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Prima
della nuova campagna di scavi archeologici iniziata nel 1993, contestualmente ai
lavori di recupero e valorizzazione del quartiere avviati dalla Regione
Campania, dopo che questo, come è noto, era stato evacuato dagli abitanti, il 2
marzo 1970, per la prima volta dopo oltre 2000 anni di vita ininterrotta, a
seguito di una crisi di bradisismo, erano - nonostante la ricchezza di fonti
storiche - ancora ben poche le testimonianze materiali della colonia romana
presenti sul Rione terra.
La scoperta più importante era stata, a margine dei lavori
avvenuti dopo l'incendio della cattedrale, certamente quella del tempio
d'Augusto e del più antico Capitolium in tufo, venuto alla luce al di
sotto del tempio marmoreo.
Lo stato delle conoscenze appare chiaramente nella pianta
archeologica pubblicata da P.Sommella nel 1978, nella quale, oltre alle
strutture del Capitolium-Tempio di Augusto, sono riportati il solo tracciato del
decumano di Via Duomo, che cammina a valle del tempio, con i fronti
dell'edificio - abitazioni o, forse, tabernae - svettanti sulla strada con il
loro prospetto costituito da un porticato a pilastri laterizi su blocchi di base
di piperno e facciate in opera mista, databili forse ancora in età augustea.
Negli stessi anni in cui il Sommella lavorava alla redazione della sua pianta,
ed il Camodeca alla fruttuosa revisione dell'ingente patrimonio epigrafico
puteolano, la Soprintendenza Archeologica di Napoli (F. Zevi e C.Gialanella),
avviava la realizzazione di una propria carta archeologica del territorio
puteolano, su base aerofotogrammetrica, mettendo a frutto sia l'intenso lavoro
di controllo dell'edilizia moderna, sia effettuando una serie di ricognizioni
mirate che, al Rione Terra, portavano ala identificazione di strutture antiche
sul costone meridionale dell'acropoli, dal lato del mare.
Altre scoperte avvennero dopo il terremoto del 1980, allorché la
presenza di strutture antiche impose l'arresto dell'azione demolitrice delle
ruspe del Genio Civile, e nuovi scavi vennero intrapresi dalla Soprintendenza
Archeologica in via Pesterola, a valle di via Duomo.
Particolarmente importante nella topografia dell'acropoli
puteolana è l'area di via Portanova, che, come dice il nome, è la strada della
piccola porta che attraverso la fortificazione rinnovata in età medioevale e
rinascimentale permette di salire direttamente dell'area del porto al Rione
Terra senza fare il giro da Porta Napoli.
Ad età repubblicana si ascrivono i grandi blocchi di tufo
allineati conservati all'ingresso di Palazzo de Fraja, e quelli venuti alla luce
sotto i pavimenti di età imperiale di alcune tabernae che fiancheggiano
il tracciato del cardine che gli scavi hanno portato alla luce sotto il
tracciato della moderna Via San Procolo che, alla luce del dato topografico e
del confronto con una situazione simile di recente riscontrata a Liternum,
sono invece interpretabili come il margine delle fondazioni di un'insula
antica.
E' una scoperta recente, e che non ha mancato di suscitare una
grande emozione, quella del condotto fognario principale dell'acropoli, che
cammina sotto il decumano di Via Duomo. Scavato nel banco di tufo, sul quale
restano ancora le tracce dei picconi che lo hanno violato, esso è collegato a
tutta una serie di bracci perpendicolari, alcuni dei quali certo camminano sotto
i cardini dell'impianto viario della colonia. Lungo i condotti si aprono
profondi pozzi a sezione rettangolare, due dei quali rinvenuti al disotto del
nostro decumano, nei quali confluiscono ulteriori bracci scavati a quote diverse
- forse per attutire la velocità delle acque - e con orientamento tra di loro
ortogonale. Negli strati di abbandono dell'impianto fognario, risalenti alla
prima metà del III secolo d.C., sono sinora state rinvenute oltre duecento
monete di bronzo e numerosi oggetti da toeletta in osso lavorato, spilloni,
palettine e pinzette.
Gli scavi del Rione Terra hanno messo in luce notevoli tratti di
strade, sia lungo il percorso del decumano mediano e in qualche punto di quello
di Via Duomo, sia lungo il cardine di Via San Procolo, ed a margine di esse sono
tornati in luce, in eccellente conservazione, i fronti delle insulae
antiche, restate a lungo in uso fino ad età tardo medievale e poi passate a far
da fondazione ai fronti dei fabbricati di età barocca. La prima cosa che
colpisce chi percorre queste stradine è la differenza con le città vesuviane.
Anzitutto la loro larghezza di appena qualche metro, a partire almeno dalla
ristrutturazione urbanistica di età Augustea, al cui confronto perfino i cardini
di Ercolano appaiono larghissimi, il che dà subito l'idea della fame di spazio
che deve aver sempre caratterizzato, fin dalle origini, la vita della città
entro l'acropoli. Gli incendi devono aver giocato un ruolo importante nella
storia del quartiere. Tracce di incendi, forse conseguenti al sisma di Pompei
del 62 o a quello di Napoli del 64 d.C., o forse indipendenti da questi, si sono
notati in alcune botteghe lungo il cardine di via San Procolo. I materiali
scaricati nei pozzi di alcune tabernae chiuse dopo la pulizia dei crolli
appartengono, infatti, a tipologie uguali a quelle anteriori all'eruzione
vesuviana del 79 d.C.
Dopo questa fase "catastrofica" la vita, almeno nel settore
nord-orientale della città, è continuata tranquilla almeno sino alla metà del
III secolo, come sembrano testimoniare i materiali ceramici costituenti l'arredo
di un'altra delle tabernae scavate presso l'incrocio tra il cardine di
Via San Procolo ed il decumano mediano, e trovati in un altro pozzo chiuso in
questo periodo. Così in questo pozzo la crisi delle produzioni italiche,
determinata dalla autonomia produttiva delle province, alle quali Augusto aveva
riconosciuto anche l'autonomia amministrativa, traspare dalla modesta quantità
delle sigillate tardo-italiche rispetto alla grande presenza di sigillata
africana. Anche la maggior parte delle lucerne viene importata dall'Africa
settentrionale, e alcune forme sembrano di produzione tunisina.
Chi abitava questi quartieri? Non è facile dirlo. Al pian terreno
di queste insulae, dietro le cadenzate sequenze di pilastri laterizi non
s'intravedono ingressi di case patrizie, ma solo magazzini e tabernae. Al
di sotto si sviluppa spesso un altro piano, talvolta anche due, di cisterne e
cunicolo scavati nel tufo, certo anche in quest'area risalenti alla fondazione
della colonia, per immagazzinare acqua piovana prima della costruzione
dell'acquedotto.
Le testimonianze che si sono poste in luce con gli scavi sino ad
oggi condotti sull'acropoli, per quanto attiene ai rivestimenti pavimentali e
parietali, sono comunque limitatissime. La causa è da ricercarsi non solo nel
ricordato, persistente cambio di destinazione d'uso che buona parte dei
complessi scavati ha subito in età imperiale, quando molte delle tabernae
e degli borrea sono stati trasformati in ambienti di lavorazione ma,
soprattutto, nella distruzione, anch'essa ricordata, dei piani superiori a
quelli posti a livello stradale, avvenuta al momento della costruzione della
città cinquecentesca e seicentesca.
L'enorme quantità di lastrine e di mattonelle in marmo rinvenute
negli scarichi di materiali di età moderna, negli strati di abbandono di età
imperiale e in una fossa riempita di scarti di lavorazione di marmi, testimonia
peraltro del largo impiego di questo tipo di pavimenti, dall'età
neroniana-flavia sino al III secolo d.C., per i quali venivano usati marmi
pregiati provenienti dall'Oriente (pavonazzetto), dalla Grecia (imetto, rosso
antico, portasanta), ma anche dall'Africa (numidico) e dalle Alpi Apuane
(bardiglio).
Nella maggior parte dei casi a mostrare come gli edifici di
questo quartiere dovessero essere destinati a funzioni di rappresentanza,
sovviene la scultura, di cui abbondantissimi elementi si sono rinvenuti
scaricati nei riempimenti di età tardo-rinascimentale. A fronte di tale
fenomeno, che non finisce di stupire di fronte all'assoluta bellezza di alcune
delle sculture ritrovate, in particolare, al di sotto del Vescovado, è molto
scarso invece il riutilizzo al Rione Terra, rispetto alla
vistosità dello stesso fenomeno in altri centri campani, quali ad esempio
Amalfi, Ravello, e Salerno, di elementi sia decorativi che architettonici
dell'età classica che, pur presenti nelle fondazioni o inglobati nell'opera
cementizia delle murature non assumono mai, tranne che in rarissimi casi, una
funzione anche decorativa. La strepitosa serie di sculture, prodotte
probabilmente da officine operanti nei Campi Flegrei per la committenza romana,
sia quella privata delle ville, sia quella privata delle ville, sia quella
pubblica dei grandi monumenti ufficiali, e che lavorano marmi greci come il
pentelico, utilizzato per le sculture di peplophoi, sono per lo più
repliche di eccellente qualità di prototipi di capolavori greci dell'età
classica e ritratti per lo più di personaggi eminenti della corte imperiale; una
combinazione tipica della decorazione di grandi edifici pubblici che sembra
indicare, come si è detto, la destinazione prevalente di questi complessi a
immediato ridosso del tempio capitolino. E quasi a
controprova della provenienza da edifici pubblici va segnalata l'assenza di
quelle piccole sculture decorative che costituivano invece il grosso delle
decorazioni delle case private, come mostrano gli esempi delle città vesuviane.
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