PREBOGGION [Prebuggiùn] Voce totalmente genovese, che non ha nella lingua italiana vocabolo corrispondente, e con la quale si indica un insieme d' erbe selvatiche che varia a seconda della località; in Genova sono denominati così certi mazzi di erbaggi,
composti di bietole, cavoli cappucci primaticci (
gagge) e prezzemolo. Nella Riviera di Levante il preboggion comprende le seguenti erbe: cicerbita, talegna, raperonzolo, dente di cane, pimpinella, borragine e bietole di prato. Erbe del Preboggion:
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Il dizionario Frisoni traduce il
preboggion «minestrone contadinesco»; secondo il Casaccia è «un intruglio di erbe».
Il nome preboggion trae origine da Goffredo di Buglione, condottiero delle crociate di origine belga. Durante una sosta di questi crociati a Genova in attesa di imbarcarsi,
pare che i
camalli mandassero i ragazzi in giro a raccogliere le erbe "
pro Boggion", per Buglione (1099). Con queste erbe facevano una minestra calda per sostenere i crociati che stavano partendo. Secondo altri, invece, deriverebbe da "bollire":
pre boggî, per bollire,
pre bóggio, per bollore.
La data del preboggion è il 2 agosto (S. Eusebio) e si festeggia a
Sestri Ponente, la raccolta si faceva 15 giorni prima.
PRESCINSÊUA Si tratta di latte, fatto rapprendere e inacidire, che dai genovesi viene usato (purché separato dal suo siero detto
schêuggia) nel
pesto e in altre vivande.
Non ne esiste praticamente il corrispondente termine in italiano, potrebbe essere tradotto come "quagliata"; non va confuso con la ricotta altrove usata in sua vece. Un tempo ogni donna ligure la preparava in casa.
PESTO Pare che fosse già diffuso prima dell'impresa di Colombo. Qualcuno addirittura lo collega al latino «
moretum»,
una sorta di salsa ottenuta pestando nel mortaio aglio, semi di coriandolo, ruta, prezzemolo e formaggio, con l'aggiunta d'olio.
In realtà pare sia nato nel Medio Evo, ma nella forma più modesta di «
aggiadda», di agliata; essa aveva pure - citando Franco Accame -
«
un primitivo concetto di deodorante: gli antichi liguri si servivano infatti dell'aglio per combattere i pessimi odori che emanavano dalle sentine
delle navi. Ma gli si attribuivano, beninteso, anche molteplici altre virtù, terapeutiche, di contravveleno, corroboranti, utili quindi a coloro che dovevano
"menar di remi". Pare infatti che i marinai ne facessero largo uso all'alba, non appena svegli».
È un condimento saporitissimo ma sconsigliabile a chi debba poi tenere una conferenza o parlare vicino al pubblico, per evidenti ragioni di alito.
Comunque l'aglio nella tradizione culinaria genovese e ligure ha un posto d'onore. Lo ricorda anche Stefano De Franchi nel descrivere le lamentele
di madonna Parissoea in piazza di Ponticello, la quale tra i molti venditori che urlano dice d'aver ascoltato anche gridare:
Ghe l'ò gròsso l'àggio, e l'àggio: Chi veu l'àggio da sarvâ? Pe éutto södi çento téste, Chi veu l'àggio, vendo rèste, Chi veu l'àggio da pestâ? |
|
Ricordiamoci che «
l'àggio o fa bruxâ» tanto è vero che esiste perfino un modo di dire nostrano che fa: «
Tempesta con l'aggiadda» per significare Tempesta orribile.
Sta di fatto che l'«
aggiadda» (aglio, aceto e olio pestati nel mortaio) venne in seguito ingentilita con l'aggiunta di altri ingredienti, primo fra tutti, e caratterizzante, il basilico, una sorta di simbolo tutto ligure.
Quell'aristocraticissimo basilico - il nome greco «
basilikòn», significa appunto «regale» - che soltanto in Liguria, per un particolare dono della natura, ha la singolarissima fragranza, mentra altrove s'avvilisce in un pallido sentore di menta.
Un "forestiero", Paolo Monelli, scrisse sul basilico e il pesto:
«
E che cos'è questo odore di erbe alpine che si mischia stranamente all'arziglio degli scogli e corre la Riviera tra Lerici e Turbia?
Tutta la regione ne è fasciata come dalle schiume del suo mare (...) Vi sono condimenti comuni a varie regioni ma questo è soltanto ligure:
parla ligure; basta fiutarlo per risentire nell'orecchio questa parlata aspra e molle ad un tempo, fatta di suoni strascicati, di sillabe sussurrate, di vocali fosche».
Una preparazione semplice ma che va realizzata con rigoroso impegno, come un atto di liturgia. Semplice, ma anche mutevole,
con «varianti» nella sua area di distribuzione - a Nizza è di facile reperimento il «
pistou» - che si succedono di paese in paese, da rione in rione.
Nella
preparazione del pesto è vivamente consigliato l'uso del vecchio mortaio in marmo, dell'altrettanto vetusto pestello di olivo o ciliegio.
Col frullatore tutto è molto più rapido, ma il risultato non regge il confronto. Le foglie della pianta regale recano delle vescichette contenenti
l'olio essenziale: esplodono sotto i colpi del pestello, sfuggono invece alle lame del frullatore, non sono quindi «sfruttate».
Tale salsa ha notoriamente le più larghe possibilità d'impiego (condimento ideale per trofie,
mandilli de sæa, corzetti, lasagne e gnocchi), ma nozze fra le più riuscite sono
quelle con le
trenette, massime se «
avvantaggiae». «
Trenette» verosimilmente derivate per
il nome da «
trenna» - fettuccia di cotone o seta, treccina per orlare i vestiti - con la caratteristica sezione ovale, un tempo avvolte in soffici matasse,
le «
rele», per meglio disporle sui telai ad essiccare; «
avvantaggiae», perché superiori, «in vantaggio» rispetto
al tipo normale. Si tratta di pasta integrale, cioè con la crusca: a parte il sapore, più corposo, lievemente acidulo, si preparava senza
prima setacciare la farina, quindi era venduta a prezzo inferiore. Questo il vantaggio offerto in passato, oggi è il contrario una pasta «per ricchi», poiché la crusca viene
aggiunta alla farina comune con operazione supplementare.
(tratto da: Le ricette liguri per tutte le occasioni, M. Dolcino; La cucina di Genova e della Liguria dall'A alla Z, A. Schmuckher) E c'è anche chi gli ha dedicato una
canzone!
TESTETTI
Il "testo" è un contenitore piatto e rotondo fatto di terracotta (non tutti i tipi di terra vanno bene), abbastanza spesso, che si mette a cuocere nella brace del fuoco. È utilizzato per cuocere i
testaiêu
(
testaroli), un piatto tipico della cucina ligure diffuso principalmente nel levante genovese, costituito da sottili focacce di farina, acqua e sale che vengono condite con pesto, olio e formaggio parmigiano grattuggiato. La difficoltà sta nel fatto che i cocci devono raggiungere una precisa temperatura: se son troppo caldi la pastella brucia, se son troppo freddi si attacca al fondo.
A Iscioli (via Iscioli Basso), nel comune di
Ne in Val Graveglia, esiste ancora chi (Bruno Tassara) produce artigianalmente i testi di terracotta (
video).
Cenni storici sulla fabbricazione nel borgo di Agnola di Carro (Sp)
qui.
BATOLLI Tipici di
Uscio (Ge), sono una sorta di taglierini spessi a base di farine di grano e castagna, cotti con patate e naùn (grossa rapa locale), conditi con pesto.
Dimostrazione pratica di preparazione e degustazione la seconda domenica di settembre.
BERODO
Il sanguinaccio, conosciuto a Genova col nome di
Berodo, è un prodotto povero che affonda le sue radici nei remoti secoli pre-cristiani, quando Roma dominava la val Polcevera, la valle dei porci appunto. Il sanguinaccio è il primo prodotto ricavato dalla macellazione del maiale:
il sangue fresco mischiato al latte non scremato, con aggiunta di pinoli, sale, aromi naturali e lardo fresco di maiale, (cucinato con soffritto di cipolle o semplicemente bollito), fanno del berodo un prodotto unico e dal gusto arcaico. La sua produzione, ancora non molti anni fa, era esclusiva prerogativa femminile, perché mentre gli uomini procedevano
alla macellazione del maiale, nelle cucine le donne preparavano e cuocevano il sanguinaccio da offrire durante la festa del maiale. Oggi in Liguria si può ancora trovare dal macellaio di fiducia nei mesi invernali.
FARINATA
È una torta salata a base di farina di ceci, acqua, olio e sale, cotta in teglia bassa nel forno a legna. La
preparazione della farinata di ceci (
fainâ de çeixai) è piuttosto semplice, piatto tipico della cucina ligure fatto con ingredienti "poveri" ma ricchi di vitamine.
Si mangia appena sfornata bella calda nel caratteristico
papê matto (carta straccia), perché così veniva venduta
da o frisciolâ (preparatore di farinata) in Sottoripa. Secondo la tradizione, la farinata si mangia in piedi, nella carta con le mani, col pepe, in mezzo a una rosetta, perché se viene messa in un piatto cambia gusto.
A Genova una volta i produttori di farinata si mettevano sulla porta del loro
negozio, appena era pronta e sfornata, per reclamizzarla:
Gh'emmo a fainâ cada; vegnî ca l'è bixara; a l'è brustolia comme un friscieu; a l'è tutt'euio! |
Alcuni sono rimasti famosi come la Bedin a cui lo scrittore Costanzo Carbone dedica alcuni versi:
Ciassa de Pontexello A Bedin co-e sò fainæ, fra torte pasqualinn-e a te sciorbe di dinæ! |
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Il piatto si diffonde a partire dalla zona di Genova nel Medioevo; un documento ligure del 1447 parla di "quale prezzo devono esigere i fornai per cuocere le scribilite". Il termine "scribilita" o "scripilita" era l'antico nome della farinata.
Una leggenda racconta che sia nato per casualità nel 1284, quando Genova sconfisse Pisa nella battaglia della Meloria. Le navi da guerra genovesi, cariche di vogatori prigionieri, si trovarono coinvolte in una tempesta: nel trambusto alcuni barilotti d'olio e dei sacchi di ceci si rovesciarono, inzuppandosi di acqua salata.
Poiché le provviste erano scarse, si recuperò il possibile e ai marinai vennero date scodelle di una purea informe di ceci e olio. Tentando di rendere meno peggio la cosa, alcune scodelle vennero lasciate al sole che asciugò il composto in una specie di frittella.
Rientrati a terra i genovesi pensarono di migliorare la scoperta casuale, cuocendo la purea in forno: il risultato piacque e, per scherno agli sconfitti, venne chiamato l'oro di Pisa. Diffusa anche a
Buenos Aires col nome
fainà, fu portata all'inizio del XX secolo dagli immigrati genovesi ed è ancora parte della cucina argentina.
In Uruguay si chiama
fainà (nome maschile) e si trova in qualsiasi pizzeria, il 27 agosto si celebra in Uruguay il giorno del fainà; la farinata insieme alla pizza e al chivito rappresentano i 3 piatti "fast-food" nazionali che costituiscono parte della gastronomia uruguaiana.
In Liguria il termine
fainâ, tipico di Genova e Levante, assume diverse varianti in altri luoghi: "farinada" a Riomaggiore, "farinâ" ad Albenga Sanremo e Ventimiglia, "tortelaso" a Calice e Noli. A Genova in via Ravecca c'é una delle più antiche friggitorie, l'intervista in questo
video.
RISSÊU
È una delle più famose espressioni artistiche dell'utilizzo della pietra. Si tratta di un manufatto tipicamente ligure che nasce dal sapiente assemblamento di ciottoli di mare di colore diverso per dar vita a rappresentazioni grafiche davvero suggestive. Un classico esempio
sono i sagrati delle chiese, così come gli spazi antistanti i più prestigiosi palazzi o le antiche mulattiere di collegamento tra i paesi. I ciottoli, una volta selezionati, venivano poi inseriti in un letto di sabbia fine, precedentemente bagnata e battuta. Si utilizzano circa un quintale di pietre per metro quadrato. L'antica tecnica del
rissêu (mosaico in italiano) si sta perdendo, soprattutto per la mancanza di manodopera
qualificata come per la difficoltà di reperire la materia prima, cioè le pietre stesse.
L'arte di assemblare pietre per ricavarne figure nasce secoli fa per consolidarsi nel 1700. Lo sviluppo maggiore si ha nei sagrati delle chiese. L'abilità è proprio quella di accostare pietre dai colori e
dalle sfumature diverse per creare vari disegni, soprattutto dal tema floreale, e decorazioni. Nel Tigullio sono presenti anche
rissêu a 3 colori, combinando al bianco anche il rosso del diaspro e il verde; questo tipo di decorazioni si trovano a Missano, Leivi e Ri (Chiavari).
SEDIA Chiavarese Leggi l'articolo completo
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MANDILLO
È una parola greca che significa mantello, in dialetto genovese
mandillo significa invece fazzoletto; il genovese prende in prestito dalle lingue orientali alcune sue espressioni, probabilmente dovuto agli intensi commerci con l'oriente che la "Superba" ha avuto per secoli.
Legata al termine è anche la parola
mandillâ che significa farabutto, briccone. In cucina troviamo i
mandilli de sæa (seta), un tipo di lasagne amplissime e sottilissime.
Nel mondo contadino c'era il
mandillo da groppo (da nodo) un grosso fazzoletto di cotone (cm 80x80 circa) solitamente di colore blu a quadri bianchi con una cornice rossa,
era utilizzato per contenere la spesa, per portare il cibo nei campi, per andare a funghi, per contenere frutta, tegami di torte, focacce, pani da portare al forno per la cottura; i bordi del fazzoletto venivano annodati incrociandoli per portare facilmente il mandillo in mano o, con un bastone sulla spalla.
Era anche il fazzoletto bianco di garza grossolana traforata che i fuochisti delle navi a caldaia tenevano al collo e usavano per detergere il sudore che producevano nelle "infernali" sale caldaie delle navi.
SCIACCHETRA' Vino famoso e raro, prende il suo nome da due parole dialettali, pigia (sciacca) e metti da parte (trarre fuori). La prima volta che si è letto il nome Sciacatras (poi modificato dagli indigeni) per indicare il vino è alla fine del 1800 in una lettera di Telemaco Signorini, pittore fiorentino della scuola dei macchiaioli.
Prodotto nelle 5 terre, è ottenuto da uve bosco (40%), albarolo e vermentino poste a essiccare su appositi graticci all'ombra o appese in locali freschi ben ventilati; l'appassimento si protrae per 3 mesi, in genere si toglie nei primi 15 giorni di novembre. Si presenta di colore ambrato con riflessi dorati, gradazione minima 17°, deve esser servito a 14°, si accompagna a dessert quali il pandolce genovese e la pasticceria secca.
GENOVA La storia del Bisagno, fiume a due facce - una ridente, l'altra terribile - porta con sé questa ambiguità fin dai tempi antichi, quando il suo nome Fertor - tramandato da Plinio il Vecchio - poteva significare alternativamente "colui che porta" o "colui che colpisce".
Il Bisagno in alcuni punti della città scorre sotterraneo come nel popoloso quartiere di Marassi il cui nome significa "acquitrino".
Antica Tripperia di vico Casana 3 r. (vicino via Luccoli). La più antica d'Italia, esiste da 200 anni con i tavoli di marmo, cappa aspirante secolare, due pentole di fine '700; premiata dall'Accademia It. della Cucina.
TIGULLIO
Il nome deriva dalla tribù ligure dei Tigulli, abitanti di epoca pre-romana della famiglia dei Liguri; pare che il nome possa anche derivare da Tegola di Ardesia (pietra estratta nell'entroterra, usata da sempre nella zona). Il golfo del Tigullio è quel tratto di costa ligure compreso tra Sestri Levante e Portofino.
Chiavari, l'origine del nome della cittadina
qui.
1° Maggio. A Mezzanego per dire qualcosa a un abitante c'era un'usanza, svanita pochi anni fa: nella notte del 1° maggio andavano nel bosco, tagliavano un albero e lo portavano davanti all'abitazione della persona cui volevano rivolgere un messaggio. In base all'essenza lignea portata davanti casa voleva dire:
Acaggia (acacia)
figgia de Bagascia,
Pin figgia de in Belin,
Nissêua (nocciola)
figgia de Trêua (scrofa/baldracca),
Ona (ontano)
figgia Bona,
Ofêuggio (alloro)
ben te vêuggio (bene ti voglio),
Sëxa (ciliegia)
figgia de Gëxa (chiesa).
A Sopralacroce c'è tradizione di tagliare nel bosco l'albero novello di castagno e battendolo in modo che il massello fuoriesca e rimanga la corteccia, facevano una specie di imbuto. Questo serviva per allungare il tono della voce e, di solito quando si sposavano dei vedovi, ci facevano le famose "ciocche". Questo strumento poi lo ritiravano, lo nascondevano e potevano scappare, perché se venivano presi, oltre al pericolo di esser menati, c'era una denuncia.
In val d'Aveto si usava dipingersi la faccia col carbone e andare a far gli scherzi alle ragazze.
In val Fontanabuona continua, sebbene ridimensionata, la tradizione del "Portare Maggio" nata 2 secoli fa. Sino alla fine del 1900 la notte tra il 30 aprile e il 1° maggio era vissuta con "terrore" da quanti abitavano in valle. San Colombano, Monleone, Cicagna e Gattorna le località maggiormente prese di mira da squadre di giovani buontemponi decisi a indispettire i propri concittadini. A Monleone in piazza, veniva radunato ogni genere di oggetti razziati nei vari giardini:
vasi, statue, insegne, attrezzi da lavoro; un anno addirittura un carro. La mattina del 1° maggio chi non trovava la propria roba sotto casa sapeva cosa fare: recarsi in piazza. Una tradizione scomparsa. A Gattorna invece il passaggio dei "portatori di maggio" sembra continuare: obiettivo da sempre preso di mira lo storico bar gelateria "Beneitin". In passato sono stati fatti scherzi piuttosto pesanti: statue spostate, porte murate, insegne sparite. In tanti rimanevano svegli tutta la notte a controllare l'uscio di casa e i giardini.
Poi son cominciati i guai: ad arrivare in piazza a recuperare la roba non erano i proprietari, ma i ladri in cerca di facili razzie.
CARNEVALE Le tipiche maschere liguri sono Baciccia a Genova e Cicciolin a Savona.
Baciccia è una maschera raffigurante un popolano buontempone e gaudente. Spesso il Baciccia è evocato nel teatro dialettale (G. Govi ne interpretò il personaggio in
Baccere Baciccia in Carosello per una marca di tè).
Ad un Baciccia, o meglio, ad un Baciccin, è dedicata una popolare canzone genovese:
"Baccicin vattene a cà - to moae a t'aspeta" (letteralmente: "Baccicin torna a casa - tua madre ti aspetta").
Il nome Baciccia, è una derivazione ligure di Battista; il suo diminutivo è Baccicin, anche abbreviato in Bacci.
Cicciolin, maschera savonese creata dal pittore Romeo Bevilacqua nel 1953, donata dallo stesso all'Associazione A Campanassa, è l'unica Maschera Ligure iscritta all'Albo Ufficiale delle Maschere Italiane; è accompagnata dalla sua corte composta da: A Signua, Le Damigelle, Le Cortigiane, Il Mazziere, il Giullare, i Marinai e i Musici. Oltre a partecipare alle più importanti manifestazioni carnevalesche italiane come rappresentante della Città di Savona, Cicciolin visita gli ospedali, i ricoveri per anziani e le scuole.
A Chiavari abbiamo il
Rebello e la Rebellonn-a.