hanno
quattro di loro: il Tirsi, le Talisie, I
Mietitori, il Ciclope.
· 3 Mimi (L'Incantatrice,
l'Amore di Cinisca, le Siracusane),che trattano
la vita quotidiana.
· 4 Epilli (L’Ila,
l'Epitalamio di Elena, i Dioscuri, l'Eracle
bambino); si tratta di brevi poemetti epico mitologici che
spesso introducono nel mito quella nota borghese caratteristica
del tempo.
· 2 Encomi (a lerone,
l'Encomio di Tolomeo), che abbondano di omaggio
cortigiano.
· 3 Carmi lirici (metro
lirico e dialetto eolico), due dei quali cantano l'amore
adolescenziale, di scarso rilievo.
I 24 epigrammi, molti dei quali
di discussa autenticità, hanno le stesse caratteristiche della
migliore epigrammatica alessandrina.
La Zampogna è un
tecnwpaegnion, ossia un carme figurato in cui Teocrito fa sfoggio
della propria abilità; i versi, che a ogni riga diventano più
brevi, imitano visivamente la figura della zampogna di Pan.
Tirsi
Il pastore Tirsi, invitato da un
capraio, canta la morte dolorosa e misteriosa del mitico pastore
siciliano Dafni (soggetto trattato anche da Stesicoro). Il verso
che ritorna sempre uguale ("date inizio, o Muse, date
inizio di nuovo alla canzone bucolica") non è una
semplice ripetizione, ma ha una funzione melodica (bisogna qui
ricordare la concezione teocritea di un arte raffinata).
E' interessante notare che la
campagna di Teocrito (non solo in questo, ma in tutti i carmi) è
completamente diversa da quella di Virgilio: è una campagna
solare, c'è un caldo soffocante, il sole infuoca la natura. I
pastori sono stesi sull'erba, come lo erano quelli di Virgilio, ma
mentre Tirsi è steso all'ombra di un albero per riparasi del sole
e sogna un po' d'acqua, Titiro e Melibeo sognano una vita diversa.
Il sentimento che unisce il poeta alla natura è sempre presente
in Virgilio, che si identifica nei pastori. In Teocrito questo non
avviene: i suoi pastori si rapportano con la natura solo quando è
necessario. Alle volte la natura è sentita solo come sfondo e
paesaggio; Teocrito la descrive con assoluto verismo, ma non sente
il bisogno di rifugiarsi in essa. Nella poesia bucolica di
Teocrito avviene una cosa molto strana: i "pastori da
salotto", non veramente inseriti nell'ambiente in cui vivono.
Perfetti dal punto di vista della descrizione fisica, questi
semplici uomini dei campi parlano un linguaggio forbito e
ricercato. Virgilio, al contrario, riuscirà a creare dei pastori
credibili anche dal punto di vista del linguaggio, testimonianza
di una sentita partecipazione verso l'argomento di cui si parla.
In Teocrito il pastore usa un linguaggio molto curato proprio
perché il pastore non sente alcun legame nei confronti
dell'argomento di cui si parla.
Talisie
A Cos le Talisie erano una festa
della raccolta in onore di Demetra. Il poeta (che si identifica
con Simichida) vi si reca con alcuni amici e lungo il cammino
incontra il capraio Licida, con cui si intrattiene a parlare di
arte e di poesia. Teocrito in questo carme, l'unico in cui ci
siano riferimenti alla storia contemporanea, esalta Filita ed
Asclepiade e afferma la sua preferenza per il carme breve, alla
maniera di Callimaco. In questo carme si vede chiaramente il gusto
di Teocrito per i particolari e per gli aggettivi scelti con cura,
basti pensare con quale precisione è descritto il momento del
mezzogiorno: "dove vai a mezzogiorno, quando anche la
lucertola dorme sui muretti e neppure le lodole capellute, amiche
delle tombe, vanno aliando?'. La descrizione della natura è
accuratissima, come si può notare da espressioni come le arse
cicale, dove in due parole Teocrito ha rievocato con estrema
precisione un aspetto particolare e ricorrente della campagna
mediterranea.
Mietitori
Il carme si articola sul dialogo
tra due pastori, il debole Buceo, stremato dalle pene d'amore, e
Milone, lavoratore instancabile. Particolarmente riuscita è la
descrizione che Buceo fa della donna per cui ha preso la testa, in
cui Teocrito riprende alcune immagini sensuali tipici
dell'ellenismo, come i piedi ("i tuoi piedi son gioielli
d'avorio").
Ciclope
Il protagonista di questo carme
è il turpe ciclope Polifemo, che non riesce a dimenticare il suo
amore infelice per la bella Galatea, ninfa marina che gli è del
tutto indifferente. Il carme è particolarmente riuscito perché
il ciclope non è il vendicativo ciclope omerico, ma è un uomo-
ciclope, bruttissimo esteticamente, ma dotato di profondi
sentimenti umani. Molto belle sono alcune immagini, come il latte
e il cacio, umile frutto del proprio lavoro che il ciclope offre
alla bianca Galatea, aggettivo che sia descrive il candore
con cui il ciclope vede la ninfa sia evoca l'intima sensazione
tattile legata a quell'aggettivo. E quando il ciclope raffronta il
suo mondo con quello di Galatea sembra quasi di vedere l'acqua
dell'oceano, tanto è descritta minuziosamente. Teocrito non
stravolge la natura a livello fisico, ma solo a livello di
sensazione infondendo il proprio affiato poetico.
Amore di Cinisca
Eschine racconta all'amico
Tionico le sue pene d'amore: il suo posto nel cuore di Cinisca è
stato preso da un altro ed egli ora, solo e disperato, medita di
abbandonare la sua terra per dimenticare. L'amico gli consiglia di
andare alla corte del re Tolomeo, di cui fa un elogio smaccato.
Teocrito scende nel particolare fino a raggiungere livelli
estremi, come quando descrive il volto di Eschine smunto dalla
passione. Tionico incoraggia l'amico a non perdere tempo: si deve
agire quando si è giovani.
Siracusane
Le Siracusane sono il capolavoro
di Teocrito per quanto riguarda il campo della poesia realistica.
Gorgo si reca a casa di Prassinoa e la convince ad andare a
palazzo ad assistere alla festa di Adone; le due donne si fanno
largo tra la folle e riescono ad entrare e a sentire la canzone in
onore di Adone. Il mimo si allarga fino ad affrescare la
variopinta folla dell'Alessandria del III a. C., ma le due figure
borghesi sono talmente realistiche che appartengono ad ogni tempo
e ad ogni luogo.
Incantatrice
Protagonista di questo mimo è
Simeta, una povera donna abbandonata dall'uomo che ama. Nella
prima parte la donna tenta con ogni mezzo di far tornare da lei
l'amato, ricorrendo anche alle sue arti magiche; nella seconda
rievoca la sua triste storia d'amore e confida a Selene, dea della
notte, le sue pene. In questo mimo Teocrito abbandona il suo
abituale tono disincantato, ricorrente nella maggior parte dei
carmi bucolici, e canta con commossa e profonda partecipazione la
passione ardente di Simeta. Teocrito si rifà anche a Saffo per
indicare la fisicità del tormento amoroso ("giallo come
il tapso diventava il colore della mia pelle"). Il poeta
riprende anche la confusione dell'animo di Simeta, descrivendo
prima Eros come dolcissimo, e poche righe dopo come perverso e
portatore di male. Per la prima volta troviamo in un'opera di
poesia i giochi dei bambini, testimonianza di quale livello di
quotidianità Teocrito arrivi a descrivere. Teocrito in questo
mimo ci presenta il destino dell'uomo come sofferenza e
rassegnazione, mentre la natura segue impassibile il suo corso.
Questo resta un caso unico anche nella poesia teocritea, perché
Teocrito, come Callimaco, è spirito alieno dalle grandi passioni,
non ama affrontare i grandi problemi della vita e non ha grandi
ideali da proporre. Lui cerca soltanto l'evasione in un mondo
semplice e primitivo, dove è bello sognare e dimenticare; una
sola cosa ha veramente voluto offrire agli uomini, la dolcezza e
il conforto della sua poesia.
o o o
Si dice nativo di Siracusa
(idillio 28), ma deve aver soggiornato a lungo a Cos ed
Alessandria (idilli 7 e 15), sia perchè ne conosce bene la
topografia, sia perchè nelle sue opere si notano affinità con
Apollonio, Callimaco e l’ambiente letterario di Alessandria.
Il "corpus"
teocriteo è formato da...
"Zampogna" -
carme figurato in cui i versi rappresentano l’oggetto cantato;
"Epigrammi" -
27, passati nell’Antologia Palatina, ma non tutti autentici;
"Idilli" - 30
(in precedenza l’idillio corrispondeva al carme breve, solo poi
gli si darà una sfumatura lirico-campestre; si suddividono in
bucolici (10, come le ecloghe di Virgilio, riprendono
precedenti popolari), mimi (sono 3 e riprendono un genere già
affermatosi in precedenza), epilli (5 di numero), carmi in
dialetto ionico od edolico, carmi occasionali (solo uno: "Conocchia"),
encomiastici (2: "Per Ierone" e "Per
Tolomeo").
Caratteristiche: i motivi
dominanti della poesia teocritea sono il paesaggio (in quello
urbano è l’uomo al centro degli interessi; in quello rurale la
natura ha il sopravvento) e l’amore inteso nei suoi aspetti più
diversi. Teocrito è stato considerato padre dell’Arcadia,
Arcadia intesa sia come possibilità di parlare del reale
servendosi di nomi falsi, sia come luogo fittizio in cui
riflettere l’amore e la sua problematica. Il suo idillio più
bello, soprattutto per il vivo realismo, è "Le Siracusane".
La lingua è un insieme di linguaggio parlato e di reminiscenze
letterarie: il tutto sommamente curato. Il verso preferito da
Teocrito è l’esametro dattilico.
CRITICA
GARZYA - La varietà dei temi
trattati mostra che Teocrito è un compiuto letterario
alessandrino, anche se due sorgenti di poesia, quali sono l’amore
e la natura, una notevole capacità drammatica ed una
grande abilità descrittiva lo fanno vero e grande poeta. La
natura più congeniale alla vena teocritea è certo quella
siciliana e mediterranea in genere; i suoi pastori, però,
piuttosto che pensare alla fatica quotidiana, si dedicano all’amore
ed alla poesia, si travestono da personaggi più grandi di loro, e
questo potrebbe risolversi nel grottesco, se Teocrito non facesse
ricorso ad una lieve patina di ironia.
CANTARELLA - Teocrito muove
da premesse teoriche simili in parte alle callimachee, anche se
espresse con minore impegno. Il paesaggio è un luogo ideale e
segreto dove l’anima si rifugia e si abbandona al sogno,
immergendosi nella natura felice e benigna. Teocrito è il poeta
alessandrino che più ha cantato d’amore con varietà e
felicità di toni, anche se quello dei personaggi teocritei è l’amore
non corrisposto, infelice.
SBORDONE - Mentre il modo
come Teocrito descrive la natura è, di solito, manierato,
convenzionale, insincero, la novità più importante consiste nell’uso
dell’esametro come mezzo d’espressione del dialogo in una
forma d’arte tutt’altro che eroica. Teocrito è un vero poeta:
profondità del sentimento amoroso, sensibilità di fronte alla
natura, potenza realistica dell’espressione ce lo fanno
considerare la vetta più alta della poesia post-classica.
Riflessi su... -> VIRGILIO -
"Bucoliche"
La Storiografia
Gli storiografi minori
dell'ellenismo si sono distinti nell'esaltare la figura di
Alessandro Magno, figura che ha colpito gli animi di molti seguaci
eruditi. Abbiamo una storiografia encomiastica ma realistica. I
generali di Alessandro sentirono spontaneamente il bisogno di
incoraggiare gli intellettuali a tessere le lodi del grande
conquistatore; fu una lode non costretta, ma libera (unico caso di
esaltazione spontanea del principe). La storiografia assunse un
carattere moralistico (1a storia vista secondo le categorie del
bene e del male) e retorico (1'opera storica era considerata come
un'opera d'arte e gli storici si preoccupavano di ricercare il
diletto del lettore), visione che portava lo storico ad inserire
una gran quantità di aneddoti per arrivare all'insegnamento
morale. Della produzione storica del primo Ellenismo non ci è
pervenuto nulla; tra gli storici più famosi ricordiamo Timeo e
Duride, intellettuali molto colti ed eruditi. Il maggior
rappresentante della storiografia ellenistica fu Polibio, il quale
scelse una linea d'indagine molto più moderna, criticando
duramente le involuzioni e le degenerazioni dei suoi
contemporanei.
Timeo
Originario di Taormina, fu lo
storico più notevole del mondo occidentale. Scrisse le Storie
che, in circa 38 libri, esponevano le vicende della Sicilia e
della Magna Grecia dalle origini mitiche fino a forse l’inizio
della prima guerra punica (264). Timeo inseriva nella sua opera le
storie dei vari popoli che entravano in contatto con i Greci, tra
cui la storia dei Romani (l’opposto di quello che opererà
Polibio). Il grande storiografo gli rimproverò un’eccessiva
erudizione data dalle fonti (Timeo lavorò per 50 anni nelle
biblioteche d’Atene) e non da una diretta conoscenza dei luoghi
e dei fatti. A parte questo, Timeo fu uno storico accurato e
obiettivo, che si interessò di molte cose, anche diverse tra
loro.
Duride
Originario di Samo, fu il
teorico e il rappresentante della storiografia drammatica. Le sue
opere principali furono le Storie e la Storia di
Agatocle, tiranno di Siracusa e grande nemico dei Cartaginesi.
In un frammento, Duride espone il suo programma, affermando che il
compito dello storico è quello di dilettare il lettore
rappresentando i fatti drammaticamente.
POLIBIO
Fu il più grande storico della
letteratura dell’ellenismo. Esaltò non la potenza greca, ma la
nascente potenza di Roma, che avrebbe conquistato l'intero
mediterraneo. Oltre a mettere Roma al centro della sua storia, la
sua seconda caratteristica fondamentale è quella di preoccuparsi
di ricercare le cause con la massima accuratezza possibile.
Nato in Arcadia poco prima del
200 a.C. da una famiglia di stampo aristocratico che partecipava
attivamente alla Lega achea, Polibio fece la sua carriera politica
all'interno della Lega aderendo al partito avverso ai romani,
finché, dopo la battaglia di Pidna, all'interno della Lega
prevalse il partito filo-romano e per sua istigazione furono
deportati a Roma mille cittadini del partito avverso, tra cui
Polibio. L'esilio durò 17 anni e costituì una svolta
importantissima nella sua vita e nel suo pensiero; ospitato nella
casa del vincitore di Pidna, il console Emilio Paolo, entrò in
amicizia con il più giovane dei suoi figli, Scipione Emiliano, il
quale lo introdusse nel circolo degli Scipioni. A contatto con il
pensiero politico, culturale e filosofico (lo stoicismo stava
allora diventando l'ideologia della classe dirigente) della Roma
del tempo, Polibio cominciò a rinnegare la sua ostilità di
cittadino acheo e a ricercare le cause della prepotente ascesa
della potenza romana. Lentamente si convertì alla causa di Roma e
si convinse che il suo impero era voluto dalla stessa tuch. A
questo periodo risale a composizione delle Storie. Finalmente
nel 150 Polibio poté far ritorno in patria, ma non vi rimase a
lungo; seguì Scipione Emiliano nella terza guerra punica a fianco
del quale assisté alla caduta di Cartagine, e compì numerosi
viaggi per visitare quei luoghi che andava descrivendo nelle Storie.
Morì in patria a 82 anni per una caduta da cavallo.
Ci resta un terzo della sua
opera maggiore: le Storie. Comprendenti 40 libri, le Storie
narravano gli avvenimenti d'Oriente e d'Occidente dal 264
(inizio della prima guerra punica) al 144 (due anni dopo la
distruzione di Cartagine e di Corinto). Tuttavia i primi due libri
trattano brevemente il periodo 264-220 e fanno da introduzione,
così che l'opera vera e propria inizia con la seconda guerra
punica. Conserviamo per intero i primi cinque libri (264-216);
degli altri abbiamo estratti e frammenti. E' ipotizzabile che
siano state fatte fino a cinque edizioni dell'opera, come che essa
sia stata pubblicata postuma, senza la revisione da parte
dell'autore. Da sottolineare come Polibio si interessa
essenzialmente della storia a lui contemporanea.
Nell'ellenismo è possibile
determinare con precisione le caratteristiche di un'opera storica
perché ogni autore era solito specializzarsi in un determinato
settore. Cosi la storia di Polibio può essere definita grazie a
due aggettivi: universale e pragmatica. Universale nel senso che
Polibio contempla l'intera storia romana e relaziona ad essa la
storia di tutte le altre popolazioni (le altre storie sono degne
di essere raccontate solo se in funzione dell'unica grande storia,
quella romana). Questa visione ha origine nel fatto che la stessa
tuch ha voluto creare con l'impero romano "la più bella
delle sue opere" e quindi l'evidenza stessa delle cose impone
di superare le storie particolari per giungere a una visione
unitaria dell'insieme. Pragmatica in quanto Polibio si basa solo
sui fatti realmente accaduti, sulle "imprese compiute dai
popoli, dalle città e dai monarchi"; gli storici moderni,
invece, si basano, oltre che sui fatti in sé e per sé, anche sul
contesto e sulle molteplici cause. Nel libro XII, criticando
aspramente gli storici precedenti, Polibio chiarisce ulteriormente
il carattere della sua storia pragmatica; la storiografia
abbraccia tre campi: studio dei documenti, informazione
geografica, conoscenza della politica. Polibio è lo storico più
oggettivo del suo tempo nel riportare i fatti: ricorre a più
fonti, le verifica per quanto gli è possibile, cerca di visitare
di persona tutti i luoghi di cui narra per rendere le sue
descrizioni le più precise possibile (in questo si accosta ad
Erodoto, il quale però mirava all'edonh, cioè ad interessare il
lettore). L'interesse per la geografia, così come l'essere
precisi e il ricercare il passato, sono caratteristiche comuni a
tutto l'ellenismo. Comune a Tucidide è invece l'interesse per la
politica, in quanto l'ateniese voleva esaminare la società nel
modo più complesso possibile; l'interesse di Polibio per la
politica è strettamente connesso alla realtà dei fatti accaduti.
Anche in Polibio, come in Tucidide, c'è la presenza di discorsi
diretti da parte dei protagonisti, ma i due autori diedero tagli
molto diversi ai loro discorsi: Tucidide, attraverso il discorso,
voleva farci conoscere l'animo di chi lo pronunciava, Polibio si
atteneva ai discorsi effettivamente pronunziati, senza inventare o
ricostruire arbitrariamente nulla. I suoi dialoghi, rispetto a
quelli riportati da Tucidide, sono ancora più specifici e
personalizzati, non messi in relazione all'interlocutore a cui il
personaggio si rivolge. Questo perché a Polibio non interessa
minimamente descrivere la società in cui vive o è vissuto il
personaggio. I suoi dialoghi sono quasi dei monologhi nel senso
che a Polibio non interessa farci capire come questi discorsi
possono essere recepiti da chi ascolta, ma vuole farci capire
quali intenzioni avesse chi pronunciò il discorso. In Polibio nei
discorsi c e solo individualismo, non emblema della società; la
stessa finalità sarà ripresa da Livio. Non c’è interesse per
l'oratoria (che invece costituirà la base della storiografia
latina).
Polibio cerca attentamente di
rintracciare le cause della vicenda storica e opera una
distinzione per quanto riguarda le cause, che vengono suddivise in
tre tipi:
· aitia = causa vera del fatto
storico (accettata universalmente).
· profasis = pretesto
ufficiale, causa apparente (non la vera motivazione).
· arké = causa iniziale,
scintilla, causa scatenante.
Quando non è possibile
recuperare l’aitia si ricorre alla tuch; questo è tipico
dell'ellenismo (durante il quale l'uomo, dove non arriva con la
gnosiV, arriva con la tuch) e avverrà anche in Tacito. La realtà
del contesto storico porta Polibio a ricercare quindi l'elemento
casualistico, che riveste una grande importanza ma che non assume
un significato univoco: ora la tuch si avvicina alla provvidenza
stoica, ora personifica il caso e l'irrazionale, ma in realtà
costituisce un'espressione di comodo che esclude un vero
significato religioso e filosofico.
Tre libri interrompono la
trattazione in rigoroso ordine annalistico e costituiscono degli excursus
all'interno del poema; il libro VI sulle costituzioni, il
libro XII sulla storiografia precedente e il libro XXXIV sulla
geografia del mondo mediterraneo. Il libro VI, in gran parte
conservato, contiene l'esposizione della famosa teoria dell'anagnosiV,
ossia del ritorno ciclico delle costituzioni. Esistono sei forme
di governo possibili, tre buone e tre cattive in cui le buone
necessariamente devono degenerare:
I. Monarchia (ogni stato
nasce perché qualcuno si è imposto sugli altri) ereditaria che
diventa elettiva per l'incapacità dei successori.
II. Tirannide (degenerazione
della monarchia).
III. Aristocrazia (i
migliori, per potenza e virtù morali, s'impadroniscono del
potere).
IV. Oligarchia (degenerazione
dell'aristocrazia; i migliori si sono rivelati incapaci e la
corruzione regna sovrana).
V. Democrazia (governo
del popolo che prende il potere).
VI. Oclocrazia (ocloV =
folla; è un hapax di Polibio. Quando Cicerone riprenderà
la visione polibiana userà il termine anarchia per indicare il
caos più totale che viene con la degenerazione della democrazia).
Ogni stato deve, per una sorta
di immutabile legge naturale, percorrere tutte le sei fasi del
ciclo, alla fine del quale se ne instaurerà uno nuovo. Esiste
però un particolare tipo di costituzione, detto costituzione
mista, che è riuscita a racchiudere in se le tre fasi positive,
conviventi insieme. Solo due stati al mondo, la Sparta di Licurgo
e Roma, hanno adottato questa costituzione, nella quale la
monarchia è rappresentata dai due consoli (monarchia in quanto
ciascuno dei due può esercitare il diritto di veto e bloccare le
decisioni), l'aristocrazia dal senato e la democrazia dai tribuni
della plebe, che garantiscono la presenza del popolo al governo
della città. Ecco il segreto della potenza di Roma: l'aver
assunto la costituzione più perfetta possibile, che le ha
permesso di evitare l'anakuklosiV, il ciclo ripetuto.
Tuttavia Polibio ritiene che ogni stato è destinato alla
decadenza, anche Roma, e ciò avverrà quando il popolo, avido di
dominio, avrà aumentato il proprio potere oltre ogni misura.
Come per Tucidide, il fine della
storia è il maqema; la storia deve essere magistra vitae, deve
insegnare agli uomini come agire. Questo insegnamento è a livello
pratico e materiale, tipico di una mentalità romanizzata come era
quella polibiana.
Polibio ha una particolarissima
(e, per la quasi totalità dei critici, limitata) visione della
religione. La religione non è altro che un'abile invenzione dei
capi che serve a tenere a freno le masse e a garantire l'ordine
sociale. L'intervento divino può essere forse invocato per
spiegare avvenimenti straordinari, come carestie e pestilenze, ma
in genere i fatti umani hanno spiegazioni naturali. A questa
visione fondamentalmente atea si contrappone. solo in apparenza la
presenza della tuch nella storia, in quanto essa, come abbiamo
visto sopra, costituisce solo un'espressione di comodo.
Il limite più grande di Polibio
è costituito dal suo stile. Egli adopera la koiné nella sua
versione peggiore, la sua lingua, tranne rare eccezioni, è arida
e priva di colore e il periodo è prolisso e monotono. Polibio ha
il pregio di essere chiaro, ma è privo dell'arte dello scrivere.
LO STOICISMO
Lo Stoicismo fu la corrente di
pensiero più diffusa nell’Impero romano nel I e II secolo d.C.
La nuova Stoa, detta romana perché a Roma principalmente si
sviluppò, si differenziò sempre di più dall’antica e dalla
media, disinteressandosi della fisica e occupandosi
prevalentemente di etica. Questo perché lo Stoicismo subì la
generale crisi religiosa del periodo greco-romano, che determinò
una generale sfiducia nella ragione, un rifiuto di cercare la
risposta ultima e un accentuato misticismo nella pratica della
filosofia. Non a caso in questo periodo si diffonde lo
Scetticismo, che predicava la sospensione del giudizio. Lo
Stoicismo si trovò così a predicare il distacco della vita e la
preparazione alla morte. Gli esponenti principali della nuova Stoa
furono Seneca, Epitteto e Marco Aurelio; dei tre Seneca scrisse in
latino, ma generalmente la lingua usata dagli stoici romani fu il
greco.
Epitteto
Nato verso il 50, schiavo frigio
deportato a Roma, fu in seguito liberato e nella capitale iniziò
ad insegnare filosofia. Sotto Domiziano fu messo al bando insieme
ad altri filosofi e si stabilì a Nicopoli in Epiro, dove
continuò l’insegnamento.
Il discepolo Arriano,
registrando fedelmente le lezioni del maestro, ce ne ha tramandato
la dottrina negli 8 libri delle Diatribe (ne restano
quattro) e nel famoso Manuale. Il pensiero di Epitteto si
può riassumere nella massima anecou kai apecou (sopporta e
astieniti), che propone un etica incentrata sull’ideale della
sopportazione e della rinuncia. L’importanza di Epitteto non sta
tanto nell’originalità del suo pensiero, quanto nella forza e
nella coerenza con cui egli visse la sua filosofia come una
religione, non cercando di comprendere la verità, ma di viverla,
non aspirando alla "scienza", ma alla
"sapienza".
Marco Aurelio
Imperatore-filosofo: questo è l’epiteto
che la storia gli ha assegnato. Scelto per condurre il più grande
impero che fosse mai esistito, Marco Aurelio cercò, nella vita di
ogni giorno, di affidarsi alla filosofia e ai principi che da
questa gli derivarono: "devi adattare te stesso agli eventi
ai quali il destino ti diede in sorte d’esser compagno. E ama,
ma davvero, gli uomini ai quali la sorte t’ha posto
accanto".
Marco Aurelio nacque a Roma nel
121 e fu educato fin dalla fanciullezza ai principi dello
stoicismo. Adottato da Antonino Pio nel 138 e designato erede al
trono, ebbe come precettore Frontone, che tentò d’insegnargli l’arte
della retorica, ma il discepolo si mostrava più attratto dalla
profondità del contenuto che dalla bellezza della forma. Nel 161
Marco Aurelio divenne imperatore, e attese al suo compito con
dignità e umanità, cercando di mettere in pratica i principi che
lui stesso si era posto. Le dure necessità dell’Impero lo
costrinsero a stare in guerra per quasi tutta la durata del suo
regno, combattendo in Oriente contro i Parti e sulla frontiera del
Danubio contro Quadi e Marcomanni; su quest’ultimo fronte morì,
nel 180 d.C. Cassio Dione ci tramanda che, sul punto di morte, l’imperatore
disse al tribuno che gli chiedeva la parola d’ordine: "va’
verso l’aurora, io ormai sono al tramonto".
Di Marco Aurelio conserviamo un’opera
in 12 libri, intitolata ta eiV eauton (A se stesso) e
contenente circa 470 pensieri o considerazioni, appuntati l’uno
accanto all’altro senza una prestabilita sequenzialità e
scritti la maggior parte durante le campagne militari. Questi
pensieri riguardano l’uomo e non propriamente l’imperatore,
così che da Marco Aurelio s’impara sempre, perché le sue
riflessioni sono utili anche oggi. Più esattamente, nei Pensieri
Marco Aurelio si comporta come se stesse parlando con la sua
anima: il Marco Aurelio filosofo colloquia con il Marco Aurelio
uomo, e noi siamo portati immediatamente ad indentificarci con
quest’ultimo. Questo modo di procedere è affine a quello che
adotta Seneca nelle Epistole morali, con la differenza che
Seneca dice di conoscere già il cammino, mentre Marco Aurelio fa
compiere il cammino al lettore camminando con lui. La vita è
breve ed il tempo va speso migliorando se stesso e gli altri;
Marco Aurelio non parla, come fece Seneca, di un sapiens,
ma di un uomo virtuoso che spende il suo tempo facendo da esempio
e aiutando gli altri. L’uomo deve donare liberamente e
spontaneamente all’altro uomo, e lo deve fare di nascosto
(riprende qui i precetti del De beneficiis di Seneca). E’
un atteggiamento più greco che romano.
Su 470 pensieri, ben 100
riguardano il pensiero della morte, che è innanzi tutto sentita
come crewn (=necessità); tutto ciò che nasce deve poi morire. La
vita è troppo breve, secondo Marco Aurelio ("il tempo
dell’umana vita è un punto"), ma si può lo stesso
viverla con onestà (è antesignano del Cristianesimo). L’uomo
ha l’urgente ("il momento fatale incombe su di te;
finché ti dura la vita, diventa buono") necessità di
vivere sempre in maniera onesta (capovolgimento del Carpe diem
di Orazio). Sarà logico, per Marco Aurelio, desiderare che la
morte giunga il prima possibile nel momento della grande
sofferenza. L’uomo deve vivere in linea con i dettami che lui
stesso si è dato, nonostante i tanti mali e le difficoltà dell’esistenza;
solo in questo modo l’uomo sarà realmente pago di se stesso. Il
suicidio è ammesso solo nel caso in cui l’uomo, oggettivamente,
sia impossibilitato ad esercitare la virtù. Il "poter",
in questi casi, suicidarsi, equivale però a un "dover",
in quanto costituisce la scelta migliore da fare. Similmente, la
guerra non è un male solo se è fatta per legittima difesa. Marco
Aurelio vuol fare del bene agli altri non imponendo la strada, ma
è l’uomo che, con il suo stesso esempio, trascina gli altri; e
quale esempio migliore di quello di un imperatore che ha toccato
con mano le difficoltà della vita. Tornando al discorso della
morte, Marco Aurelio ne dà tre definizioni:
1. fuseos ergon (= azione della
natura). "Colui che è stato causa, in un primo momento,
della tua composizione, è lo stesso che in questo istante è
causa della dissoluzione. Tu, invece, non c’entri né per l’uno
né per l’altro fatto". Lo stesso nascere è un
cominciare a morire, e per questo dobbiamo prepararci fin dal
giorno della nascita. La vita è un dono e non possiamo sprecarlo.
2. fuseos misterion (= mistero
della natura). Non sappiamo con certezza dove vada a finire l’anima
dopo la morte. Marco Aurelio, stoico, ondeggia tra la visione
della metempsicosi e l’idea stoica dell’eterno ritorno.
3. metabolé (= cambiamento di
stato). La vita muore e dalla morte si passa ad una nuova vita; è
un pensiero solo accennato, non organicamente concepito.
La conclusione di Marco Aurelio
riguardo alla morte è questa: se ti sei comportato virtuosamente,
non ne devi avere paura (la sua conclusione si avvicina,
paradossalmente, a quella degli epicurei).
Per Marco Aurelio, l’uomo
cerca di raggiungere il piacere, concepito in maniera diversa dal
piacere epicureo. L’imperatore-filosofo distingue due diversi
tipi di piacere:
1. Piacere cinetico; piacere in
movimento, misto a dolore.
2. Piacere catastematico;
piacere fisso, in riposo, vero piacere, distinto di piaceri
naturali e necessari, piaceri non naturali ma necessari, piaceri
non naturali né necessari.
L’uomo, cercando il piacere,
lo troverà il qualcosa di tangibile, come, per esempio, la
bellezza (piacere transeunte). Perché, per Marco Aurelio,
aspirare a qualcosa di caduco? Su questo punto gli sono state
mosse alcune obiezioni, in quanto sembra che l’imperatore-filosofo
non riesca a concepire nessun concetto valido di per sé, come la
bellezza, la gloria o la fama, che sono sempre e necessariamente
relazionati agli altri uomini, e quindi piaceri effimeri.
Marco Aurelio esamina la vita
degli uomini e rimane amareggiato nel vedere gli uomini come dei
cagnolini che si mordono la coda gli uni gli altri. "Siamo
nel mondo per reciproco aiuto; in conseguenza è contro natura
ogni azione di reciproco contrasto"; questa è la
comprensione e la solidarietà che propone Marco Aurelio. "Gli
uomini sono nati l’un per l’altro; conseguenza: o li rendi
migliori con l’insegnamento oppure sopportali". Questo
perché ritiene che tutti gli altri uomini siano parte di noi,
come noi siamo parte del tutto, come l’ape lo è dello sciame;
di conseguenza "una cosa che non arreca utilità allo
sciame non ne arreca all’ape". E su questi precetti
Marco Aurelio impostò la sua vita da imperatore del più grande
impero che la storia avesse mai conosciuto.
PERIODO GRECO-ROMANO
Nel 30 a.C. cade l’ultimo dei
regni ellenistici; ora la cultura greca è totalmente soggetta al
dominio di Roma e si avvia verso il declino. Tuttavia, emergeranno
ancora figure rilevanti come Plutarco, Luciano, Marco Aurelio,
senza contare che il greco divenne la lingua del dirompente
Cristianesimo negli anni della sua affermazione in tutto l’Impero.
L’ultimo periodo della
letteratura greca va dal 30 a.C. (conquista dell’Egitto) al 529
d.C. (soppressione della scuola neoplatonica di Atene per ordine
dell’imperatore Giustiniano). Tra le varie denominazioni
possibili, si è scelto quello di periodo greco-romano per
evidenziarne il carattere fondamentale: la letteratura greca si
sviluppa ora in un mondo dominato politicamente e culturalmente da
Roma, e non può più prescindere dal suo legame con essa.
Nel campo politico Grecia e
regioni orientali, come anche le altre parti dell’Impero, non
hanno nessuna indipendenza: ridotte a province imperiali, sono
governate da proconsoli eletti dal senato (le province senatorie)
e da legati scelti dall’imperatore (quelle imperiali). Nei primi
tre secoli, tuttavia, gli imperatori permisero una certa autonomia
locale e favorirono la formazione di una classe dirigente locale
che, entro le strutture imperiali, regge l’amministrazione della
città. Con l’avvento di Diocleziano (284-305) scompare ogni
residua traccia di autogoverno cittadino e ogni parvenza di
autonomia delle poleiV. Nello stesso tempo, con l’introduzione
della tetrarchia (divisione dell’impero in quattro zone rette da
due Augusti e da due Cesari) si avvia un processo che porterà al
completo distacco fra le regioni orientali e quelle occidentali,
distacco sancito da Teodosio nel 395 con la creazione dell’Impero
d’Occidente, ben presto miseramente travolto da onde si barbari,
e dell’Impero d’Oriente, che riuscì a sopravvivere per circa
un millennio (1453, caduta di Costantinopoli) e fu chiamato Bizantino.
In campo economico si diffuse in
tutto l’Impero quel "capitalismo urbano" che aveva
contrassegnato il periodo ellenistico: la città è il centro di
tutte le attività produttive e commercia fiorentemente con le
altre, trovando in una borghesia ricca e intraprendente il suo
principale sostegno. Si raggiunse l’apice di questo sviluppo
produttivo, ma soprattutto commerciale, nel II secolo, durante l’età
di Adriano e degli Antonini. Nel frattempo si acuivano le tensioni
sociali: all’agiatezza delle classi medie si contrapponeva la
miseria del proletariato urbano e contadino. Nel III secolo
scoppiò una grave crisi che portò ad una lunga anarchia militare
e a sanguinose lotte di classe. Le riforme di Diocleziano e di
Costantino cercarono di portare un rimedio a questa situazione, ma
riuscirono solo in parte. Ne seguì un impoverimento progressivo,
che portò al sostituirsi ad un’economia di tipo urbano,
soprattutto nelle regioni occidentali, di una "economia
domestica"; le città perdettero il loro importante ruolo,
aumentò il significato ed il peso della campagna. Erano i
prodromi del Medioevo.
In campo culturale,
generalizzando, si avverte un’esasperazione delle tematiche
ellenistiche. L’individuo si dissocia sempre di più dalla vita
politica, sentendo estraneo a sé il significato e il destino dell’Impero.
Nella generale instabilità politica, economica e sociale non
crede più nella razionalità delle cose e afferma l’ideale
della rinunzia e della fuga dal mondo, ricercando la salvezza dell’uomo
nella sua interiorità e più ancora in Dio. La religione
tradizionale ha definitivamente perduto ogni ragion d’essere:
ora sono le religioni orientali e i culti misterici ad appagare le
esigenze spirituali dei cittadini dell’Impero. La ricerca
scientifica perde il suo carattere sociale e diventa uno strumento
con cui poter accedere alla salvezza, confondendosi sempre di più
con la magia, l’astrologia, l’alchimia. Anche la filosofia
smette di ricercare la santità a favore della salvezza dell’uomo,
privilegiando la rivelazione alla ragione e spesso sfociando in
una fede religiosa (il neopitagorismo, lo stoicismo, il
neoplatonismo di Plotino…). In questo clima di stanchezza e di
sfiducia, mentre la sapienza antica canta il suo vanitas
vanitatum, sorge il Cristianesimo e a predicare la mondo la
"Buona novella". Uscito vittorioso da secoli di lotte e
di persecuzioni, il Cristianesimo ottenne prima la libertà di
culto (313, Editto di Costantino), e fu poi riconosciuto religione
ufficiale dell’impero (380, editto di Teodosio), andando a
rappresentare la svolta decisiva di questo periodo.
La letteratura del periodo
greco-romano mostra evidenti segni di decadenza, acuiti, oltre che
dal clima generale, dall’invadenza della retorica, che la rese
vuota e sterile, e dalle mode classiciste che proponevano l’imitazione
del passato, a scapito delle creazioni originali. Pure, si
affermarono ancora notevoli scrittori, come Plutarco e Luciano,
nobili figure di imperatori-filosofi, come Marco Aurelio e
Giuliano, un geniale pensatore come Plotino. Il romanzo conobbe
adesso la sua massima diffusione, e anche la poesia presenta
qualche voce nuova, come quella dell’epigrammatista Agatia,
autore del Ciclo. Infine, accanto alla letteratura profana
sorse quella cristiana, che utilizzò il greco per diffondere il
Vangelo in tutto l’Impero (il Nuovo Testamento è
interamente in greco).
Con la chiusura della scuola
neoplatonica, avvenuta nel 529, si fa finire tradizionalmente la
letteratura greca antica; ma essa non finì mai veramente: la
civiltà bizantina e cristiana ne assorbì gli elementi più
fecondi e ne continuò l’eredità nei secoli del Medioevo.
PLUTARCO
E’ il biografo per eccellenza
della cultura greca, colui che ha creato che le sue Vite eroi
immortali che sono stati visti nei secoli come modelli di virtù e
di perfezione morale, o come simboli d libertà e di ribellione
alla tirannide, o come esempi di destini tragici e dolorosi, o
infine come rappresentanti dei più autentici valori umani.
Nacque a Cheronea in Beozia poco
prima del 50 d.C. da una famiglia che apparteneva alla tipica
borghesia del periodo imperiale. Completò la sua formazione ad
Atene, aderendo al platonismo. Compì numerosi viaggi e fu a più
riprese anche a Roma, ma non vi rimase a lungo; egli amava il
piccolo borgo di Cheronea che non voleva abbandonare e dove
trascorse la maggior parte della sua esistenza, dedicandosi ai
suoi studi e occupando anche importanti cariche pubbliche nell’amministrazione
cittadina. Per molti anni fece anche parte del collegio
sacerdotale del vicino santuario di Delfi; assieme al platonismo,
l’esperienza religiosa fu determinante per la formazione della
sua concezione morale. Morì poco dopo il 125.
Della sua vastissima produzione
a noi sono giunti due gruppi di opere: i Moralia e le
Vite parallele.
Moralia
Sotto il nome di Moralia
ci sono pervenuti un’ottantina di scritti (alcuni di dubbia
autenticità) che trattano delle questioni più disparate: morali,
filosofiche, religiose, pedagogiche, letterarie, politiche,
scientifiche, erudite. Nelle opere filosofiche e morali Plutarco
espone e divulga il pensiero platonico, polemizzando con epicurei
e stoici e proponendo una serie di saggi consigli e pratici rimedi
contro i vizi e le passioni, ponendosi come "un medico dell’anima".
Inoltre Plutarco fu uno spirito profondamente religioso e animato
da un vero interesse per il problema di Dio e della sua opera del
mondo; da una parte resta fedele alle credenze e ai riti della
religione tradizionale, dall’altra si apre alle esigenze
filosofiche e alle idee dei suoi tempi e cerca di pervenire alla
concezione di un dio unico e di una religione comune a tutti gli
uomini.
Vite parallele
La fama di Plutarco è però
legata alle Vite parallele, coppie di biografie nelle quali
un personaggio greco viene contrapposto ad un personaggio romano
(es. Alessandro-Cesare, Demostene-Cicerone, Teseo-Romolo); spesso,
alla fine di ogni coppia segue un breve parallelo che sottolinea
analogie e differenze tra i due personaggi studiati. Conserviamo
in tutto 50 Vite: di esse 46 sono abbinate e 4 isolate.
Questa impostazione rivela che il confronto non è tra i singoli
personaggi, ma tra il mondo greco e quello romano, in modo da
dimostrare la grandezza di entrambi. Va comunque rilevato che
molti accostamenti sono forzati e arbitrari. La biografia di
Plutarco segue in genere uno schema fisso: narra in ordine
cronologico, dalla nascita alla morte, i principali avvenimenti
del personaggio, ponendo una certa attenzione ad aneddoti e
particolari curiosi, nell’ottica che "spesso un fatto
insignificante, una parola, uno scherzo, manifestano l’indole di
un uomo, più delle battaglie sanguinose o dei grandi schieramenti
di eserciti o degli assedi delle città". Caratteristica
di Plutarco è di porre in risalto i momenti più solenni e più
drammatici della vita dei suoi eroi, creando scene piene di un
paqoV che avvince e commuove; questa predilezione per gli eventi
più drammatici e per le tinte più fosche e macabre lo avvicina a
Tacito. Plutarco definisce nella sua opera il taglio biografico
che intende seguire: "non scriviamo storia, ma vite".
Infatti, non ha un vero interesse per la storia e spesso è
incapace di cogliere i nessi profondi degli avvenimenti e di
analizzare in modo globale il contesto storico in cui si muovono i
personaggi delle Vite. Il suo scopo dichiarato è quello di
presentare al lettore le grandi figure del passato, creandone
degli eroi (è più poeta che storico). Gli eroi di Plutarco sono
imbevuti delle sue concezioni etiche, in modo che dalle azioni e
dal carattere del personaggio si può con immediatezza trarne un
insegnamento morale. Questo , se da una parte impedisce una
visione profonda dell’esistenza con il giudicare ogni cosa con
una visione unilaterale, dall’altra gli permette di disporre i
fatti in virtù di un ordine superiore, illuminando il personaggio
di una luce singolare da cui emerga il suo carattere e la sua
grandezza. L’eroe di Plutarco non è perfetto, non è esente da
difetti o da errori, ma anche nei suoi aspetti negativi si
distingue dagli altri, ergendosi sopra un piedistallo.
Plutarco è confrontabile con
tre biografi della letteratura latina: Varrone, Cornelio Nepote,
Svetonio. In generale, l’interesse dei latini, volto alla vita,
è per i fatti realmente accaduti, per le azioni (fine
pragmatico), piuttosto che alla conoscenza del profondo dell’animo
del personaggio, ottenuta da Plutarco facendo ricorso all’elemento
patetico. Con Cornelio Nepote siamo nella fase delle guerre
civili, ed il suo travaglio interiore si rispecchia nel De
viris illustribus; anche lui aveva adottato lo stesso sistema
di confrontare Greci e Romani con intento moralistico, ma senza l’ampiezza
di respiro di Plutarco. Varrone, nei Logi Storici, parla di
un miscuglio di razionalità e di azione compiuta; adotta un
taglio particolare avvicinabile a Cornelio Nepote perché i
personaggi sono travagliati e incapace di aderire a qualcosa di
sicuro. Svetonio, nel De vita Caesarum, cammina per
categorie chiuse (schema fisso della biografia), avendo già in
testa la visione dei fatti. Questo avere un programma già
prefissato gli permette di evidenziare i particolari, appagando il
suo gusto per l’aneddoto: Svetonio narra la vita degli
imperatori come se guardasse dal buco della serratura Plutarco è
l’unico tra i biografi antichi che ha un vero interesse per l’uomo
e per il suo dramma. Da notare il fatto che i biografi vengono
fuori prevalentemente in momenti di crisi.
LA SECONDA SOFISTICA
La Seconda Sofistica si richiama
già nel nome alla prima, fiorita in Grecia nel V secolo a.C.
Mentre l’antica Sofistica aveva esteso i suoi interessi ai vari
campi della civiltà (retorica, filosofia, religione, politica…)
e aveva rappresentato un momento decisivo nella storia del
pensiero, la Seconda Sofistica riprese e continuò solo l’aspetto
retorico e risultò un fenomeno vistoso ed appariscente, ma poco
profondo e poco fecondo per l'avvenire. I secondi sofisti si
dedicarono quasi esclusivamente alla ricerca della bella forma,
facendo sfoggio di bravura stilistica, in argomenti spesso futili
o di scarsa importanza; molti di loro furono dei conferenzieri
brillanti ed applauditi.
LUCIANO
Vissuto a Samosata sull’Eufrate,
si formò di una cultura epidermica e visse un gran senso di
sfiducia verso il mondo del divino, che derise apertamente, non
per dissacrare ma per divertirsi. Secondo il giudizio di Lesky,
"aveva abbracciato lo scetticismo come concezione del mondo e
la satira come professione".
Nato intorno al 120 a Samosata
sull’Eufrate, imparò il greco a scuola, perché la sua prima
lingua fu il siro.
Da ragazzo fu apprendista presso
uno zio scultore, ma un incidente sul lavoro pose fine all’esperimento,
come egli racconta nel Sogno. Quindi Luciano compì gli
studi retorici e iniziò la sua attività di sofista, viaggiando
in tutte le regioni dell’Impero fino alla Gallia. Verso i
quarant’anni abbandonò la retorica per dedicarsi al dialogo e
alla satira; questo improvviso cambiamento e alcuni brani del Nigrino
hanno fatto nascere in alcuni critici l’idea di una
conversione di Luciano alla filosofia: "il discorso lo
condusse a lodare la filosofia, e la libertà che da essa deriva,
ed a spregiare quei che il volgo crede beni, la ricchezza, la
gloria, la potenza, gli onori, l’oro, la porpora, ed altre cose
tanto ammirate da molti, ed una volta anche da me"; "…
in breve acquistai acutissima la vista dell’anima, che fino ad
allora era stata cieca, ed io non me n’ero accorto". In
realtà il Nigrino è sì un’opera che denota un serio
atteggiamento di Luciano, ma si trattò di una disposizione
momentanea, non di una vera conversione alla filosofia. Negli
ultimi anni della sua vita, Luciano fu funzionario imperiale in
Egitto; morì probabilmente verso il 190.
Sotto il nome di Luciano ci è
giunta una raccolta di 82 scritti, chiamati comunemente Dialoghi.
In realtà solo alcuni hanno forma dialogica, altri solo semplici
esercitazioni retoriche, altri sono a carattere autobiografico (Sogno,
Nigrino) altri sono dei veri e propri romanzi (come Lucio o
l’asino), altre sono opere satiriche, divise, secondo l’argomento
che prendono a bersaglio, in tre gruppi:
1. Satira filosofica: Vite
all’Incanto, Pescatore. Nelle Vite all’Incanto
Zeus, con l’aiuto di Mercurio, vende all’asta le vite dei
principali filosofi, e i compratori li prendono a pochissimo. Nel Pescatore
si immagina che i filosofi che erano stati offesi nelle Vite
all’Incanto risuscitino dall’Ade per vendicarsi del loro
nemico; Luciano si difende sostenendo che egli ha inteso attaccare
i filosofi contemporanei, che hanno tanto degenerato da quelli
antichi. Per smascherali getta dall’Acropoli di Atene l’amo
innescato con qualche fico e qualche moneta d’oro: subito molti
abboccano.
2. Satira religiosa: Dialoghi
degli dei, Dialoghi marini, Zeus confutato, Zeus tragedo. I Dialoghi
degli dei e i Dialoghi marini (cioè di divinità
marine) sono dei mimi in cui gli dei vengono presentati nei loro
difetti e nelle loro debolezze. Non è ancora un attacco aperto
contro la religione tradizionale, ma un’ironia leggera e velata.
La satira diventa audace e aggressiva nello Zeus confutato,
dove il padre degli dei non riesce a conciliare destino e
provvidenza, e nello Zeus tragedo, dove il padre degli dei
è costretto ad appoggiare un filosofo stoico perché vinca una
disputa contro un epicureo, evitando così l’oblio dei mortali.
3. Satira morale e sociale: Dialoghi
dei morti. Luciano deride apertamente la stoltezza degli
uomini ed il loro affannarsi dietro alle grandi passioni; tanto,
dopo la morte, tutto si deve abbandonare e tutti nudi e uguali si
entra nel regno dei morti: vanità è la ricchezza, vanità è la
potenza, vanità è la bellezza. C’è anche un po’ dell’invidia
di classe (Luciano, a quanto ne sappiamo, non divenne mai ricco)
in questo scherno contro i ricchi e i potenti. Siamo ora nella
mordace satira menippea; non a caso il protagonista è il cinico
Menippo, al quale viene concesso da Mercurio di portare con sé
nel regno dei morti la parlantina, la franchezza, il buon umore,
il motto e il riso, "cose vuote, leggere, e buone pel
navigare" , contrapposte alle pesantezze del discorso che
i retori devono abbandonare prima di salire sulla barca di Caronte.
Il concetto della morte che è
uguale per tutti e del giudizio, severo, che non risparmia niente
e nessuno è una costante del pensiero di Luciano; la troviamo
infatti anche in altri dialoghi, che ribadiscono come siano vane
la gloria, la bellezza e la potenza.
Sotto il nome di Luciano ci sono
pervenuti due romanzi. Lucio o l’asino è di contestata
autenticità, e narra la vicenda di Lucio che viene trasformato in
un asino e, dopo varie peripezie, alla fine riacquista la forma
umana. L’argomento è lo stesso delle Metamorfosi di
Apuleio, ma mancano molte novelle (tra cui quella famosissima di
Amore e Psiche e la parte finale che descrive le esperienze
mistiche del protagonista. La Storia vera prende spunto dal
tentativo di fare una parodia dei romanzi d’avventura, ma
finisce con il diventare il più bizzarro e fantasioso racconto (i
protagonisti vanno sulla luna, finiscono nel ventre di una balena,
giungono nell’isola dei Beati…) che sia mai stato scritto,
precorrendo, per certi versi, i Viaggi di Gulliver e Pinocchio.
La satira di Luciano coinvolge
tutti gli aspetti della cultura e della società. Nell’età
degli Antonini e della Seconda Sofistica grande era il vuoto
morale e spirituale, gravi erano i disagi e le ingiustizie
sociali: i ricchi e potenti signori romani sfruttavano e vessavano
le province, circondati da un nugolo di adulatori e di leccapiedi,
gente che cercava con ogni mezzo la gloria e il denaro. Luciano
dovette trovarsi proprio a fare questa scelta, se essere uno di
loro o remare controcorrente, e scelse la seconda: "io
sono un uomo che odia i millantatori, i ciarlatani, i bugiardi, i
superbi, tutta la genia dei malvagi... Amo la verità, la
bellezza, la semplicità, tutto ciò che è degno di essere amato".
Le invettive di Luciano non sono
invettive serie e solenni, ma sono avvolte dall’ironia, che
critica amaramente in primis la tradizione ma talvolta
anche la realtà contemporanea. In realtà Luciano non crede in un
ideale da proporre e da contrapporre alla realtà che critica; il
suo scetticismo radicale rivela una grande aridità spirituale.
Egli combatte l’ingiustizia sociale, ma non crede che quest’ingiustizia
possa in qualche modo venire annullata, e questo atteggiamento lo
porta all’incapacità di affrontare i grandi problemi dell’esistenza.
Il suo scetticismo è tanto più assoluto in quanto egli non crede
neppure nel valore della sua propaganda negativa, non è neppure
convinto di riuscire a distruggere veramente qualcosa. L’assenza
di una fede qualsiasi e un’aridità spirituale di fondo hanno
impedito a Luciano di essere un grande scrittore.
IL ROMANZO GRECO
E’ l’ultimo genere
letterario inventato dall’ellenismo, quello che meglio riuscì a
rispecchiarne i canoni letterari. Nato tardi, non riuscì a
raggiungere quella bellezza e quella perfezione che troviamo negli
altri campi della letteratura greca; infatti è ritenuto scarso il
suo valore artistico. Tuttavia, il romanzo greco riveste una
grande importanza come documento dei tempi e come fenomeno
letterario che contribuì al sorgere della narrativa moderna: il
romanzo moderno presenta tutt’oggi gli stessi caratteri
fondamentali. I frammenti più antichi a noi pervenuti sono quelli
del romanzo di Nino (il protagonista) e Seramide,
innamorati l’uno dell’altra. In questo, come anche in tutti i
romanzi successivi, il filone della trama è sostanzialmente lo
stesso: due giovani s’innamorano, vengono separati da un evento
casuale, vivono mille avventure, si rincontrano, nulla tra loro è
cambiato, si sposano e vivono felici e contenti. Il romanzo di
Nino è stato trovato su un papiro del I secolo d.C.; questo
fece cadere, alla fine del secolo scorso, la tesi del Rohde,
secondo la quale il romanzo sarebbe nato dalla fusione dell’elemento
erotico con l’elemento avventuroso, fusione che sarebbe avvenuta
nella pratica retorica della Seconda Sofistica. L’origine del
romanzo è, invece, probabilmente da ricercare nel fatto che non
fu un genere, come molti altri, destinato a pochi eruditi, ma alla
classe borghese, benestante, non molto acculturata e
spoliticizzata, che non si interessava più ai grandi problemi e
cercava di evadere dagli angusti limiti della realtà quotidiana:
era un genere d’evasione. Questo spiega anche il fatto - ed è
unico per la letteratura greca- che solo i romanzi greci siano
stati trovati in frammenti di papiro riutilizzato: era
evidentemente un genere che non aveva molte pretese, come non ne
avevano gli stessi autori, i quali non erano troppo eruditi e non
trasmettevano alcun tipo di valori.
Due sono gli elementi
fondamentali del romanzo greco: l’amore e l’avventura. L’amore
sarà normale (ossia tra un ragazzo e una ragazza) e si ricollega
alla feconda produzione poetica, in cui era uno dei temi più
trattati dell’ellenismo, mentre le avventure di viaggio avevano
avuto il loro battesimo con Omero (i viaggi di Ulisse finalizzati
alla swfrosunh) e avevano trovato la loro piena espressione con le
Argonautiche di Apollonio Rodio, appagando il gusto per l’esotico
e la tendenza verso il cosmopolitismo tipici dell’ellenismo.
L’ASINO D’ORO
\
LE METAMORFOSI
Un famoso romanzo greco è il,
già citato a proposito di Luciano, Lucio o l’asino, il
quale ricalca nelle linee fondamentali la trama delle Metamorfosi
di Apuleio, tanto che si è addirittura pensato, per le
Metamorfosi, ad una traduzione in latino di un’opera greca.
Quest’ipotesi è un po’ forzata, perché un autore di grande
levatura e preparazione come Apuleio, difficilmente si sarebbe
accontentato di fare una semplice traduzione; è più probabile
che le due opere abbiano un’origine comune, da ricercarsi, pare,
in una piccola opera greca, denominata l’Asino d’oro,
scritta da un certo Lucio di Patre di cui ci dà notizia il
patriarca Fozio. Purtroppo non abbiamo altre informazioni su Lucio
di Patre né resti della sua opera, per cui questa rimane una
semplice ipotesi. E’ stato anche ipotizzato che Apuleio, da
giovane, abbia scritto un piccolo Asino d’oro in greco,
utilizzato come base per le Metamorfosi. Le Metamorfosi
di Apuleio si differenziano da Lucio o l’asino di Luciano
di Samosata per due principali motivi:
a. Nelle Metamorfosi compare un
maggior numero di novelle (tra cui quella celeberrima di Amore e
Psiche), tutte tratte dalle favole milesie e apparentemente prive
di un legame unificante tra loro. Nel periodo finale della
letteratura latina si diffondono ampiamente le religioni e i culti
misterici; la chiave di lettura delle Metamorfosi è proprio in
questi motivi escatologici, in quest’ansia religiosa che porta
Apuleio a cercare ogni mezzo di accostarsi al mondo del divino.
b. Le Metamorfosi sono in 11
libri, uno in più, rispetto all’opera di Luciano. L’undicesimo
libro è completamente slegato dagli altri: l’autore si
sostituisce al protagonista e fa passare per quelle di Lucio le
sue esperienze personali, sempre collegate a quest’ansia
misterica.
Comune a entrambe le opere è
invece la voglia di sperimentare nell’ambito della tematica dell’amore;
è straordinario il crearsi di una sorta di ciclicità tra la
letteratura greca e quella latina, che finisce con questa voglia
di sperimentare in amore, analoga a quella apparsa alle origini
della letteratura greca (con Ulisse). Si tratta, però, in Apuleio,
di una voglia di sperimentare che ha un che di mistico e di
oscuro, assente nella voglia di nuove esperienze di Ulisse.
I GENERI "MINORI"
ETÀ ELLENISTICA
L 'EPIGRAMMA
L'epigramma ellenistico, pur
venendo ancora usato come iscrizione per motivi pratici, si slegò
progressivamente dal motivo occasionale per diventare il
componimento lirico più coltivato dagli autori ellenistici, in
quanto genere che meglio di tutti rispondeva alle esigenze della
poetica del tempo. La sua caratteristica fondamentale fu la brevitas,
che permetteva di raggiungere immediatamente l'acme della
poesia e di mantenerlo per tutto il componimento: la cura formale
era infatti essenziale per i poeti dell'ellenismo. Un altra
caratteristica peculiare fu la spiccata soggettività: l'autore si
poneva in prima persona nel componimento e fissava in pochi versi
uno stato d'animo o una vicenda della vita. I temi trattati erano
svariati: l'amore il vino, la morte, un paesaggio, una disputa
letteraria, la descrizione di un ambiente o di un mestiere. Il
metro più usato fu il distico elegiaco. Quasi tutti gli autori
ellenistici composero epigrammi, e tra loro spiccano Anite e
Nosside, le uniche due autrici di tutto l'ellenismo.
L'intera composizione
epigrammatica greca ci è giunta attraverso due raccolte:
l'Antologia Palatina e l'Antologia Planudea. L'Antologia Platina
fu scoperta in un codice della biblioteca Palatina di Heidelberg
nel 1607; abbraccia una produzione di oltre 15, secoli,
comprendente circa 3700 epigrammi divisi per argomento in 15
libri. La Palatina si basa su precedenti raccolte di cui le
principali sono le seguenti:
1. La Corona (Stefanos)
di Meleagro di Gadara, risalente al I sec. a.C.; raccoglieva i
suoi epigrammi e quelli di molti altri poeti precedenti e li
disponeva in ordine alfabetico (secondo le lettere iniziali di
ciascun componimento).
2. La Corona di Filippo
di Tessalonica, risalente al I sec. d.C. Segue lo stesso ordine
alfabetico adottato da Meleagro.
3. Il Ciclo composto da
Agatia, risalente al VI secolo d.C. Gli epigrammi non erano
raggruppati alfabeticamente, ma secondo il contenuto.
4. La raccolta fatta nel IX-X
secolo d.C. da Costantino Cefala, protopapas della corte di
Bisanzio. Egli utilizzò le tre raccolte precedenti e altre minori
seguendo la classificazione per argomenti adottata da Agatia. La
raccolta di Costantino Cefala fu fondamentale sia per la
costituzione della Palatina che della Planudea.
L'Antologia Planudea prende il
nome dal monaco amanuense Massimo di Planudea che la portò a
termine nel 1299. Comprende sette libri in cui compaiono
sostanzialmente gli stessi epigrammi della Palatina con la totale
esclusione di quelli a carattere erotico o amoroso. Per non far
notare il taglio il monaco collocò gli epigrammi in ordine
alfabetico. La Planudea ne comprende anche 388 che non si trovano
nella Palatina e che vanno a costituire l'Appendix Planudea
CRITICA
TORRACA - L’Antologia
Palatina prende nome dall’unico codice che ce l’abbia
trasmessa, il "Palatinus 23" di Heidelberg, scoperto
dall’umanista francese Claude de Saumaise nel 1607. Il codice fu
donato nel 1623 da Massimiliano di Baviera al Papa Gregorio XV. A
Roma fu diviso e rilegato in due parti separate. Nel 1797 fu dato
alla Francia in virtù del trattato di Tolentino e collocato nella
biblioteca reale di Parigi. Nel 1816, dopo la pace di Parigi, la
prima parte, contenente i ll. I-XII, tornò ad Heidelberg, dove
tuttora si trova; la seconda parte rimase a Parigi, dove è
conservata nella Biblioteca Nazionale come "Parisinus Suppl
gr. 384".
L’Antologia Palatina comprende
15 libri di epigrammi greci e bizantini. Ignoto è il compilatore.
In essa sono confluite raccolte più antiche di epigrammi.
I ll. IV-VII e IX-XII derivano
dall’antologia curata intorno al 900 da Costantino Cefala,
protopapa del palazzo imperiale sotto Leone il Saggio (886-911),
il quale ha utilizzato le raccolte epigrammatiche di Meleagro di
Gàdara e di Filippo di Tessalonica, il florilègio di Diogeniano
di Eraclèa, i carmi di Strabone di Sardi, di Rufino, di Pallada,
un’edizione di Teocrito, un’altra di Leonida ed un’antologia,
più recente, di Agatia Scolastico. L’anonimo redattore dell’Antologia
Palatina ha preso da quest’ultimo il principio dell’ordinamento
degli epigrammi secondo il contenuto ed ha allargato l’antologia
di Cefala includendovi i ll. I-III, VIII, XIII-XV.
L’Antologia Palatina contiene
epigrammi di poeti di tutte le epoche, dall’età classica all’età
bizantina (Alceo, Antipatro di Sidone, Antipatro di Tessalonica,
Anite, Asclepiade, Callimaco, Crinagora, Filippo, Filodemo,
Leonida, Meleagro, Pallada, Paolo Silenziario, Simonide, Teocrito);
senza di essa la nostra conoscenza dell’epigramma greco sarebbe
ridotta a ben poco.
L’Antologia Planudea è una
seconda raccolta più breve, ordinata alfabeticamente, in 7 ll.,
portata a termine nel 1299 a Costantinopoli dal monaco Massimo
Planude, di cui abbiamo il manoscritto autografo nel "Marcianus
gr. 481". Egli escluse i carmi erotici ed utilizzò due
fonti: un’edizione abbreviata di Cefala, da cui attinse i 388
epigrammi non compresi nell’Antologia Palatina ed aggiunti come
XVI libro nelle edizioni moderne di quest’ultima raccolta, ed un
manoscritto gemello del "Palatino". Irrilevante la sua
importanza dopo la scoperta dell’Antologia Palatina.
ANITE
Originaria dell'Arcadia, la
terra sacra al dio Pan e tanto cara a pastori e poeti, Anite
acquisì dalla sua terra una profonda sensibilità, spiccatamente
bucolica, nei confronti della natura, che costituisce il motivo
dominante della sua poesia. Infatti, dei venti epigrammi che ci
sono pervenuti con la sua firma, quasi tutti descrivono paesaggi
naturali con fresca naturalezza. In Paesaggio sul mare ella
tratta un tema che verrà ripreso poi da Teocrito: quello della
fonte che sgorga acqua limpida e fresca; qui l'acqua è vista di
per sé, in Teocrito (che lega la natura all'uomo) verrà vista
come ristoro. Ne il pianto di Miro la poetessa rivolge la
propria sensibilità verso una bambina; l'attenzione per il mondo
dei bambini è una caratteristica tutta femminile. Ne Il canto
di Pan Anite esprime lo stesso concetto che sarà fatto
proprio da Virgilio nelle Bucoliche: la musica modulata come svago
e passatempo che rinfranca un lavoro non troppo pesante. Il
Virgilio delle Bucoliche non è affatto attento alla realtà, ma
piuttosto è portato all'esaltazione della pax augustea, esaltazione
raggiunta grazie al poema epico, che permetteva al poeta di
utilizzare la propria fantasia; egli rifiutò di comporre un'opera
di carattere storico, e quindi di doversi attenere ai fatti, ma
compose un'opera di carattere epico con dei forzati agganci
storici.
NOSSIDE
Originaria della Magna Grecia,
Nosside esprime nella sua poesia un altro aspetto dell'animo
femminile: l'amore e la passione. Di lei ci restano solo 12
epigrammi, la maggior parte ritratti di donne sue amiche fatti con
mano delicata e leggera. Nell'epigramma La nuova Saffo, che
probabilmente costituisce una sorta di finto autoepitaffio della
sua opera, Nosside si paragona alla poetessa di Lesbo, peccando di
eccessiva superbia in quanto la sua poesia, sebbene dotata di una
sensibilità forte, non raggiunge l'unicità della poesia saffica.
ASCLEPIADE
Originario di Samo, visse
dedicandosi all'arte e alla poesia, senza però trascurare i
piaceri della vita. Fu il capostipite di una serie di poeti che
presero il nome di "scuola di Samo", ed ebbe come
successori Edilo e Posidippo, quello stesso che ebbe una disputa
con Callimaco. Il tema ricorrente della sua poesia è l'amore.
In Sfida a Zeus troviamo
una netta contrapposizione tra l'elemento naturalistico e quello
amoroso. La natura è descritta non solo dal punto di vista
esteriore, ma anche in funzione del tema dell'amore. Asclepiade
non usa la tecnica descrittiva tipica dei suoi predecessori (che
ricorrevano all'aggettivazione o alla sinestesia), ma ci presenta
la natura grazie a un susseguirsi di verbi: egli scende
nell'ambito della natura vivificandola. La natura di Asclepiade è
una natura che vive e .agisce: è una natura personalizzata. Nella
seconda parte del brano l'amore è sentito come qualcosa che
sconvolge l'animo.
In Post mortem nulla voluptas
troviamo un invito a godere di ogni piacere; ricorda
apparentemente il Carpe diem di Orazio, ma non bisogna
dimenticare che quello di Orazio non voleva essere un invito a
cogliere il piacere superficiale, ma una godere della felicità
per se stesso, evitando ogni rapporto, positivo o negativo, con
gli altri. Anche Mimnermo fece un invito simile a godere del
piacere, ma il suo era più specifico e circoscritto all'età
della gioventù; in Asclepiade non ci sono limiti cronologici.
In Veglia d'amore Asclepiade
manifesta il suo interesse specifico per gli astri (è un lampante
esempio di sfoggio di erudizione). Viene ripreso il tema del
paraclausiquron, già trovato in Callimaco.
In taedium vitae troviamo
il concetto della noia, che verrà abbondantemente trattato da
Lucrezio nel De Rerum Natura, presentandola come uno dei
tanti sentimenti che travagliano l'uomo. Anche Leopardi tratterà
diffusamente il tema della noia, definendola nello Zibaldone
"il più nobile dei sentimenti umani" perché il più
sincero. Possiamo in qualche modo ricollegarla anche all'accidia
di Petrarca, che era sempre combattuto da due desideri, il lauro e
l'amore, senza mai riuscire a soddisfarli entrambi allo stesso
momento.
Bevi e dimentica
riprende
l'antico concetto del bere comune ad Archiloco e ad Alceo.
"Tra non molto la nostra lunga notte dormiremo" è un
espressione che verrà ripresa da Catullo con lo stesso valore:
godere dell'amore e del piacere del vino che ci permette di
dimenticare. La descrizione di Eros riprende i canoni classici ed
è uno sfoggio di erudizione.
Didima
è la donna amata, per la quale Asclepiade si consuma. Il poeta
ricorre per descrivere la sua passione a un paragone, tecnica
molto usata dai poeti di tutti i tempi per precisare meglio i
concetti; lo troviamo usato fin da Omero, il quale però usava il
paragone solo per definire precise caratteristiche, mentre
Asclepiade lo usa in se per sé. Della donna amata sono stati
evidenziati i capelli bruni, rispecchiando il gusto, tipicamente
ellenistico, dello scendere nel particolare. Pochi tratti
descrivono i particolari; anche Ovidio, teorico dell'amore, con
poche parole dipingerà tutte le sue innamorate.
In Funere mersit acerbo troviamo
la vecchiaia concepita in ottica soloniana.
LEONIDA
Poeta originario della Magna
Grecia, condusse un'esistenza povera, vagabondando presso tutte le
corti del Mediterraneo. Nei suoi epigrammi sono quasi del tutto
assenti i temi dell'amore e del piacere, sostituiti da ritratti
della sua povera esistenza e della miseria altrui; motivo per cui
è stato considerato il primo poeta degli umili. Sostanzialmente
non ha ideali e si limita a esprimere la sua realtà di poeta
povero e errante; i suoi epigrammi sono un po' più lunghi della
media proprio perché evidenziano la sua esperienza personale.
Il poeta e i topi
è
un epigramma autobiografico in cui Leonida ci presenta con vivo
realismo una situazione quotidiana: l'estrema povertà della sua
madia, nella quale nemmeno i topi troveranno da mangiare. Per la
prima volta troviamo un quadro di introspezione psicologica
applicato al tema della povertà, che viene evidenziata mediante
cose semplicissime. L'elemento naturalistico è costituito dai
topi, già trattati nella Batracomiomachia dell’Omero
minore e ripresi da Orazio nella favola il topo di campagna e
il topo di città
Le offerte ad Artemide che
Leonida presenta sono le più semplici e umili che esistano;
un'unta focaccia, delle olive e un fico colto da un ramo. La
descrizione è precisa fino all'estremo e si scende nel
particolare, come ad esempio riguardo alla focaccia unta (già
trovata in Archiloco, che la presentava come il cibo più semplice
delle persone povere, e nel moretur dell'appendix
virgiliana, in coi un'ostessa enumera le prelibatezze che metteva
in vendita, tra cui la focaccia) al fico, di provenienza africana,
di cui si servirà Catone come esempio per dimostrare quanto
Cartagine sia pericolosamente vicina a Roma.
In E' arrivata primavera troviamo
una descrizione apparentemente oggettiva, in realtà finalizzata
alla praticità: il quotidiano viene unito alla semplice
descrizione della natura, testimonianza del legame alla vita reale
tipico dell'arte di Leonida.
L’ESCLUSA
Nel 1896 Grenfell pubblicò un
breve brano trovato su un papiro del II secolo, battezzato Fragmentum
Grenfellianum o L’esclusa. Il brano, dotato di una
profonda sensibilità psicologica, sembra ricollegarsi alla
tradizione mimica, in quanto viene recitato da una donna,
presumibilmente sola sul palcoscenico, che canta il suo profondo
lamento per essere stata abbandonata, forse dopo una lite, dall’uomo
che amava.
ANTIPATRO
Di Antipatro abbiamo un unico
epigramma veramente notevole: Sulle rovine di Corinto. È
una mistione perfetta tra un elemento freddo (la descrizione delle
rovine della potente città) e l’afflato sentimentale, che
richiama la poesia dei primi lirici. E’ la prima volta nella
letteratura greca che il soggetto di una poesia è costituito dal
lamento sulle rovine della città scomparsa, un tema che in
seguito eserciterà un certo fascino nei poeti di tutti i tempi.
MELEAGRO
Nacque a Gadara verso il 130
a.C. e visse poi a Tiro ed infine in vecchiaia si recò a Cos,
dove mori intorno al 60. Divise la sua vita tra gli amori e gli
studi; la sua opera principale è costituita dalla Corona,
la prima grande antologia epigrammatica.
Sit tibi terra levis
è un delicato epitaffio per sensazioni e sentimenti, in occasione
della morte del piccolo Esigene.
In Alla cicala il poeta
invoca la cicala, "ubriaca di rugiada" a cantargli un
canto agreste affinché possa dimenticare gli affanni d’amore.
Insolita questa commistione tra la cicala, l’unico animale che
canta a mezzogiorno, e l’elemento amoroso. La parte conclusiva
richiama Teocrito.
In Al grillo troviamo una
delicata sensibilità verso gli animali, unita allo scendere nel
particolare tipico dell’ellenismo.
In Amore e saggezza troviamo
l’amore cantato con toni leggeri e scherzosi, già trovato in
Archiloco e Orazio.
Bevi e dimentica
e Brindisi triste presentano gli stessi concetti tanto cari
ad Archiloco e Alceo.
Odi et amo
presenta un immediato richiamo a Catullo, che distingueva l’amare
(passionale) dal bene velle (razionale).
Il migliore epigramma di
Meleagro è però In morte di Eliodora, la donna tanto
amata dal poeta. Il suo profondo sentimento è accostabile a
quello di Properzio per Cinzia. La costruzione architettonica del
verso è molto curata e risulta poeticissimo il rapporto madre-
terra nella quale Eliodora è sepolta.
L 'ELEGIA
Accanto all'epigramma, fu il
genere letterario più coltivato dai poeti ellenistici. Pur avendo
in comune con l'epigramma il metro (distico elegiaco); l'elegia
presenta significative differenze con quest'ultimo; è un
componimento di maggior lunghezza, e per questo non raggiunge
subito l'acme della poesia e non sempre riesce a mantenerlo fino
al termine; l'individualismo è meno accentuato e spesso il
protagonista non coincide con il poeta, ma è un personaggio
mitico, i cui sentimenti rispecchiano quelli dell'autore. Il tema
più trattato fu quello amoroso, ma spesso l'amore del mito si
sostituiva all'amore del poeta; si sviluppò anche un particolare
tipo di elegia, detta elegia etiologica, che è dedicata a
spiegare l'origine di una festa o di un nome e ha la sua massima
espressione negli Aitia di Callimaco.
FILITA
Filita fu il padre della nuova
elegia ed uno degli iniziatori della poesia ellenistica. Nacque a
Cos verso il 340 e dimorò per qualche tempo ad Alessandria, dove
fu educatore del futuro sovrano Tolomeo Filadelfo. Trascorse gli
ultimi anni della sua vita nell’isola natale, che anche per
merito suo diventò un importante centro culturale. Morì intorno
al 280.
Filita riunì nella sua persona
le doti dell’erudito e dell’artista, creando un’arte dotta e
raffinata: egli è come l’ontano sul monte che scure di
boscaiolo non reciderà ("io conosco l’ornamento delle
parole e con molte fatiche ho appreso la via di ogni canto").
Purtroppo la sua produzione, tranne scarsissimi frammenti dei
Pagnia (poesie leggere) e degli epigrammi, è andata perduta:
sappiamo che scrisse una raccolta di parole rare, le Glosse
sparse, e diverse elegie dedicate all’amata Bittide. La
bellezza dei frammenti e i numerosi elogi che gli sono stati fatti
(da Callimaco, Teocrito, Properzio…) ci fanno ritenere la
perdita dell’opera di Filita una delle più gravi della
letteratura greca.
CRITICA
TARDITI - Passò la vita
nello studio e nell’attenta stesura di brevi opere di poesia. La
tradizione vuole che abbia consumato nell’intenso lavoro
intellettuale la sua malferma salute: una battuta scherzosa diceva
che era così magro che doveva appesantire con del piombo i
calzari per non essere portato via dal vento. Fu filologo nello
stretto senso di studioso della parola: ricercò il significato di
termini e di vocaboli rari e compose una "Miscellanea"
di glosse. Come poeta pubblicò alcuni poemetti: nell’"Ermete",
in esametri, veniva raccontata, non sappiamo in che rapporto con
il dio, la storia di Odisseo ospite di Eolo. Era un frammento di
un antico mito già accolto da Omero (Odissea X, 1-79), ma Fileta
lo rinnova intessendovi la vicenda di Polimela, la figlia del re
dei venti, innamorata dell’eroe. Callimaco apprezzava molto la
"Demetra", un poemetto in distici elegiaci di cui ci
sono rimasti alcuni versi, insufficienti, però, a formulare
qualsiasi ipotesi sul suo contenuto. Fileta viene anche ricordato
come il cantore di Bìttide, ma non sappiamo come abbia svolto il
suo canto: può darsi che il nome della donna abbia semplicemente
suggerito il titolo ad una raccolta di elegie in cui erano svolti
miti di amore.
ERMENESIATTE
Nato verso il 300 a Colofone,
sulla scia dei cuoi compatrioti Mimnermo e Antimaco compose un
poema elegiaco, intitolato Leonzio, dal nome della donna
amata. Di quest’opera conserviamo un lungo brano del terzo
libro, che raccoglie uno strano elenco di poeti e filosofi
tormentati dalla passione d’amore. Da questo arido elenco è
impossibile farsi un’idea dell’arte di Ermenesiatte.
FANOCLE
Poco più giovane di
Ermenesiatte, scrisse un’opera intitolata gli Amori o i belli,
una raccolta di amori efebici (tra un uomo maturo e un
adolescente) tratti generalmente dal mito. A noi è pervenuto
quello di Orfeo, innamorato del giovane Calai ed ucciso per
gelosia dalla donne di Tracia: la sua testa fu gettata nel mare
inchiodata alla cetra, e venne trasportata dalle onde sulla
spiaggia di Lesbo, a rendere feconda di canti la terra di Saffo e
Alceo. Il brano si chiude con un aition: il tatuaggio delle donne
tracie ricorda le lividure che i mariti inflissero loro per
punirle dell’uccisione di Orfeo.
CRITICA
CANTARELLA - Delle
opere poetiche (avrebbe scritto, in prosa, anche una dubbia
"Storia di Persia") il solo titolo sicuro è quello di
una "raccolta di elegie" in tre libri, intitolato a
Leontio, la donna da lui amata: Atenèo ce ne ha conservato un
lungo brano (vv. 98) del terzo libro, che è, si può dire, tutto
quello che di lui abbiamo. Il poeta immagina di raccontare storie
di infelici amori pastorali alla sua Leontio, che spesso
direttamente interpella: e non è improbabile che questo gli
offrisse il modo di raccontare anche i propri affanni d’amore.
Oltre l’erudizione (di qualità piuttosto scadente, invero),
tipicamente alessandrino (e della poesia alessandrina importante
anticipatore è considerato Antìmaco di Colofòne, vissuto nella
prima metà del sec. IV a.C. ed autore di una "Tebaide",
un poema epico, e di una "Lide", in metro elegiaco) sono
la predilezione per Esiodo, l’esaltazione di Antìmaco, i cui
libri sono "sacri", l’elogio di Filòsseno, "che
le Muse nutrirono", e del maestro Fileta.
ERODA
Riprese il genere del mimo, ma
in maniera diversa da Teocrito, adattandolo maggiormente alla
realtà del quotidiano; non ebbe la genialità poetica del padre
della poesia bucolica, ma ci ha lasciato ugualmente ritratti
vivissimi e non convenzionali di alcuni popolani del III secolo a.
C..
Fino alla fine del secolo
scorso, quando furono ritrovati in un papiro egizio otto dei suoi
mimi, non sapevamo praticamente nulla di Eroda. Grazie al
ritrovamento possiamo collocare il poeta nel III a.C. e ipotizzare
che sia vissuto in una delle isole del mediterraneo, Cos o la
Sicilia. Gli otto mimi, l'ultimo dei quali lacunoso, presentano
una particolare attenzione per il mondo borghese, per le
descrizioni minuziose e particolareggiate, per il quotidiano e per
il realismo delle situazioni; tutte caratteristiche tipiche per
periodo ellenistico. Contrariamente ai mimi di Teocrito (che erano
in distici elegiaci, il metro nobile per eccellenza), i mimi di
Eroda sono dei mimiambi, cioè mimi in giambi, o più esattamente
in coliambi, il metro di Ipponatte. E di Ipponatte, oltre al
metro, Eroda adotta anche la lingua che presenta un forte colore
ionico e un certo crudo verismo che si manifesta per la
predilezione di ambienti e caratteri comuni.
Nel Mimo I (la mezzana) assistiamo
al tentativo di una vecchia mezzana di convincere una giovane
sposa il cui marito è in viaggio da mesi a lasciarsi andare alle avance
di un giovane atleta. La mezzana incarna la saggezza popolare,
slegata da qualsiasi morale, mentre la giovane difende la fedeltà
del proprio sentimento, considerando tra l'altro che la bianchezza
dei capelli rende ottusa la mente.
Nel Mimo III (il maestro di
scuola) sono descritte le imprese di Cottalo, un ragazzino
svogliato e monello che non vuole saperne di studiare. La madre,
esasperata, decide di ricorrere ad un maestro privato, che però
fallisce anche lui nell'intento.
Nel Mimo VII (il calzolaio) è
descritta l'abilità di un bravo calzolaio a vendere le
proprie calzature a nuove clienti al prezzo stabilito da lui,
grazie anche all'aiuto di una sua vecchia cliente.
Il Mimo VIII (il sogno)
ci è giunto gravemente mutilo; lo sviluppo della trama è
molto particolare, in quanto esula dalla quotidianità e ci
presenta un sogno con significato allegorico riguardante gli
elementi della letteratura.
Riguardo ad Eroda sono stati
molto discussi due problemi. Il primo riguarda il fatto se egli
meriti il nome di poeta o se i suoi personaggi siano dei semplici
tipi fissi; studiando attentamente la mezzana, il suo personaggio
più riuscito, possiamo rilevare la sua abilità poetica,
esistente ma certamente inferiore a quella di Teocrito. Il secondo
problema riguarda il realismo in Eroda, ed è un problema che
riguarda l'intera letteratura greco-romana: la rappresentazione
del popolo e del quotidiano è veramente realistica? Non lo è nel
senso moderno del termine, perché gli antichi riservavano lo
stile sublime alla rappresentazione del mondo aristocratico e
consideravano tutto ciò che è ordinario e quotidiano (insomma il
mondo degli umili) solo come materia da rappresentare comicamente,
senza un reale approfondimento. E questo limite è stato superato
dalla letteratura moderna, che ha trattato ogni personaggio,
nobile o umile che sia, con il differente taglio di
approfondimento problematico scelto dallo scrittore.
CRITICA
CANFORA - Anche i mimiambi di
Eroda, o Eronda, anch’essi dialogati e passibili di recitazione,
hanno di mira ambienti più o meno sordidi, della piccola e
piccolissima borgesia della metropoli. Sia per Teocrito che per
Eroda i mimi di Sofrone (sec. V a.C.), tanto ammirati da Platone,
hanno costituito un modello significativo. In particolare un tema
affrontato da Teocrito nel 2° idillio, imitato da Virgilio nell’ecloga
VIII ("L’incantatrice"), dove una donna cerca di
riconquistare l’amante per mezzo di complicate pratiche magiche,
era il tema delle "Incantatrici" di Sofrone. E’
superfluo ripetere che Eroda, Teocrito ed i loro imitatori latini,
parlano di questi temi "realistici" in linguaggio
ricercato ed in forme letterarie elaborate praticamente
incomprensibili ad un vasto pubblico "popolare". Ma ciò
non toglie che i loro componimenti giovino alla conoscenza di
realtà escluse dalla poesia aulica o mitologica, tanto quanto la
coeva commedia per quel che riguarda la vita privata nell’Atene
di IV e III secolo.
LA POESIA
Callimaco, Apollonio Rodio e
Teocrito furono senza dubbio i maggiori poeti dell’età
ellenistica. Tuttavia, meritano considerazione altri poeti, che si
distinsero nel genere didascalico (Arato) e in quello bucolico
(Mosco e Bione).
ARATO
E’ il maggior rappresentate
della poesia scientifica e didascalica, che aveva come oggetto
nozioni di agricoltura, di astronomia, di scienze naturali o di
medicina e le metteva in versi. Arato nacque a Soli in Cilicia e
visse all’incirca nella prima metà del III secolo; dopo aver
completato la sua formazione ad Atene, si recò a Pella in
Macedonia, e qui divenne quasi il poeta ufficiale. L’unica sua
opera pervenutaci sono i Fenomeni, un lungo poema
astronomico (1154 esametri), suddiviso in due parti: la prima
tratta delle stelle, dei pianeti e delle costellazioni (ad essa si
addice precisamente il titolo di fainomena), la seconda descrive i
segni che ci dà la natura per prevedere le variazioni del tempo
(detta Pronostici). Nel proemio il poeta fa professione di
fede stoica e celebra Zeus, che regge e governa l’universo,
riprendendo l’Inno a Zeus di Cleante.
I Fenomeni sono in
effetti la versificazione di uno scritto astronomico, lo Specchio
di Eudosso. Arato cerca di coniugare l’interesse per la scienza
con quello per la poesia, ma riesce solo in alcuni brani a dar
vita ad una vera creazione poetica. Siamo ben lontani dall’afflato
di Lucrezio. Per il resto, l’opera abbonda di arida erudizione e
di mera abilità formale. Nonostante ciò, ebbe l’onore di ben
quattro traduzioni latine: Varrone Atacino, Cicerone, Germanico,
Avieno.
CRITICA
BALLOTTO - Nato a Soli nel
320 a.C., fu scolaro ad Atene dello stoico Perseo, col quale
passò poi a Pella nel 276, alla corte di Antìgono Gonàta, dove
pare abbia composto il suo capolavoro: i "Fenomeni".
Forse fu anche alla corte di Antìoco I di Siria, dove curò un’edizione
dell’"Odissea". Morì in Macedonia nel 239. Si
dilettò anche di inni; inoltre compose alcuni epicèdi, elegie,
epigrammi, e poesie varie dal titolo "Katà lèpton"
("Carmi spiccioli").
I "Fenomeni" sono
costituiti di 1.154 esametri ma, per quanto trattino di
astronomia, Arato non fa opera di astronomo. L’opera può
dividersi in due parti: la prima (vv. 1-732) tratta dei fenomeni
od apparizioni celesti, e si apre con un inno di lode a Zeus,
presentato come divinità universale degli stoici; la seconda
parte (vv. 733-1154) è relativa ai segni premonitori del tempo.
Sue fonti furono Egesianàtte, Ermìppo e Teofràsto (specie per
la seconda parte dei "Fenomeni"). Altri avevano scritto
sul medesimo argomento, ma Arato li superò oscurandoli tutti,
grazie al suo stile, alla facilità ed alla scorrevolezza dei suoi
esametri. Molti, fra gli antichi, lodarono la sua opera e ne
diedero traduzioni (Cicerone, Varrone Atacino, Germanico, Avieno).
In un manoscritto si parla di ventisette commentatori.
MOSCO
Nacque a Siracusa e visse nel II
secolo. Sotto il suo nome ci sono giunti tre idilli d’impostazione
teocritea, tre carmi bucolici e un epigramma.
L’Eros fuggitivo è un
idillio che rientra pienamente nei canoni dell’ellenismo;
descrive il lamento di Eros, il dio bambino che scocca la freccia
e scappa via. C’è quasi un gusto per la pittura
espressionistica.
Mare e Campagna
è
uno dei carmi bucolici e descrive il fascino del mare quando c’è
bonaccia, e il richiamo della campagna, quando invece si scatena
la burrasca. C’è lo scendere nel particolare tipico dell’ellenismo.
BIONE
Nacque presso Smirne e visse a
cavallo del I secolo. Di lui conserviamo 17 frammenti bucolici e l’Epitaffio
di Adone.
l’Epitaffio di Adone è
un canto in onore del dio di origine semitica. Narrava il mito che
il bellissimo Adone era teneramente amato da Afrodite, ma durante
una cacci fu ucciso da un cinghiale e la dea aveva
appassionatamente pianto la sua morte. Bione usa la tecnica del
verso che si ripete ogni tanto (già riscontrata nel Tirsi di
Teocrito). Il canto è baroccheggiante, con alcuni versi
eccessivamente adorni, e c’è il gusto per la contrapposizione.
Ritornano i piedi nudi, simbolo di attrazione sessuale nell’ellenismo.
FILOLOGIA
Nell’ellenismo nacque una
nuova disciplina, la filologia, che rientra nel campo dell’indagine
scientifica ed esatta. Il suo oggetto è lo studio dei grandi
autori del passato (ad esempio, Omero), finalizzato al recupero,
alla ricostruzione e alla comprensione del testo originale. All’Iliade
e all’Odissea vennero in questo periodo attribuite l’attuale
scansione in libri e la successione cronologica (Iliade in
lettere maiuscole, Odissea in lettere minuscole); inoltre,
si affrontarono numerosi problemi di autenticità, si diedero le
prime edizioni critiche e le prime interpretazioni dei punti più
difficili. Risale a questo periodo il primo dibattito sulla
questione dell’unità o meno dei due poemi omerici, e si vennero
a creare i due filoni dei korizonteV (separatisti) e dei
neounitari (il cui campione fu Aristarco)
I centri principali per lo
studio dei testi antichi furono Alessandria e Pergamo. Alessandria
si specializzò nella critica testuale, occupandosi di organizzare
le varie lectiones dei testi più importanti; ad
Alessandria si svolse il dibattito sulla questione omerica, con
tutte le conseguenze sopra elencate. A Pergamo si sviluppò
prevalentemente il commento dei contenuti, che inizialmente
vennero interpretati alla luce dello stoicismo in un’ottica
allegorica e moraleggiante. Via via la scuola di Pergamo moderò i
suoi eccessi, andando a costituire la prima scuola di critica
letteraria in senso moderno. Ad Alessandria si affermò
prevalentemente l’analogia, mentre a Pergamo l’anomalia.
SCIENZA
Nell’ellenismo si assiste al
fenomeno delle specializzazione, che riguardò anche l’ambito
scientifico; tranne la notevole eccezione di Eratostene, il più
grande enciclopedico del tempo, i dotti si specializzavano in
precisi settori: matematica (Euclide e Archimede), astronomia
(Aristarco e Ipparco), medicina (Erofilo ed Erasistrato),
meccanica (Ctesibio e Erone).
E’ significativo notare come
un così grande sviluppo scientifico non sia stato accompagnato da
un altrettanto grande sviluppo della tecnica, esattamente l’opposto
di quanto avverrà poi a Roma. La cause sono da ricercare in parte
nell’impostazione della filosofia platonica, che metteva al
primo posto il sapere e all’ultimo il fare, e in parte nella
grande abbondanze di manodopera a basso costo fornita dagli
schiavi, che non incoraggiava lo sviluppo di macchine che
sostituissero il lavoro dell’uomo.
Eratostene di Cirene (che
rivestì anche l’incarico di direttore della Biblioteca) fu il
fondatore della geografia moderna: disegnò con sufficiente
esattezza una carta geografica, tracciandovi meridiani e
paralleli, misurò la lunghezza del meridiano terrestre con un’approssimazione
che ha del prodigioso (40050 km. o, secondo altri, 46000 circa,
rispetto ai 40003 calcolati dalla scienza moderna); distinse sulla
superficie della terra le cinque zone astronomiche che sono
rimaste fondamentali; ci diede infine nel primo libro della Geografia,
la sua opera più importante, una prima storia della scienza
geografica, da Omero ai suoi tempi.
Euclide fu il padre della
scienza geometrica. Gli Elementi, in 13 libri, sono un’organica
sistemazione dell’intera geometria sulla base del metodo
ipotetico-deduttivo; per 22 secoli gli Elementi sono stati
il testo fondamentale per l’apprendimento della geometria e solo
ai giorni nostri si è giunti a concepire una geometria non
euclidea.
Archimede di Siracusa fu non
solo un grande matematico, ma anche un geniale ingegnere. Inventò
numerose macchine, tra cui sono rimaste famose quelle da guerra,
usate per la difesa della città contro il console romano
Marcello. Tra le sue opere fondamentali ci rimangono uno scritto
sulle sezioni coniche, Dei conoidi e sferoidi, e uno
indirizzato ad Eratostene, Sul metodo, in cui l’autore
precorre il moderno calcolo infinitesimale. Normalmente Archimede
scrive in dialetto dorico; solo quest’ultima opera è scritta
usando la koinh.
Aristarco di Samo fu il primo a
superare la teoria delle sfere concentriche, intuendo il sistema
eliocentrico in quella forma che dopo oltre 17 secoli doveva
essere ripresa da Niccolò Copernico. Ci resta il suo scritto: Sulla
grandezza e la distanza del sole e della luna.
Ipparco rifiutò la teoria di
Aristarco e preferì seguire l’eliocentrismo tradizionale.
Compì numero scoperte astronomiche, più grande di tutte fu
quella della precessione degli equinozi. Di lui conserviamo il
commento ai Fenomeni di Arato.
Erofilo ed Erasistrato furono
tra i primi ad eseguire la dissezione dei cadaveri, pratica
ufficialmente proibita dalla tradizione greca.
Ctesibio ed Erone vissero
entrambi ad Alessandria e furono tra i primi a costruire
apparecchi meccanici; il primo si perfezionò nella costruzione di
macchine idrauliche, il secondo si specializzò nella costruzione
di giocattoli automatici.
PERIODO GRECO-ROMANO
LA RETORICA
Nel I e nel Il secolo d.C. la
retorica assume una grandissima importanza e un notevole
prestigio, andando a identificarsi con la cultura stessa. Il suo
significato verrà molto approfondito, ma sarà accompagnato
parallelamente da un impoverimento dei contenuti; l'interesse per
la retorica sarà soltanto a livello formale. Il mondo greco
lascerà la sua eredità in questo campo al mondo latino, il quale
a sua volta lo trasmetterà alla letteratura apologetica (detta
anche patristica dal nome degli artefici, "i padri
della chiesa").
Il dibattito in campo stilistico
fa sì che comincino a delinearsi due movimenti distinti, l'asianesimo
e l'atticismo. L'asianesimo nacque all'inizio dell'ellenismo (III
a.C.) per opera di Egesia di Magnesia in Africa, prendendo come
modello lo stile di Lisia (denso, schematico, non indulgente a
costruzioni artificiose). Nei due secoli successivi si venne a
creare un ribaltamento totale all'interno dell'asianesimo (anche
per il fatto che fu adottato in prevalenza dai retori dell'Asia
Minore, che introdussero nel dialetto attico termini ionici): si
venne a creare uno stile ricercato, pieno di ornamenti retorici,
ampolloso, "bombastico". Noi intendiamo per asianesimo
questo stile. Contemporaneamente (I a.C.) si venne a creare una
nuova corrente di retorica basata su Lisia, ossia sulla
stringatezza della frase e sull'essenzialità del costrutto.
Questa corrente di retorica è detta atticismo. Per assurdo, l'atticismo
nacque a Roma, capitale della ricerca di un nuovo indirizzo
letterario, e si diffuse subito nel mondo greco. Ci fu una reale
contrapposizione tra i due stili. Lo stile di Cicerone è lo stile
rodiese, a metà strada tra i due a livello di costruzione, ma non
a livello cronologico. Lo stile rodiese nacque nel II a.C. per
mitigare gli eccessi dell'asianesimo prima maniera, quando l'atticismo
non era ancora nato.
La retorica antica non si
limitava a porre la propria attenzione sulla scelta del termine
(come avveniva con i Sofisti), ma aveva come oggetto di studio
anche la costruzione migliore per il periodo. Nel I secolo a.C. si
precisano a questo riguardo due posizioni opposte: la prima fece
capo al retore Apollodoro di Pergamo, la seconda a Teodoro di
Gadara, vissuto nella generazione successiva. Apollodoro
concepisce la retorica come un scienza fissa, dotata di canoni ben
precisi (a questa concezione ha aderito anche Cicerone, e anche in
Lisia avveniva una divisione tra le varie parti dell'orazione
apologetica). Ogni logos deve essere suddiviso in quattro parti,
ma solo alla prima (prologo) e all'ultima (epilogo) è riservato
l'elemento patetico, la capacità di suscitare nel lettore un
particolare sentimento. La parti centrali consistono nella
descrizione del fatto e nell'esposizione del ragionamento
dell'oratore (non c’è una schematizzazione ben precisa).
Teodoro concepisce la retorica come un'arte, una capacità insita
nell'uomo, il quale può comporre la propria opera a seconda del
proprio modo di vedere. il paqoV può esserci in qualsiasi parte
dell'orazione, cosi come l'esposizione può riguardare anche il
prologo o l'epilogo. La ricerca del paqoV è spiegabile
nell'ellenismo con il fatto che è la forma espressiva più
istintiva. Per paqoV si intende una partecipazione emotiva e
sentimentale, non circoscritta necessariamente al sentimento del
dolore (come avveniva nella tragedia, che mirava alla catarsi). I
teodorei fanno ampio ricorso alla fantasia, intesa come forza
irrazionale che possiede l'anima e che esce dai canoni del logos.
Nell'ellenismo fantasia non vuoi dire uscire dalla realtà e
proiettarsi in un mondo fantastico, ma semplicemente uscire dalla
realtà (non c'è il bisogno di costruire un qualcosa).
In estrema sintesi possiamo dire
che i retori seguirono principalmente due filoni ben distinti e
contrapposti tra loro: quello degli apollodorei\atticisti\analogisti\puristi
(orazione impostata secondo un rigido schema, stile stringato ed
esatto, rifiuto della lingua corrente, rifiuto di parole nuove e
di hapax) e quello dei teodorei\asiani\anomalisti\antipuristi.
ANONIMO DEL SUBLIME
Nel I a.C. Cecilio di Calatte,
fedele seguace di Apollodoro, scrisse un opera dal titolo peri
uyouV , a noi non pervenuta. Possiamo conoscere in parte il
contenuto di quest'opera grazie ad un altro trattato, intitolato
sempre peri uyouV, scritto da un seguace di Teodoro per
controbattere Cecilio, autore che tutt'oggi non siamo riusciti a
identificare.
Ci è pervenuto quasi integro un
trattato intitolato Sul sublime (peri uyouV) e
contiene un elenco di canoni grazie ai quali un'opera raggiunge
l'acme della perfezione. E' stato scritto da un seguace di Teodoro
intorno alla metà del I secolo d.C. che, per l'impossibilità di
identificarlo con certezza, chiamiamo Anonimo. Sono state fatte
due ipotesi di identificazione. La prima con Dionigi di
Alicarnasso, che visse alla corte di Augusto (l’autore del
Sublime ebbe sicuramente dei legami con la corte dell'imperatore)
ma che è stato un fedele assertore delle idee dell'atticismo,
mentre l'Anonimo è asiano. La seconda con Cassio Longino, asiano
e conforme alla idee dell'Anonimo, ma vissuto due secoli dopo la
data probabile di composizione del Sublime.
L'Anonimo afferma che le fonti
da cui scaturisce il Sublime sono cinque, delle quali tre (poggia
delle figure retoriche, nobiltà dell'espressione, collocazione
delle parole) si possono acquisire con l'esercizio e l'arte
retorica, mentre le altre due (elevatezza del pensiero,
passionalità) devono essere per forza innate. L'Anonimo tende a
scendere sempre di più nel particolare, secondo un uso
tipicamente ellenistico, e a fondere elementi degli apollodorei
nella concezione teodorea.
Il Sublime è anche un'opera
di critica letteraria, e contiene un'infinità di giudizi critici
sui più disparati autori dell'antichità. Infine, nell'ultimo
capitolo, viene affrontato il problema della decadenza
dell'oratoria, che l'Anonimo attribuisce alla mancanza di libertà
dovuta alla situazione politica della Grecia del tempo e
soprattutto alla schiavitù delle passioni e alla conseguente
corruzione morale.
AUTORE |
INFLUSSI SU… |
Alessandrinismo |
Plinio il G.: il suo
epistolario, privo della continuità del racconto che caratterizza
l'"Epistolario" di Cicerone, è più vicino all'epigramma
per il continuo sforzo da parte dell'autore di circoscrivere
l'argomento, in cui si coglie chiaramente l'affermazione del gusto
alessandrino |
Alessandrinismo |
Gallo: si serve nelle sue
elegie (perdute) di mitologia ed eziologia, ma non trascura elementi
soggettivi ed autobiografici |
Anite |
Catullo: nel c. 3 (sulla
morte del passero di Lesbia) si ispira ad un c. di A. per un grillo
pianto da una fanciulla |
Ant. Palatina |
Catullo: l'ultima parte del
"Liber" va riconnessa con gli "erotikà", cioè
con gli epigrammi inclusi nel l. 5° dell'A.P. |
Apollonio R. |
Varrone Atacìno: traduce
le sue "Argonautiche" |
Apollonio R. |
Virgilio:
l'"Eneide" presuppone l'opera di A., ma Giasone e Medea
sono solo le brutte copie di Enea e Didone |
Apollonio R. |
Valerio Flacco: scrive le
"Argonautiche", un poema che si ferma al v. 467 del l. 8°
(dei ll. 12 previsti) |
Arato |
Viene tradotto da Cicerone
(gli "Aratèa", in versione poetica), Varrone Atacino
("Ephèmeris", ci restano solo due frammenti) e, nel sec.
IV, da Avieno che opera una paràfrasi degli "Aratèa"
servendosi di versioni precedenti latine |
Arato |
Virgilio: in
"Georgiche" (I, 351-463), parte dedicata ai segni del
tempo, imita i "Prognòstici" di A. |
Arato |
Ovidio: attua una
rielaborazione (andata perduta) dei "Phaenòmena" di A. |
Arato |
Manilio: in alcune parti
(l. 1° e l. 5°) dei suoi "Astronòmica" in ll. 5 si
ispira al testo di A. |
Arato |
Germanico: attua una
versione poetica dell'opera di A., gli "Aratèa", mentre
si rifà liberamente allo stesso modello nei "Prognòstica" |
Callimaco |
Poetae novi: vogliono
rompere i ponti con la tradizione, preferendo all'epos di tipo
omerico il componimento breve (E. Cinna compose l'epìllio "Zmyrna",
Lic. Calvo "Io") |
Callimaco |
Catullo: nei "carmina
docta" soprattutto dà prova di una fedeltà più rigida ai
dettami di C.; il c. 95 è il manifesto del callimachismo (brevità,
raffinatezza, dottrina) di Catullo; il c. 66 è la traduzione della
"Chioma di Berenìce" di C.; il c. 64 è un epìllio (come
l'"Ecale"); il c. 67 è tipicamente alessandrino per gli
spunti satirici e licenziosi |
Callimaco |
Appendix Vergiliana: "Ciris"
e "Culex" sono epìlli |
Callimaco |
Virgilio: nell'ecl. VI (vv.
1-5) si richiama alla poetica di C., allorchè dice di non voler
trattare la grande epopea, ma di limitarsi alla delicata arte delle
poesie brevi; nelle "Georgiche" la favola di Orfeo ed
Euridice si innesta sulla tradizione alessandrina sia per il
carattere erotico-eziologico, sia perchè incastonata in un altro
mito, quello del pastore Aristeo |
Callimaco |
Orazio: gli epodi 11, 14 e
15 si collocano fra la poesia alessandrineggiante più leggera di O.
per la derivazione (comune anche a Tibullo e Properzio) di motivi
dalla poesia d'amore neoterica ed ellenistica |
Callimaco |
Tibullo: pur essendo il
più "trasparente e terso", il più immune da durezze di
erudizione, è nutrito di letture in prevalenza callimachee;
scarsissima in lui è la sopravvivenza del mito |
Callimaco |
Properzio: nelle
"Elegie romane" del l. 4° (l'elegia di Tarpea, IV 4, si
può considerare un vero e proprio epìllio) canta le origini di
riti antichi poco conosciuti; il mito è frequentissimo, fino a
diventare caratteristico, nel poeta che proclama di essere il
Callimaco romano (IV, 1, 64), anche se in lui sono già ben chiari i
sintomi dell'ultimo scadimento del gusto della cultura
alessandrineggiante |
Callimaco |
Ovidio: nelle "Heròides"
frequenti sono gli incastri di gusto tipicamente alessandrino (come
in XIV l'episodio della trasformazione in vacca della ninfa Io),
nelle "Metamòrfosi" usa la stessa tecnica callimachea (la
favola di Filèmone e Bàuci, VIII 620-724, è simile all'"Ecale"
callimachea), nei "Fasti" la stessa struttura;
frequentissimo il mito |
Cecilio di Calatte |
Atticista |
Dionigi di Alicarn. |
Cesare: con il poeta
neotèrico G. Lic. Calvo aderisce all'atticismo (fautore di
semplicità, sobrietà, naturalezza), movimento anti-asiano a cui
appartiene D. (modello -> Demostene), ma anche Cecilio di Calatte
(modello -> Lisia) |
Epicuro |
Lucrezio: da Empèdocle
trae impulso per il "De rerum natura" in cui espone le
dottrine epicuree con grande fervore intellettuale e sensibilità
artistica |
Epicuro |
Orazio |
Epicuro |
Seneca: pur seguace dello
stoicismo, cità nei primi libri delle "Epistole a
Lucilio" numerose massime di E. per avviare l'amico Lucilio
allo studio della filosofia |
Epicuro |
Marx: lo considera il
filosofo per eccellenza |
Epitteto |
Gellio: ci tramanda alcuni
concetti di E. |
Epitteto |
Illuminismo: ha notevole
diffusione l'opera prima di E. |
Epitteto |
Leopardi: lo traduce |
Eroda |
Teocrito: "Le
Siracusane" nell'argomento sono simili a "Le donne che
sacrificano ad Ascelpio" di Eroda ed a "Le donne che
assistono alle gare istmiche" di Sòfrone (470-406) |
Euforione |
Poco stimato da Cicerone, i
suoi epìlli e le sue "Imprecazioni" sono riprese dalla
poesia romana |
Filodemo |
Sarà imitato da Catullo
(c. 13), da Orazio (Odi I, 20; Epistole I, 5) e da Marziale
(epigrammi erotici) |
Gius. Flavio |
S. Girolamo: lo considera
il Livio greco |
Meleagro |
Catullo: prende a modello
gli epigrammi erotici e sensuali di M. |
Meleagro |
Properzio: prende a modello
gli epigrammi erotici e sensuali di M. |
Menandro |
Plauto: le sue commedie
derivano da originali appartenenti anche a Filèmone e Dìfilo
(anch'essi della Commedia Nuova), ma sono modificate con grande
libertà dall'autore a favore della fantasia, del gioco, del
paradossale, dando ampio spazio anche alla musica |
Menandro |
Cecilio Stazio: lo
predilige come modello, è fedele agli originali nelle trame, ma
ricerca una comicità più corposa ed esplicita |
Menandro |
Terenzio: segue i modelli
fedelmente e si propone non solo di divertire il pubblico, ma anche
di educarlo e di elevarlo culturalmente e moralmente |
Mosco |
Con Bione continua il
genere bucolico dopo Teocrito, di certo influenzando la poesia
latina |
Nicandro |
Virgilio: nelle
"Georgiche" segue il suo alessandrinismo (Nicàndro
compose un'opera simile nel titolo a quella latina) |
Panezio |
Cicerone: rifà il trattato
"Sul conveniente" di P. (di cui sono perdute tutte le
opere) |
Partenio |
Gallo: amico di P., si
serve, per le sue elegie, dei suoi prontuari |
Peripatetici |
Cicerone: nel "Brutus"
(120) li considera, con gli Accademici, gli unici filosofi in grado
di parlare in modo piacevole |
Plutarco |
Tacito: ha in comune con
P., a lui contemporaneo, il rifiuto di fare della biografia uno
strumento di esaltazione dell'imperatore; ma, per alcuni studiosi,
T. emerge proprio per la sua trattazione biografica degli imperatori
(si notano affinità della rappresentazione di Galba ed Otone nelle
"Historiae" con le corrispondenti biografie di P.) |
Plutarco |
Tommaso Moro:
nell'"Utopia" si rifà ai "Moralia" |
Plutarco |
Shakespeare: per le sue
tragedie mostra di aver letto le "Vite" plutarchee |
Plutarco |
Corneille |
Plutarco |
Racine |
Plutarco |
Alfieri |
Posidonio |
Manilio: aderisce alla fede
stoica in un pneuma divino che compenetra tutto il cosmo e lega
insieme tutte le sue parti, stabilendo tra esse un rapporto di
interazione |
Romanzo |
Petronio: un genere a cui
il "Satyricòn" si ispira, sotto forma di parodia, è il
romanzo erotico d'avventura, di cui presenta i due filoni
fondamentali, quello dell'amore perseguitato da un dio, in questo
caso Prìapo, e quello dell'avventura, ma in esso confluiscono anche
spunti dell'elegia erotica e della storiografia ellenistica |
Romanzo |
Apuleio: nelle "Metamòrfosi"
si nota l'influenza, si, della Seconda Sofistica, ma soprattutto,
del romanzo erotico (evidente, per struttura e tecnica, nella storia
di Carite del l. 8°), mentre nel racconto di Amore e Psiche abbiamo
una sovrapposizione dei miti orientali a quelli ellenici ed
ellenistici |
Stoicismo |
Cicerone: nei primi ll. 2
del "De officiis" si rifà a "Sui doveri" di
Panezio, mentre nel "Brutus" (118) riconosce l'abilità
argomentativa e dialettica dello S., ma considera i suoi
rappresentanti incapaci di esprimersi in modo pregevole
stilisticamente |
Stoicismo |
Seneca: il suo teatro è
una serie di "prediche" filosofiche, un'esposizione di
precetti di morale stoica in forma drammatica |
Stoicismo |
Lucano: nella stesura del
lavoro le tradizioni repubblicane della sua casa e della Stoa
prendono il sopravvento e così Cesare diventa il grande peccatore
che ha distrutto la libertà di Roma, mentre Catone, incarnazione
della "virtus", risulta il vero eroe del poema |
Stoicismo |
Persio: derivano dalla
filosofia stoica (suo maestro fu Anneo Cornuto) soprattutto le
satire della "libertà interiore" |
Stoicismo |
Giovenale: spunti e motivi
delle sue satire appartengono alla predicazione stoico-cinica (III
sulla ricchezza male acquisita, X sui desideri di uomini ignoranti,
XII sui cacciatori di testamenti, XIII sul rimorso di coscienza e
XIV sull'importanza dell'educazione) |
Stoicismo |
Seneca |
Storiografi |
Sallustio: per la ricerca
psicologica, per la tendenza a porre singoli personaggi al centro
dell'attenzione, come era avvenuto per la figura di Alessandro |
Storiografi |
Velleio Patercolo:
soprattutto per l'interesse che mostra, limitatamente
all'impostazione generale dell'opera, nei riguardi delle forti
personalità |
Storiografi |
Valerio Massimo: ha in
comune con essi non solo la tendenza a mettere in rilievo il fatto
straordinario per fini morali, ma anche le implicazioni retoriche
che la contraddistinguono |
Storiografi |
Curzio Rufo: si inserisce
nel filone del romanzo d'avventura, che nelle imprese d'Alessandro
trovò uno dei suoi temi preferiti (Bardon) |
Storiografi |
Ammiano Marcellino:
eredità ellenistiche sono in lui la tendenza al moralismo, la
ricerca dell'effetto, l'enunciazione di massime morali, le
digressioni sulla corruzione di Roma, la trattazione divisa secondo
uno schema comprendente virtù, difetti ed aspetto esteriore |
Sul sublime |
Tacito: nel "Dialogus"
riprende la posizione dell'Anonimo ("la grande eloquenza
politica è morta per mancanza di libertà") |
Sul sublime |
Classicismo francese |
Sul sublime |
Lessing |
Sul sublime |
Kant |
Sul sublime |
Swift |
Sul sublime |
Pope |
Sul sublime |
Romanticismo |
Sul sublime |
Croce |
Teocrito |
Virgilio: nelle
"Bucoliche" la tecnica è teocritea e molti versi, più
che imitati, sono tradotti dal modello greco, ma, mentre Teocrito ha
molto gusto per il particolare preciso e realistico, V. tende più
al sentimentale, cerca ciò che ha un valore interiore |
Teocrito |
Orazio: il sentimento della
natura, in quanto quasi esclusivamente bucolico, rispecchia il
sentire ellenistico, così come il paesaggio è simile a quello di
T., ma più scarso di particolari |
Teocrito |
Tibullo: anche in lui c'è
l'atteggiamento bucolico, ma, espresso quale contrasto tra la vita
della campagna e quella della città, lo distingue da quello di T. e
lo avvicina, piuttosto, a Virgilio |
Teocrito |
Ovidio: tiene presente T.
nel descrivere l'amore di Polifemo per Galatèa (Met. XIII, 750-987) |
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