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Presentazione di LEONELLO FARINACCI
Duilio De Vincentis, ovvero il dialetto prima di tutto.
La più efficace e diretta espressione di un popolo è tenuta
ancora fuori dalle scuole, non è assistita, né sussidiata, né
sorretta da stimoli culturali. Il poeta è stato classificato, nelle
antologie, al più come autore di macchiette, caricature, semmai di
battute grevi, ma mai gratificato come autore "maggiore" di opere
degne di valori universali, capaci di trascendere la condizione storica e
territoriale.
E' senza dubbio un errore di prospettiva, dovuto in Italia ad una sorta di
altezzosa indifferenza per la lingua "volgare", e ad un atteggiamento
accademico, incapace di cogliere nell'espressione dialettale il significato
più autentico dell'anima popolare.
Il dialetto esprime nella sua essenzialità di regole la brevità
fulminea del gesto e della parola, l'icasticità dell'immagine, il colore
delle emozioni, le profonde interiorità e l'impasto stesso della poesia.
Negletto e circoscritto nel recente passato, per ragioni storiche, ma anche
per l'impetuoso irrompere dell'italianese a causa della generale scolarizzazione
e delle suggestioni dei mezzi di comunicazione, solo negli ultimi decenni
il dialetto ha ripreso, nella sua genuinità, il posto che gli compete.
Tanto che, al passo con la fioritura (e rifioritura) di poeti che compongono
come parlano, si registra una forte e più consapevole schiera di critici
e di studiosi del fenomeno non prevenuti, ma disposti a mediare e a stabilire
reciprocità e implicanze con la poesia cosiddetta "colta ".
Gran merito di questo riequilibrio va ascritto al critico Vittoriano Esposito,
da molti anni "lettore" lucido e attento di opere in lingua, come
si usa dire, e in dialetto. Le sue analisi hanno colto nel segno, riguardo
ai poeti e narratori locali e della regione abruzzese, oltre ad autori di
livello nazionale e internazionale. Per questi motivi mi attribuisco il privilegio
di citarne un passo significativo tratto da una sua prefazione al volumetto
di Duilio De
Vincentis: "Zitte, zitte/ca mò te raccónte ". Annota
Esposito: "De Vincentis polemizza garbatamente con chi gli richiede di
scrivere `più elegante. Frase ricercate/ parole più vicine all'itagliane/
concette più intricate, cumplicate" e riassume il suo pensiero
al riguardo in termini molto semplici:"J só' ngnurante, care prufessore/
però te sacce dice sóle queste/:J'scrive quacche ccóse
che i córe/, te pozze assicurà ca só' oneste ".
Commenta Esposito: "Come si vede vi si ritrovano gli estremi di una vera
e propria dichiarazione di poetica, i cui fondamenti sono di antica e nobile
ascendenza: la sincerità di ispirazione (" J' scrive che i córe"
ricorda l'ei ditta dentro di Dante), l'adesione al sentire comune (rimanda
al culto romantico della popular poesie) e l'immediatezza della parola (si
pensi a Saba che, ai primi anni del 900, postula la necessità di una
poesia onesta) ". Con un così autorevole viatico mi riuscirà
meglio presentare il poderoso poema in vernacolo "La Storje de Fucene
". Duilio De Vincentis è sulla breccia da oltrequaranta anni.
Schietto e di una cordialità antica, scrive le sue rime con estrema
facilità, quasi improntando, grazie alla sua padronanza piena del dialetto
di San Benedetto dei Marsi, suo paese d'origine. Partendo dai quadretti conviviali,
tra e per amici, Duilio, mai tradendo la sua fedeltà alla lingua locale,
ha preso a sistemare in un grosso volume un glossario unico, ricco di oltre
12.000 parole e frasi gergali, ricevute dai contadini del luogo, dai "tatoni
", i nonni, onusti di esperienze vissute e portatori di un linguaggio
oggi in via di estinzione.
Un'operazione, quella di De Vincentis, che da sola basterebbe a collocarlo
in uno spazio di tutto rispetto nel novero dei ricercatori regionali. E' grazie
a lui che la prima "summa" linguistica di un paese, così
recuperata; potrà costituire un patrimonio di cultura e di autentica
tradizione. Appropriatosi di così preziosi e rari strumenti, il nostro
autore, con perizia e spontaneità innate, "rivela" al pubblico
anche al di là degli stretti orizzonti di San Benedetto, un mondo sommerso,
che pareva vinto dalla tecnologia, livellatrice anche della parola. In volumi
come il già citato "Zitte, zitte, etc. " e "Sambeneditte,
prime i mó ", De Vincentis, come opportunamente sottolineano i
rispettivi prefatori, "dopo quaranta anni
di impegno rigoroso con se stesso, ha ragioni ormai più che sufficienti
per meritare il suo posto nel Parnaso abruzzese" (Vittoriano Esposito),
e "Questo piccolo poema sul suo paese di nascita, com'era e come è
oggi, ne è al contempo la controprova e, lasciatemelo dire, il fondamento,
l'humus essenziale da cui scaturisce e si nutre la sua facile vena poetica,
apprezzata ormai anche da critici di valore" (Iginio G. Cerasani).
Cantore ben saldo nelle sue radici contadine, si commuove, è ironico,
lirico, tragico, sarcastico al punto giusto, come in questa "La storje
de Fucene ", dove l'afflato poetico non denota mai una caduta e il linguaggio
è simile a un filo d'oro che lega, nella storica evocazione, i fatti
che si incarnano nelle parole, nelle arguzie, nei bagliori improvvisi.
Dichiarandosi socraticamente "ignorante", Duilio De Vincentis spiazza
un pò tutti, immettendo nel suo omerico racconto situazioni, date,
eventi che sono stati incisi nella coscienza e nella memoria delle popolazioni
del Fucino e che, oggi, trovano una loro sistemazione critica nelle analisi
degli
studiosi. Il suo procedere per sonetti a rime baciate e alternate ha la cadenza
rapida e lucida del testimone, un testimone un po' particolare in quanto egli
media le informazioni e le tradizioni giuntegli oralmente. Alla fruizione
del lettore si apre un orizzonte con tonalità ora vivide, ora chiaroscurali,
ora brucianti di ironia, ora ripiegate in malinconie della memoria: quasi
un rimpianto del tempo che fu, anche se esso è stato connotato da sofferenze
inumane, da privazioni e da umiliazioni senza scampo:
"Se la salvéve sóle quacchedune/addó la tèrre
s'éve rassugate/, ce sscéve, inzomma, pe cumprà la fune/
Ma ce manghéve sèmpre le sapóne/quinde n ' nz putéve
maje impiccà ".
L'avvento del principe Torlonia, dopo il prosciugamento del lago, non modifica
la gravezza del vivere:
"Vuléve che la ggente contadine/tenésse solaménte
`n patróne/ nn jje vulèva `n atre malandrine / che cce livésse
la soddisfazione /de fa, disfà, iffà cumme ce pare". L'ispirazione
del De Vincentis, a mano a mano che gli eventi gli scivolano dalla memoria,
si fa calda, evocatrice, partecipe, come se gli stessi fatti siano passati,
per una sorta di magia, sulla sua stessa pelle. Il terremoto del 13 gennaio
1915: "Da sótte le macére, quanti pianteltutte `na tombe,
tutte `n laméntel, la mòrte svulazzève in ogni ttante".
Plastica di un'efficacia rara la terzina sui fratelli Tittone, chiamati da
Torlonia a "governare" il Fucino:
"Da Rome se piazzirne ecche abballe / i cumenzirne a ffà la bbrusche
i strijje ". Ed ecco nel consuèto stile ricco di rimandi e di
parole-oggetto il dipanarsi della storia, impegnata a mettere a dura prova,
prima della riscossa, i marsicani: il fascismo, le guerre d'Africa e in Spagna,
la Seconda GuerraMondiale e, via via, la ricostruzione e l'avvento della democrazia.
Pagine epiche incorniciano le lotte sociali, la riforma agraria, l'accorpamento
delle particelle (di terra del Fucino) agli assegnatari. Sulla nascita dei
cantieri scuola e sulle emigrazioni in Australia e nei Paesi Bassi, in Maremma
l'autore sembra suonare un'altra tastiera, più narrativa, meno ricca
di pathos, ma sempre organica e in linea con le corde toccate nei capitoli
precedenti e, infine, un'ammissione onesta e persuasiva: "Quest'è
la storja nostre, de ste laghe/i nce sta pròpje nènte d'ammentate/quest'è
la cróne ditte a vvaghe a vvaghe ".
La memoria del tempo riposa su una tessitura perfettamente ordita: i "cafoni
" della Marsica, i "tatoni " e le generazioni di uomini e donne,
affidando alla voce del loro cantore, Duilio De Vincentis, il loro destino,
sono entrati in una piccola, ma significativa parte della nostra storia.
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