Emilio CERASANI
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Storia della Marsica
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San Berardo
Un racconto
Lacus fucinus

 


Emilio Cerasani

CENNI STORICI SULLA MARSICA

Per la posizione geografica della regione, posta tra l'Adriatico e il Tirreno, ad una altitudine di circa 700 metri sul livello del mare, circondata da baluardi naturali, ha avuto un ruolo strategicamente molto importante nelle guerre italiche.
La Marsica, detta anticamente provincia Valeria per la strada consolare che l'attraversava, non ebbe quasi mai confini nettamente assegnabili.
La sua sorte, durante l'età di mezzo, è immersa in un inestricabile mistero. Quando i Longobardi s'impossessarono delle antiche città romane, la Marsica divenne un Gastaldato, il "Castaldatus Marsorum", di cui oltre Marsi o Marcia, come incomincia a chiamarsi la città fin dai primi anni del Cristianesimo, facevano pure parte Alba, Celano, Trasacco e Luco.
Sotto l'imperatore Onorio la nostra regione era chiamata Valeria; essa comprendeva Tivoli, Carsoli, Furcona, Amiterno, Norcia e Rieti ed aveva per confine il Sannio, il Piceno e l'Umbria (Lugini, Memorie storiche della regione Equicola, pag. 88).
Valentiniano I, nel 364 d.C., per reprimere il brigantaggio che infestava la contrada, aveva proibito di portare le armi e di andare a cavallo attraverso la regione.
Odoacre, nel 476, governò con saggezza in tutto il territorio della regione. Sotto Teodorico, nel 493, le condizioni della Marsica peggiorarono a causa delle lotte e persecuzioni religiose.
Con Belisario e Narsete il territorio subì soprusi d'ogni specie anche se, dopo il dominio greco gotico, sotto Narsete, essa riuscì a riacquistare una certa tranquillità.
Cori l'invasione di Totila, che attraversò la regione negli anni 543 548 allo scopo d'inseguire Giovanni il Sanguinario che deteneva la città di Alba, la situazione si aggravò ancor più, specie nel 554, quando la Marsica fu percorsa dagli Alemanni Leutari e Bucellisso che, chiamati dai Goti, scesero in Italia con 75000 uomini e come una fiumana, si riversarono sulle nostre contrade, lasciando alle loro spalle null'altro che ceneri e cadaveri (Procopio di Cesarea, Guerra gotica).
Sotto il dominio longobardo, nel 591, la Marsica entrò a fare parte del Ducato di Spoleto, che comprendeva Sabini, Equicoli, Vestini, Peligni e Piceni (Regesto Farfense, n. 55, 57, 79, 94).
Da questo documento si dimostra che, solo a distanza di un secolo e mezzo dalla sua prima occupazione, il Ducato si affermò nella nostra contrada, mentre, nel frattempo, le popolazioni venivano amministrate dai vescovi e dai monasteri benedettini che sorgevano numerosi ovunque. Quest'ordine religioso introdusse nella religione longobarda una sorta di feudalità monacale ed ecclesiale che sopravvisse allo stesso potere civile.
Si ebbero così le corti e le masse che dipendevano per tutti gli atti pubblici e amministrativi dai grandi monasteri.
Al principio del VII secolo, Marsia, chiamata contemporaneamente anche Valeria, confondendosi il nome della fantomatica capitale con quello della provincia e della strada, era la città episcopale della regione marsicana.
La morte di re Desiderio pose fine, nel 774, alla dominazione longobarda; e, con Carlomagno, ebbe inizio il dominio dei Franchi.
Con i nuovi padroni il Gastaldato divenne una importante Contea, a capo della quale erano i Conti che cominciarono a governare la regione con Ludovico II. Sotto i Franchi la Marsica fu eretta a provincia autonoma col nome di Provincia dei Marsi, entrando a far parte dell'Abruzzo, dal territorio più settentrionale, in finibus Aprutiis.
Però la Marsica, propriamente detta, restò divisa tra le contee di Alba e di Celano che erano indissolubilmente legate al giuoco delle successioni tra Svevi, Angioini e Papato di cui tratteremo tra breve.
Con Carlomagno, nel Gastaldato dei Marsi, venne introdotta una nuova forma di feudalesimo che contemplava, nei suoi ordinamenti, l'omaggio, il giuramento di fedeltà, l'investitura, i diritti e i doveri dei vassalli e dei signori, i duelli, la tregua di Dio, la caccia feudale, la cavalleria e i tornei.
Carlomagno provvide pure all'istruzione pubblica, disponendo nei propri Capitolari l'istituzione di scuole presso i monasteri, gli episcopi e le parrocchie, istituzioni che perdurarono fino all'abolizione dei Feudi (1806).
Nei secoli successivi, i conti che affermavano di essere i discendenti diretti dei Carolingi divennero con Trasmondo, Berardo e Oderisi, un casato assai ragguardevole nella regione.

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I SARACENI

Questi popoli musulmani, nemici dei cristiani, sbarcati presso Roma nell'846, non essendo riusciti a prendere la città, si dettero a saccheggiare le basiliche di S. Pietro e S. Paolo che erano fuori le mura.
Proprio in seguito a tali fatti, Papa Leone IV fece costruire la cinta muraria che da lui fu detta leonina, la quale valse a respingere altro tentativo di quei barbari nell'anno 849. Frattanto a Ildeberto, primo conte dei Marsi, successe Gherardo, sempre alle dipendenze del Ducato di Spoleto.
Leone Ostiense ( Chronicon, lib.. I. cap. 35), narra che, in quello stesso anno, il re saraceno Seodan, padrone di Bari, avendo fatto grosso bottino a Capua, di ritorno a Bari fu assalito dai Gastaldi Maielpoto telesino, Guandelberto bovianese, Lamberto duca di Spoleto e da Gerardo conte dei Marsi. Era d'estate i nostri, pur essendo stanchi, a causa delle continue marce forzate, alla vista dei Saraceni, spinti da grande ardore, piombarono loro addosso in disordine, rimanendovi duramente sconfitti. Allora l'imperatore Ludovico II bandì una crociata contro i Saraceni, assediando Bari che finalmente cadde in suo possesso.
Nel successivo anno 881, morto l'imperatore Ludovico II, i Saraceni, dopo essersi riorganizzati, si avventarono contro il monastero di S. Vincenzo al Volturno e, dopo aver fatto scempio dei monaci, invasero la Marsica, portando ovunque miseria e morte, tanto che le campagne, prive di manodopera, rimasero coperte solo di pruni selvatici e di sterpi.
In quello stesso anno essi distrussero non solo il monastero di Apinianici presso Pescina, mala loro furia devastatrice si riversò sull'intero comitato marsicano, per cui, nell'intero comprensorio, scomparvero le Corti monastiche, le ville e le chiese; i monaci furono in gran parte uccisi, mentre le popolazioni fuggivano terrorizzate, cercando protezione e riparo nei castelli e nelle rocche della diocesi che ancora resistono all'ingiuria del tempo, come Roccavecchia (Pescina), Rocca di Botte, Rocca di Mezzo, Rocca di Cambio, Castellafiume, Castel di Ieri, Castelvecchio e in tanti altri luoghi.
Le devastazioni saracene destarono profonda impressione nell'animo dei cristiani, tanto che Guido II, duca di Spoleto, nell'886, chiamati alle armi i suoi sudditi, compresi quelli del Comitato marsicano, mosse contro il nemico che mise in fuga sul Garigliano, dopo aver fatto sterminio di quelli che gli si opponevano con disperata resistenza.
Però nell'888 i saraceni rinnovarono ancora una volta le loro scorrerie, approfittando dell'assenza di Guido II, ancora in guerra sulla Trebbia contro Berengario che intendeva strappargli la corona d'Italia; qualche anno dopo (891), li ritroviamo puntualmente nella provincia Valeria, ove ebbero buon gioco sulle popolazioni inermi e indifese, saccheggiando, bruciando e depredando città, villaggi e campagne.
Nel 916 il Pontefice Giovanni X fece appello a tutti i principi cristiani per annientare i saraceni. Egli stesso si mise a capo della spedizione alla quale prese parte anche Alberico, nuovo duca di Spoleto. La spedizione sortì ottimo effetto, tanto che i saraceni furono completamente annientati e quelli che cercarono rifugio nel castello di S. Angelo di Barrea vi rimasero bruciati in preda alle fiamme.

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I CONTI BERARDI NELLA MARSICA
Narra Leone Ostiense che allorquando, nel 926, il Conte Ugo di Provenza, discendente da parte materna da Carlomagno, venne nella nostra penisola per esservi incoronato re d'Italia, era con lui il conte Attone suo congiunto e zio materno di un Berardo detto il "Franciscus".
Per questo vincolo di parentela i conti Berardi, affini ai Franchi, solevano sottoscrivere i vari atti con la formula: Comites Marsorum ex natione Francorum.
Quando sia stato investito del vastissimo dominio della provincia Valeria il nostro Berardo detto il "Franciscus" , non risulta chiaramente ma è certo che non avvenne prima del 926 perchè solo allora il Conte Attone, suo zio, giunse in Italia con il conte Ugo di Provenza. Nel 937 egli capitanò un fatto d'armi contro gli Ungari, popoli finnici ancora barbari e nomadi che avevano invasa la Marsica. In quell'occasione i Marsi e i Peligni, capitanati da Berardo il "Franciscus", fecero strage del nemico. I gloriosi fatti d'arme compiuti dal detto conte Berardo contro gli Ungari gli procurarono grande fama e meritati onori, come riferisce il Brogi nella citata opera sulla Marsica.
Il Brogi riferisce pure che un Berardo II, conte dei Marsi, figlio di Berardo il "Francisco", fu padre di quel Berardo lII che ebbe per figli non solo Alberico, vescovo dei Marsi nel 970, ma anche Rainaldo, Teodino, Oderisio, Berardo, Gualtiero, Gualdo e Romano.
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LA MARSICA SOTTO IL DOMINIO DEI SASSONI DAL 962 AL 1138

La provincia di Valeria, di cui la Marsica faceva parte integrante, continuò a rimanere sotto il Ducato di Spoleto anche con l'avvento dei Sassoni. Infatti, nel 981, a proposito di un plàcito ivi tenuto, risulta che l'imperatore Ottone II fu presente nel campo di Cedici, presso Marsia, con i conti Rainaldo, Teodino e Berardo III, i quali lo accolsero con gran fasto nella dimora all'uopo costruita (Chron. casauriense, col. 973); durante il suo breve soggiorno furono fatti grandi festeggiamenti in onore dell'imperatore, con solenni funzioni religiose, ricchi banchetti, partite di caccia, giostre, manifestazioni folcloristiche e luminarie nella incantevole vista del Fucino con i suoi pescatori lucensi, sulle barche piatte, vestiti con pelli di pecore, quel Fucino che, in pieno Medioevo, travagliato da tanti mali, era tornato a invadere con le sue acque le messi rigogliose, i prati e i vigneti circostanti.


RINALDO I (1000 1010)

Con Rinaldo I (o Rainaldo) incomincia il dominio dei Berardi nella Marsica.
In quei tempi tristissimi in cui l'Italia era divenuta un vero e proprio campo di battaglia, di violenze, di fazioni e di grande miseria, la Marsica godeva di una certa tranquillità, sia perchè Rinaldo I della famiglia dei Conti Berardi era temuto e amato sia perchè nel suo contado erano sorti molti monasteri benedettini, i quali, nonostante i soprusi e l'immoralità dilaganti, riuscivano ad amministrare la giustizia come meglio potevano, evitando la carestia, grazie all'impegno che quei bravi monaci ponevano nella coltivazione dei campi e in tutte le attività artigianali nelle quali si rivelarono impareggiabili maestri di opere illustri e lavoratori infaticabili. Si era intorno all'anno 1000 e molti, credendo ormai prossima la fine del mondo, per assicurarsi la salvezza dell'anima, elargivano lasciti con atti di munifica prodigalità agli ordini monastici. Nel frattempo Rinaldo 1 sposò Gervisa, vedova del conte Lando di Teano, dalla quale ebbe Oderisi che fissò la sua dimora nella regione sangritana, mentre Berardo III assicurava la discendenza dinastica dei conti marsi, stabilendosi nel capoluogo, ove assistette era l'anno 1020 ad un famoso plàcito davanti alla chiesa di S. Sabina, tenuto dal Marchese Ugo di Spoleto, il quale ottenne in quell'occasione la restituzione di molti beni al monastero di Casauria.
Berardo III ebbe quattro figli: Sigilulfo, Rainaldo, Pometta e Berardo IV; quest'ultimo, a sua volta, ebbe tre figli, dei quali Berardo V che fu padre di S. Berardo (Gattola, "Historia Cassinese").

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I NORMANNI NELLA MARSICA

All'entrata dei Normanni nella Marsica, i vari feudi ed i vasti possedimenti monastici subirono grandi mutamenti: questi ultimi poterono appena conservare i loro chiostri e tutto il resto fu suddiviso in numerosi piccoli feudi. Per restare da noi, diremo che il Conte Rainaldo possedeva allora, oltre al tenimento di Celano, Foce, Ayello, Pescina, Venere, Vico nei Marsi, Goriano Sicco, Aschi e Ortona anche i feudi di S. Sebastiano, Cocullo, Secinaro e Molina, soggetti alle servitù militari, mentre i conti Berardo e Ruggero tenevano il dominio di Alba, Castelnuovo, Paterno, Pietraquaria, Trasacco, Luco, Pescocanale ed alcune altre terre.
Egli aveva pure autorità di servitù sulla Valle Sorana, Civita D'Antino, Roccaviva, Civitella, Morino, Collelongo e altre località.
Ora Rainaldo, Berardo e Ruggero, essendo discendenti dei gran Conti dei Marsi, furono gli unici feudatari della Marsica, ossia Valvassori maggiori e massari di beni, ma ligi al re.
Coi Normanni le cose cambiarono: privati di buona parte dei loro feudi, persino aggravati dei servizi militari, perdettero il nome Comites Marsorum e presero quello dei castelli ove dimoravano.
La dinastìa normanna si estinse nel 1198 con la morte della regina Costanza, vedova di Enrìco Hohenstaufen di Germania, figlio dell'imperatore Federico. Costanza lasciò per testamento il regno al figlio Federico di appena tre anni, delegando della tutela papa Innocenzo III, che a sua volta affidò il pupillo alle cure del Cardinale Cenci, divenuto in seguito papa col nome di Onorio III.

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IL PERIODO SVEVO NELLA MARSICA

Federico II, incoronato re di Sicilia verso la fine del 1198, si trovò presto in balia dei feudatari che si contendevano l'influenza politica sul regno.
Solo nel 1206 Innocenzo III, proclamato maggiorenne Federico, permise che questi si recasse in Germania ove potè essere eletto re, nel 1212, a Francoforte, divenendo così incontrastato padrone della Corona di Germania.
Riordinati gli affari del suo paese, fece promessa al nuovo papa Onorio 111 di condurre una crociata contro gli infedeli e dietro assicurazione di amministrare la Sicilia separatamente dall'Impero, cinse il 22 novembre 1220 la corona imperiale in S. Pietro, alla quale cerimonia presenziarono Riccardo di Celano che gli rese omaggio, assieme ad altri baroni, di armi e cavalli da guerra detti destrieri (dextrari).
Ma tale prodigalità sì dimostrò vana per l'ìmprovvìso voltafaccia, in conseguenza del quale la contea di Celano fu arbitrariamente occupata, senza investitura, da Tommaso conte di Molise e Celano, ritenuto dal Febonio fratello d'Innocenzo 111 e dal Gattinara, di Onofrio 111. Ben presto nella contea di Celano si iniziarono serie resistenze contro lo Svevo.
Malgrado una lotta silenziosa quanto disperata del conte per il possesso del castello d'Ovindolì e della rocca di Boviano, Celano fu costretta a capitolare e rasa al suolo, tanto che si salvò solo la chiesa di S. Giovanni. I Celanesi vennero deportati: parte a Malta e in Sicilia, parte in Calabria. Soltanto nel 1227, per intercessione di papa Onorio III, Federico permise agli esuli di tornare in patria, ove s'affrettarono a erigere una nuova città ai piedi del monte Tino e alla quale fu dato il nome di Cesarea (Caesa, distruttta; rea, incolpata), nome che conservò fino alla morte dell'imperatore.
Tommaso, privato della signoria del Molìse e di Celano, si pose al servizio della S. Sede, sotto Gregorio IX.
Nei 1229 Fedirico II si decise a intraprendere la crociata in Terra Santa, per la quale più volte aveva fatto solenne promessa al papa. Ritenuto spergiuro, sia pure per ragioni di Stato, al suo ritorno trovò la Valle di Sora e l'intera Marsica occupata da Tommaso, Ruggero dell'Aquila, altro esule, e da Pandolfo Savelli di Anagni, tutti chiavisegnati. Bastarono a Federico solo duecento soldatì per riportare e mantenere ordine all'interno della Marsica ed ai confini dello Stato.
Per assicurare una pace duratura ai suoi sudditi, Federico II emanò nel 1230, una legge sulle Incastellazioni, in virtù delle quali tutti i castelli, borghi, ville e città dovevano unirsi in confederazione con comunanza di statuti. Ogni castello ebbe una o più parrocchie che formavano come una specie di circoscrizione civile e religiosa.
Il castello era affidato al Magister militum, di dignità inferiore al barone o al conte, ma indipendente da entrambi. Al barone e al conte ogni borgata o castello incastellati dovevano un contingente di soldati e al Magister militum erano dovute le decime delle granaglie per mantenere i soldati e una soma annua di legna per il casermaggio. Vennero introdotte le gabelle e la portolanìa, corrispettivo dovuto per il servizio di guardia alle porte; si riservarono alle proprietà demaniali gli usi civici, come quelli di pascolo, legnatico, raccolta di frutti spontanei, ghiande ed erbaggi nonchè i diritti sulle acque e sulla pesca.
Federico II avocò a sè l'intera giurisdizione, prima demandata ai baroni del luogo, affidando la giurisdizione civile a persone probe dette camerari, scelte fuori provincia, assistite da un regio notaro e da un assessore, tutti stipendiati dal re. I giustizieri prestavano gratuitamente la propria opera ed erano sottoposti alla corte suprema, che provvedeva al controllo annuale delle province mediante i minsi dominici.
Precursore delle future libertà civili, egli diminuì le prestazioni, proibì le faide tra privati, regolamentò il porto d'armi, impedì la successione per linea femminile nei feudi, come pure l'esercizio della giustizia e la riscossione dei tributi da parte di ecclesiastici.
Letterato, protesse le arti; fondò nel 1224 in Napoli un libero Studio Generale, incentivò la traduzione e la divulgazione di opere di gran valore che portarono un prestigioso contributo allo studio della filosofia e della medicina, seguendo le orme dell'Imperatore Carlomagno che, prima di lui, aveva affidato l'educazione e l'istruzione ai religiosi i quali rappresentavano l'unica palestra culturale e spirituale della gioventù.
Per mezzo del suo segretario, Pier delle Vigne, intraprese la riapertura dell'Emissario Claudiano, ostruito durante le invasioni, affidando la realizzazione dell'opera ai Giustizieri d'Abruzzo, ottenendo però scarsi risultati.
Nel 1327 il Giustiziere d'Abruzzo Boemondo ebbe gran parte nella guerra che Federico II mosse ai Longobardi, contro i quali erano stati chiamati a combattere anche le nostre milizie, oltre alle sveve. Dopo aver battuto la lega dei Comuni lombardi a Cortenova, presso le sponde dell'Oglio, Federico dette ordine a Boemondo, di far sì che ai prigionieri non mancasse cibo e per meglio curarli li affidò ai baroni della regione.
Nel 1241 l'imperatore, nella battaglia della Meloria, aveva catturato e trattenuto in ostaggio parecchi cardinali, allo scopo di impedire che prendessero parte a quel Conclave da cui, poi, risultò eletto Innocenzo IV come successore di Gregorio IX.
E, proprio per la guerra aperta e la lotta ostinata che conduceva verso la Chiesa, fu scomunicato e destituito da questo nuovo papa. Così la lotta si presentò aperta e lunga: in Germania gli avversari di Federico II innalzarono al trono Corrado, figlio dello Svevo, che sostenne energicamente la guerra in Italia; tutte le città presero parte all'aspra contesa con indicibile ardore, e le grida di "guelfo" e "ghibellino" si ripetevano ovunque con impeto di sfrenata partecipazione.
Nel 1247 Federico II decise di prendere Parma e di raderla al suolo se l'avesse conquistata, come aveva fatto contro Milano suo nonno Federico Barbarossa; ma non vi riuscì per l'eroismo degli abitanti.
Accorato per la disfatta e anche per la cattiva dolorosa sorte toccata al figlio Enzo, prigioniero dei Bolognesi e da loro tenuto impietosamente in carcere per tutta la vita, finì i suoi giorni in Puglia. Era il 13 dicembre 1250, giorno di S. Lucia.
A Federico II successe il figlio Corrado, il quale tentò di rientrare nelle grazie del Pontefice per ottenere da lui nuovamente l'investitura del Regno di Napoli e Sicilia, nonchè la successione all'Impero; ma Innocenzo si dimostrò inflessibile, dichiarandolo decaduto da ogni aspirazione alla sovranità, sollevando per di più contro di lui vescovi e baroni, nonchè tutti i popoli della Germania e gli abitanti di Sicilia e Puglia.
Allora Corrado, pieno di sdegno, si diede a debellare tutti gli oppositori, riuscendo, dopo varie vicende, a ridurre all'obbedienza l'intero Regno.
Morto Corrado, nel 1252, suo figlio Corradino, essendo ancora minorenne non potè salire al trono perciò, il potere fu assunto da suo zio Manfredi. Questi, con il titolo di principe di Taranto e vicario del nipote Corradino, prese le redini del governo e le tenne fino al 1258 quando, essendosi diffusa la notizia che Corradino era morto, il governo passò definitivamente a suo zio. Nel mese di ottobre 1264, morto Urbano IV, gli successe Clemente IV, il quale, nutrendo buoni propositi verso Carlo d'Angiò, lo indusse a venire in Italia ove fu accolto con grandi festeggiamenti nel 1265. Lo scontro tra Manfredi e Carlo d'Angiò era inevitabile e avvenne presso Benevento, ove si combattè aspramente da ambo le parti; Manfredi, tradito da molti dei suoi, vi restò ucciso. La disfatta di Manfredi fece decidere Corradino a tentare il recupero del Regno. Giunto questi in Italia con un esercito di circa 10.000 uomini esperti d'arme, si scontrò il 23 agosto 1268 nei Campi Palentini presso Scurcola con l'esercito angioino formato di appena 6000 uomini. Le sorti della battaglia, in un primo tempo, arrisero a Corradino, i cui armati, per la grande euforia del momento, si abbandonarono a sfrenate dimostrazioni di gioia; dallo sbandamento dell'esercito germanico, trasse profitto Carlo d'Angiò che irruppe nel campo con 800 lancieri a cavallo i quali, penetrando nel fianco dello schieramento avversario, sconfissero il nemico, così duramente che gli echi di quella terribile giornata si fecero sentire a lungo, tanto da commuovere, ancora oggi, il passeggero solitario che si attarda a riguardare quel triste teatro di guerra che segnò, con la morte di Corradino, la fine degli Svevi in Italia.
Come si può facilmente osservare, in un paese come il nostro, sottoposto prima,alle scorrerie dei barbari, poi alle invasioni dei principi stranieri che si disputavano le nostre più belle contrade, non potevano mancare le fiere lotte delle due potenti famiglie della campagna romana: degli Orsini e dei Colonna che piombavano, come falchi, sulle ridenti contrade della Marsica, mettendole a ferro e fuoco con le loro aspre contese che divennero quasi leggendarie.
In una siffatta situazione che vedeva calpestati i più elementari diritti umani, non tardò a manifestarsi il brigantaggio, che altro non fece se non aggravare la già insostenibile situazione con azioni delittuose dirette spesso ai danni degli oppressi anzichè degli oppressori.
In quell'epoca la Marsica risultava divisa tra le due contee di Alba e Celano, legate indissolubilmente al giuoco delle successioni tra Svevi, Angioini e Papato. Ma, in seguito, essa cadde nelle mani delle potenti famiglie degli Orsini e dei Colonna.
Più tardi i Colonna, sopraffatta la famiglia rivale, governarono le due città con il titolo di duchi di Tagliacozzo e poi con quello di duchi dei Marsi. Successivamente, col mutare della situazione politica, si stabilirono altri rapporti e gli Orsini entrarono in possesso della regione del lago di Fucino. Sul finire del XII I secolo essi ebbero, da Carlo 1 d'Angiò, le contee di Tagliacozzo e di Alba. A dire il vero, da allora, Alba non risorse più anche se la contea, feudo reale della contessa Filippa, seguitò a ritenere il suo nome per più di un secolo. Ma gli irriducibili Colonna, non riuscendo a tollerare una simile situazione, si preparavano già alle armi, quando Martino V (Ottone Colonna, 1360 1431), con abile scelta di tempo, evitò lo scontro armato, concedendo la contea di Celano ai membri della sua famiglia. Però, in seguito alle guerre di possessione (1420 1442), dovette esservi un'alternativa di governo tra i Colonna, il Demanio, gli Orsini e i Caldora se, alla fine delle ostilità, il potere restò nelle mani di Giovanni Antonio Orsini, il quale era anche conte di Tagliacozzo (Brogi, Gli Statuti antichi di Avezzano, p.96).
Nel 1457, sotto la denominazione Aragonese, il potere ritornò al Demanio, ma nel 1461 l'intera zona fu nuovamente feudo degli Orsini, mentre la terra di Celano ed alcune altre d'Abruzzo, nel 1463, divennero dominio dei Piccolomini per decreto di Re Ferdinando.
Dopo il 1480 la contea fu alternativamente possesso dei Colonna e degli Orsiri ma, nel 1499, divenne definitivamente dominio dei Colonna, unitamente a Tagliacozzo e alle Baronie di Carsoli e di Civitella Roveto. Però Celano, a partire dal 1591, ritornò ai Piccolomini, e precisamente ad Antonio, discendente di Pio ff;. poi passò al casato di Camilla Peretti, sorella di Sisto V e, successivamente, ai Savelli, ai Cesarini, ai Cesarìni Sforza ed infine agli Sforza Botavilla, cui era già sottoposta la Baronìa di Pescina che estendeva la sua longa manus su quella che fu la nobile e più antica Capitale, cioè Civitas Marsiae o Marruvíum.
L'abolizione dei feudi pose fine non solo al dominio dei Colonna sulla Marsica, ma anche agli abusi degli altri casati; da tale epoca le vicende storiche di questa meravigliosa contrada d'Italia seguirono le sorti della rimanente parte d'Abruzzo.

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L'ECONOMIA DELLA MARSICA NEL MEDIOEVO

Fin dai primordi la Marsica ebbe sempre una economia prevalentemente silvo pastorale.
Però, col prosciugamento del Fucino, avvenuto tra il 1854 e il 1876, prese graduale soppravvento l'economia agricola che rappresenta ancora oggi la principale risorsa occupazionale dei suoi abitanti, grazie alle idee chiare e geniali del Principe Alessandro Torlonia e dei suoi illustri collaboratori che seppero portare a termine l'ardua impresa, restituendo all'agricoltura oltre 16.000 ettari di fertilissimo suolo agrario, che ha assicurato sostentamento alle ultime generazioni di agricoltori e alle rispettive famiglie.
Ma, se grande e indimenticabile fu l'impresa quasi sovrumana e benefica della casa Torlonia, riconoscimento che le è dovuto dalla obiettività storica e dal libero pensiero, altrettanto grande fu il lavoro dei braccianti e degli agricoltori dei paesi ripuari del Fucino, i quali prima di porre mano ai lavori di dissodamento stagionali nei piccoli campi loro assegnati, in diversi appezzamenti, si sottoponevano, per liberare il terreno dagli infestanti canneti, sempre risorgenti, ad un intenso dispendio di energie, pur di uscire da un'assurda e disperata condizione di vita "che 'ntender no la può chi no la prova". (Dante, Vita Nuova, 26).
Se a questo stato di cose si aggiunge la triste pagina delle avverse stagioni in cui i raccolti andavano interamente perduti, si può facilmente immaginare il grave disagio morale e materiale in cui venivano a trovarsi le famiglie di quei lavoratori che non sapevano più a qual santo votarsi'per sbarcare il lunario e far fronte, oltre tutto, agli impegni di pagamento assunti verso l'Amministrazione Torlonia.All'assegnatario insolvente, infatti, trascorsi i termini di tolleranza previsti nel capitolato di affitto, veniva dato lo sfratto legale, mediante diffida che suonava come una vera e propria condanna penale.
Non vi è dubbio che il bacino del Fucino costituisse un comprensorio fertilissimo, ma per renderlo produttivo occorrevano capitali adeguati da consentirne l'efficace dissodamento, poichè è noto che qualunque terreno agricolo dà risultati soddisfacenti solo se opportunamente preparato, come ci ricorda Cicerone con questa similtudine: "Ut ager, quamvis fertilis, sine cultura fructuosus esse non potest, sic sine doctrina animus".
Il significato a noi utile è il seguente: "Come un campo, quantunque fertile, non può produrre frutto se non opportunamente dissodato, così non è in grado di fare la mente senza intelligente istruzione".
Tale insegnamento rappresenta quasi un invito alla cultura spirituale: una pagina che non poteva passare sotto silenzio.
Dopo aver tentato di restabilire un certo equilibrio nei due piatti della bilancia, sull'opera e il lavoro dell'uomo, cercheremo, brevemente, di fare il punto della situazione sulla politica economica del Fucino, prendendo da uno studio molto approfondito dell'illustre studioso della Valle Roveto Mons. G. Squilla,c4o) che riproponiamo all'attenzione del lettore: "l'ambiente agronomico del Fucino può essere definito buono e favorevole. L'intensità delle colture è molto elevata e comunque superiore a quella delle rimanenti zone agrarie poste al di fuori dell'exlago. Oltre il 50070 del seminativo è costituito da rinnovi industriali: bietole da zucchero e patate. L'insediamento del Fucino è prevalentemente quello tipico del nostro Meridione: circa il 90070 della popolazione vive dispersa nei paesi ripuari per cui i terreni dell'ex lago risultano quasi disabitati. La conca fertilissima del Fucino, emersa dalle acque, divenne ben presto il cardine di tutta l'economìa della zona e costituì per la prima volta, dopo tanti anni di storia isolata nel tempo, il punto di convergenza delle circoscrizioni limitrofe".
"Prima d'allora, l'alternarsi degli eserciti di passaggio e il giogo delle diverse dominazioni: longobarda e sveva, poi angioina e normanna, avevano tenuta la Marsica divisa da diverse contee e da opposte fazioni".
"...Ad Avezzano, ove si incrociano le rotabili e si diparte l'autostrada congiungente Roma e Pescara, sono ubicati gli uffici preposti all'amministrazione della giustizia, della vita politico sociale ed economica del Fucino e delle zone adiacenti o contigue. L'incremento demografico, legato al miraggio della terra nuova, andò assumendo dimensioni senza uguali'.
"Dai 25.770 abitanti del 1861, quando i lavori di prosciugamento erano stati appena avviati, si passò nel 1961 a 64.540 abitanti. L'indice di incremento dal 1861 al 1951, nonostante il terremoto del 1915 che falcidiò circa 30000 vite uma
ne, assomma al 150,44070, contro il corrispondente indice di accrescimento della provincia che ammonta appena al 36,56070".
"Un quadro più preciso della situazione demografica si ha confrontando il dato della superficie dei dieci comuni del comprensorio del Fucino (45.000 ettari) con quello della popolazione, che è di 64.540 abitanti".
"La densità media risulta di 145 abitanti per kmq. Ma se il rapporto si istituisce tra la popolazione e la superficie a seminativo di ha. 26.700, la densità della popolazione risulta di 242 abitanti per kmq. In un ambiente essenzialmente rurale, come è certo quello marsicano, un indice tanto alto non trova, forse, riscontro in nessun'altra zona montuosa del nostro intero Paese. Ciò chiarisce l'importanza del fattore demografico che condiziona tutti i problemi economici e umani della Marsica".
All'Amministrazione Torlonia, come abbiamo accennato altrove, dopo la seconda guerra mondiale, subentrava nel 1950, l'Ente per la colonizzazione della Maremma e del territorio del Fucino, che in virtù delle nuove conquiste sociali, provvedeva alla assegnazione dei terreni ai contadini compresi nei Comuni di Avezzano, Luco dei Marsi, Trasacco, Ortucchio, S. Benedetto dei Marsi, Pescina, Cerchio, Aielli, Celano, dove vivono più di 50.000 abitanti, i quali con rinnovati mezzi di movimento terra, hanno potuto raggiungere un certo grado di benessere, inserendosi, meritoriamente, nel vasto orizzonte della cosiddetta civiltà del lavoro.
Tuttavia, rimane il problema da sempre avvertito e mai decisamente risolto e, cioè, quello dei prodotti agricoli non venduti, destinati a marcire nei magazzini.
Non è certamente questa la sede per affrontare un tema sì grave, però, riteniamo di spezzare una lancia in favore dei tanti agricoltori, rimettendo agli organi di governo, il compito di intervenire, con opportune strutture innovative, per scongiurare il minacciato abbandono dei campi e restituire la necessaria fiducia ai benemeriti lavoratori della terra.
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Emilio Cerasani - "Marruvium e S.Sabina memorie storiche di due civiltà"

 

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