Il dialetto è una parlata regionale o una parlata
locale di minoranza all'interno di una nazione in cui domina la lingua ufficiale.
Il dialetto non è, come molti credono , una sottolingua, una derivazione
o una corruzione della lingua nazionale ma è una lingua autonoma, imparentata
con quella nazionale da un'origine comune. Lingua nazionale e dialetto sono
dunque lingue diverse che hanno avuto fortune diverse. I dialetti sono mezzi
di comunicazione validi e degni di stima, che devono vivere non perché
sono necessari, ma perché sono lo strumento che consente a determinate
culture e tradizioni di sopravvivere. Quando sono usati con grande spontaneità
espressiva, danno la possibilità di comunicare in modo semplice ed
efficace. Spontaneità espressiva, semplicità ed efficacia che
sono caratteristiche comuni del parlare dialetto, possono e devono essere
l'atmosfera naturale entro cui viva l'uso della lingua nazionale. Non bisogna
credere che i dialetti siano "sgrammaticati", hanno invece una loro
grammatica e una loro sintassi e regole non meno rigorose e precise di quelle
dell'italiano o di qualunque altra lingua . Chi lo parla non "sbaglia",
ma parla un idioma diverso dall 'italiano comune; nemmeno si deve dire che
usare il dialetto è un segno di inciviltà, anzi l'esistenza
dei dialetti è il risultato di una storia civile ricca, comples-sa
e antica come quella italiana. Il rinato interesse per i dialetti, quindi,
che Benedetto Croce interpreterà singolarmente in direzione unitaristica
come un modo di partecipazione "delle verità locali al coro generale
delle parlate", non poteva non alimentare una copiosa produzione di opere
che spesso dialogò in Abruzzo, dando vita a quel genere di poesia dialettale,
tra intimismo e verismo, di cui Duilio De Vincentis è uno dei maggiori
protagonisti.
TONY MASTRODICASA
Avvertenze linguistiche
Nel dialetto sambenedettese la forma futuro dei verbi
è quasi del tutto assente. Per esprimere il tempo futuro si ricorre
al "presente" per lo più accompagnato da avverbi di tempo
quali: addemane(domani); `pó(dopo); mó(adesso), ecc. (és.:
ógge nce vajje a Rome, ce vajje dópedemane; si' magnate? No
`pó magne; mó ne mme la sènte, ce pènze addemane.
I casi che fanno eccezione alla regola li troviamo in alcune frasi che esprimono
dubbio, incertezza; si tratta quasi sempre di frasi interrogative. In queste
forme di futuro si usa sempre la terza persona sia singolare che plurale.
(es.: cu ddice revenarrà Giuvanne?; J' dice che ce
piaciarranne `ste savecicce).
La "é" con l'accento acuto ha il suono
stretto.
La "è" con l'accento grave ha il suono largo.
La stessa regola vale per la "o".
La "e" senza accento, sia essa nel corpo della parola che in finale,
è muta, ovvero non si pronuncia.
La "i" deve essere pronunciata con un suono molto stretto.
La "c" seguita da una vocale muta (es. e) si
pronuncia in modo liquido, ovvero come
"ch"
La "j" deve essere resa proprio con quel suono "moujlle".
La "z" ha spesso un suono duro, forte, quasi raddoppiando la forza
della pronuncia.
Il dialetto sanbenedettese è veloce, al pari dei
molteplici dialetti italiani; le parole sono spesso legate tra loro in un
fluire di frase che è secca, rapida e stringata. Il legame veloce tra
due parole è reso evidente soprattutto quando la seconda inizia con
una doppia consonante.
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