Questione Meridionale
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Definizione con cui, nel linguaggio storico-politico, si indicano sia le differenze socioeconomiche tra il Sud e il resto d'Italia, sia l'insieme degli studi che hanno messo a fuoco la condizione e i problemi del Mezzogiorno italiano.
La questione meridionale si origina nello svantaggio accumulato dalle regioni del Sud in rapporto a quelle del Centro e del Nord, sottolineato dagli indicatori economici, culturali e civili dello sviluppo. La permanenza nel tempo di un profondo divario tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno non ha tuttavia impedito che quest'ultimo subisse profonde trasformazioni e recenti modernizzazioni, analoghe a quelle che hanno interessato le altre aree dell'Italia.
Primi a cogliere i sintomi dell'arretratezza meridionale furono gli illuministi meridionali del XVIII secolo. Fu soprattutto Gaetano Filangieri a indicare nel predominio sociale ed economico del feudalesimo, con la corrispettiva debolezza della forza etica e istituzionale dello Stato, la causa fondamentale del ritardo del Sud, riconoscibile nella diffusione del latifondo scarsamente produttivo, nella miseria delle popolazioni contadine e nella mancanza di un moderno ceto agricolo.
La questione meridionale emerse compiutamente dopo l'unità d'Italia nell'analisi condotta, a partire dagli ani Settanta dell’Ottocento, da studiosi liberali come Pasquale Villari (Lettere meridionali, 1861), Giustino Fortunato, Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti. La denuncia delle origini sociali del problema, insieme alla ricerca delle soluzioni, dimostrarono come non fossero sufficienti gli strumenti approntati dallo stato unitario, tanto meno quelli meramente repressivi adottati per sconfiggere il brigantaggio. Da queste analisi scaturiva l'appello a interventi positivi che colmassero o almeno riducessero il divario Nord/Sud, frazionando il latifondo e favorendo la piccola proprietà.

Gli interventi dello Stato

Tra il 1874 e il 1876 gran parte dei collegi elettorali del Sud furono conquistati dai candidati della sinistra, i quali richiedevano maggiori investimenti pubblici nelle infrastrutture (strade, ferrovie, scuole), ma che, una volta insediatisi nei posti di governo locale e nazionale, non si discostarono dai loro predecessori nella gestione clientelare della cosa pubblica. Tali pratiche furono stigmatizzate dall'inchiesta sui contadini meridionali che Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti portarono a termine nel 1877 (La Sicilia nel 1876).

All'inizio del XX secolo i governi presieduti da Giovanni Giolitti furono i primi ad approvare leggi straordinarie con cui furono finanziati grandi lavori pubblici in Puglia, a Napoli e in Basilicata, ma che tuttavia non si rivelarono efficaci alla prova dei fatti; contemporaneamente, l'emigrazione di milioni di contadini si configurava come la reazione fisiologica alla miseria delle campagne meridionali. La politica giolittiana, basata sulle leggi speciali, sulle agevolazioni pubbliche, sugli sgravi fiscali, inaugurava peraltro una modalità di intervento dello stato destinata a riprodursi nei decenni a venire, con risultati controversi.

La Cassa per il Mezzogiorno

Nel secondo dopoguerra la questione meridionale tornò al centro della discussione parlamentare e della lotta politica. I partiti e le organizzazioni di sinistra guidarono le lotte contadine, particolarmente aspre in Puglia e in Sicilia, che riproponevano l'antico problema della proprietà della terra. Al tempo stesso un gruppo di meridionalisti di formazione laica (Manlio Rossi Doria) trovò convergenze con i meridionalisti di formazione cattolica (Pasquale Saraceno), influenzando le scelte governative a nuovi interventi pubblici nel Sud, quali l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, nel 1950 e la riforma agraria, intrapresa nel medesimo anno. Le leggi di riforma agraria portarono all'esproprio e alla redistribuzione di una vasta estensione di terre (circa 700.000 ettari) che accompagnò e incentivò un più ampio processo di trasferimento di terre a piccoli proprietari contadini. 

Negli anni Sessanta prese slancio la seconda fase della politica di intervento per il Meridione collegata ai governi di centrosinistra, che sfociò nella creazione di diversi poli industriali, come a Napoli (Alfa Sud di Pomigliano), a Taranto (siderurgia), a Gela (petrolchimico) e in alcuni centri della Sardegna. Le potenzialità di questi interventi vennero rallentate dalle congiunture internazionali, dalla mancanza di un tessuto industriale diffuso e dall'intreccio tra politica e criminalità organizzata (Camorra; 'Ndrangheta).

In tempi recenti le problematiche connesse ai ritardi economici delle regioni meridionali ha dato occasione alle rivendicazioni dei movimenti autonomistici e secessionistici del Settentrione (Lega Nord).

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