Nella lunga lotta tra Romani e Sanniti,
i Marsi si troveranno impegnati quasi sempre a riaffermare i propri diritti;
anche quando questi due popoli, tra i maggiori d'Italia, pur stretti da
un vincolo d'allenza rinnovato nel 354 a.C., ruppero tra loro nel 340.
Ecco come il potente vicino, per sete di dominio, entrò in conflitto:
"I
bellicosi Sanniti, d'origine sabellica, al pari dei Marsi, discesi dai
monti dell'Appennino, s'erano allargati in Campania occupandone la capitale
Capua (Santa Maria Capua Vetere), città superiore a Roma per civiltà,
lusso e commercio, divenendo padroni dell'intera area meridionale.
Procediamo per "annali".
340 a. C. I Campani, sconfitti, chiesero aiuto al senato romano, invocando
il protettorato della Repubblica e dichiarandosene sudditi. Roma, forte
delle sue alleanze, prese alle spalle i Sanniti che pur le resistettero
con estremo vigore. Furono però sconfitti e costretti a lasciare
sul terreno, in potere dell'avversario, considerevole bottino d'armi e
vessilli. Gli indomiti Marsi, in tale conflitto, combatterono alla grande.
326 a. C. Seconda Guerra Sannitica, durata ben 22 anni.
Troviamo ora i Marsi alleati con Roma e fa meraviglia vedere i forti e
valorosi guerrieri combattere a fianco dei Romani, contro gli autonomi
Sanniti che pur difendevano quei diritti di cui i Marsi furono sempre
gelosi custodi, in quanto rappresentavano un vincolo sacro. Nello stesso
anno 326, Romani e Marsi si strinsero in lega contro i Sanniti che fomentavano
disordini, mandavano aiuti alla colonia greca di Neapolis, anche questa
ribelle, e appoggiavano i rivoltosi di Priverno. Anche in tale seconda
fase della guerra, i congregati entrarono da invasori nel Sannio, devastandone
il territorio e debellandone le difese.
322 a.C. I Sanniti ritentano la fortuna delle armi.
Nel primo scontro, costrinsero i Romani a ritirarsi ma, riaccesosi più
forte il combattimento, i Sanniti, pari nel valore, dovettero soccombere
agli avversari con la perdita dei loro migliori capi e dei più
valorosi guerrieri.
321 a. C. Gli indomabili Sanniti si riorganizzarono e mossero guerra di
sorpresa, attaccando i luoghi a loro noti e favorevoli a imboscate. Nello
scontro avvenuto presso Caudium, ingannati da uno stratagemma, Romani
e Marsi caddero insieme, senza potere usare le armi, in mano ai Sanniti
che li umiliarono con atroce vendetta. Così i più famosi
militi del tempo, ignudi e spogli, passarono sotto il giogo delle Forche
Caudine, insultati e battuti con il flagellum.
319 a. C. Con ragione i Romani attesero il momento della vendetta e di
diritto rientrarono nel Sannio, costringendo gli avversari a un duro armistizio.
315 311 a. C. I Sanniti non chiesero mai la resa. Benchè devastati
e umiliati a loro volta, ripresero le redini della guerra inoltrandosi
nel Lazio e giungendo addirittura fino alle porte di Roma, invadendo e
devastando anche il territorio dei Marsi ove rimase nelle loro mani, per
circa otto anni, il centro fortificato di Plistia, l'attuale Pescasseroli.
I Marsi, frementi di sdegno nel vedere il loro territorio esposto al saccheggio,
si accesero d'ira contro la stessa Roma. I1 mancato intervento, in assenza
d'ogni difesa, permise di mettere a ferro e fuoco l'intera Marsica, e
ciò mentre i figli di essa militavano tra le legioni, come veliti,
astati, esposti, cioè, al duro rischio del primo scontro. Ecco
un "foedus iniquum"!
Il vincolo che legava la stirpe Umbro Sabellica non era sciolto; ed i
Marsi si unirono coi loro antichi alleati: Piceni, Frentani, Marrucini,
Vestini e Peligni o Ernici ed Equi, con un vincolo ancor più profondo,
mediante offerte di aiuto. Finalmente s'era compresa la verità:
il destino del Sannio era quello dei Confederati, la causa dei Sanniti
era la causa di tutta l'Italia.
Primo frutto di questo patto fu la restituzione di Plistia ai Marsi.
L'odio contro Roma si accresceva e gli Italici, intorno all'anno 308,
misero assieme poderose forze in grado di competere con la potente avversaria.
Lo scontro campale fu ancora più violento, ma l'arte strategica
ebbe ragione della guerriglia, i movimenti di massa chiusero in una morsa
i ribelli, costretti a ritirarsi, ad aprire le fortificazioni, e rassegnarsi
ad abbandonarle: non avevano altra scelta che chiedere pace, concludere
trattati di amicizia basati su clausole di apparente uguaglianza.
art. 305 303. In tale periodo i Romani, per assoggettare completamente
gli infidi Equi, mandarono una colonia di 4000 uomini a Carseoli. I Marsi
tentarono di impedire tale stanziamento e l'occupazione del territorio,
attaccando Carsoli. Il dittatore M. Valerio Massimo li respinse e li costrinse
a ritirarsi, fino a che tutti i centri abitati della Marsica non caddero
nelle sue mani. Infine fu espugnata Marruvio che oppose tenace resistenza,
e fu l'ultima delle città marse a cadere. Tito Livio afferma che
il capoluogo fu distrutto proprio nel corso di tali operazioni.
Dopo la disfatta, i Marsi inviarono legati
a Roma per essere riammessi nella sua amicizia purchè fossero lealmente
trattati da alleati.
Roma li riammise, inviando, nel contempo, ad Alba una colonia di duemila
uomini a presidio della sua sicurezza.
an. 295 a. C. Prima lega italica.
I Sanniti sapevano per esperienza che la pace da loro accettata era più
rovinosa di una guerra, per cui desideravano riprendere le ostilità,
aiutati da Celti ed Etruschi, ugualmente disposti a mettere di nuovo mano
alle armi e tentare la sorte contro Roma, l'eterna nemica.
I Marsi, gli Umbri e gli altri popoli d'origine sabellica risposero in
pieno all'appello rivolto loro dai Sanniti. Fu tutto un accorrere di sussidi
convergenti nei punti strategici.
an. 294. Mancando tra i capi una solida identità di vedute, i Romani,
anche in tale circostanza, ebbero la meglio sugli avversari, costringendoli
alla fuga dopo avere lasciato sul terreno 25.000 morti e nelle loro mani
oltre 8.000 prigionieri. In seguito a tale disastro, l'esercito dei confederati
si sciolse. Solo 5000 Sanniti e pochi Marsi superstiti a quella strage,
a marcia forzata e con infiniti stenti, riuscirono a trovare sicuro riparo
dopo avere attraversato tutto il territorio nemico.
Nel medesimo tempo, con un'estrema sortita, gli indomiti Sanniti assalirono
il campo trincerato del console Attilio Regolo.
Intanto
giungeva da Roma, per volere del senato, l'altro console L. Postumio con
truppe fresche. Rinchiusi e assediati a Milonia, i Sanniti provarono di
nuovo a battersi, ma non bastò il valore in quanto sopraggiunti
nuovi rinforzi anche questa città fu presa e data al saccheggio.
Tra Sanniti e Marsi, oltre quattromila furono le vittime e, oltre ai caduti,
altrettanto furono i prigionieri.
La magnanimità di Roma si rivelò nelle condizioni di pace
imposte.
Non fu presa alcuna decisione umiliante contro questi ultimi, che d'allora
in poi si comportarono come leali compagni d'arme e non come sottoposti
ad una alleanza forzata con Roma.
an. 283. I Marsi, alleati di Roma assieme a Vestini, Peligni, Marruccini
e Frentani, marciarono contro i Galli che, sconfitti al primo scontro,
vennero ricacciati oltre Arezzo, nel cui agro avevano provocato gravi
danni.
Per impedire la completa disfatta dei Senoni, intervennero dal nord i
Boi, correndo in loro aiuto; rna il console Domizio li sbaragliò,
facilitato in tale impresa dagli alleati Marsi.
an. 280. l Romani, raccolto un esercito composto di vari alleati (ma formato
principalmente da Marsi), forte di ben 50.000 uomini, affrontarono il
nemico sulle rive del fiume Siri o Sinno, ove la battaglia si svolse con
alterna vicenda. Le truppe erano in marcia nel tentativo di ricacciare
un temibile invasore: il re dcll'Epiro. Pirro fece intervenire gli elefanti:
e fu la prima volta che in Italia si videro tali pachidermi. Questi provocarono
enorme scompiglio nelle schiere dei
legionari, per di più incalzati dalla falange macedone, tanto che
l'intero contingente trovò scampo nella fuga. Ma gran numero di
alleati era già caduto in mano del nemico, tanto che la notizia
della disfatta era giunta a Roma e a Marruvio, entrambe in lutto.
La situazione fu aggravata dall'entrata dei Lucani a favore di Pirro.
Anche i Sanniti, inattesi, si risvegliarono e giunsero alle porte di Roma,
spinti dalla speranza di avere dalla loro parte anche gli Etruschi. Ma
gli stati federali, fedeli alla lega, chiusero loro le porte in faccia.
Roma intanto si preparava alla difesa. Pirro, sapendo di combattere contro
un formidabile nemico, mandò un suo ambasciatore a proporre la
pace ai Romani; la risposta fu la seguente: "Se Pirro vuole la pace,
esca prima dall'Italia". Così lo scontro si rese inevitabile.
I Romani coi Latini, Volsci, Enrici, Sabini, Marsi, Peligni, Vestini,
Marrucini,Umbri, Frentani e Campani, con un esercito di 70.000 combattenti,
mossero guerra agli invasori su un terreno boscoso.
La battaglia si protrasse accanitamente fino a notte con dubbio esito.
Infine la vittoria arrise a Pirro, anche se gli costò assai cara,
perchè in questa lotta il fior fiore del suo esercito perì
ed egli stesso rimase ferito. Poi un nuovo contingente romano, al comando
dei consoli G. Fabrizio e Q. Emilio, rimpiazzò quello distrutto.
Pirro si convinse, a mezzo di ambasciatori assai scaltri, che era preferibile
aderire alle proposte offerte e, accettando una tregua onorevole, diede
ordini di soccorrere Siracusa, imbarcando l'esercito.
Ciò avveniva nell'anno 276 a.C.
Ma Pirro non tenendo fede alla promessa, intervenne nella guerra di Taranto.
Roma mosse in forze contro lo straniero, sconfiggendolo dopo una sanguinosa
e terribile battaglia nel corso della quale gli elefanti impauriti dai
fuochi e terrorizzati da frecce roventi, feriti pur essi nello scontro,
si rivolsero contro le file degli stessi epiroti, scompigliandone e disperdendone
le schiere.
I Romani trassero profitto dallo smarrimento degli avversari, fino a batterlo
e distruggerlo totalmente, restando padroni del campo e di un ricco bottino.
A Pirro non restò altra scelta che lasciare l'Italia, abbandonando
i suoi a una triste sorte di schiavitù. In Roma la vittoria fu
celebrata con generale esultanza.
ROMA NELLE GUERRE PUNICHE
COI MARSI E CON GLI ALTRI ITALICI
Prima guerra contro Cartagine
an. 261 a.C. Roma si misurò con una grande potenza mediterranea
e in tale lotta la Sicilia divenne un campo di battaglia.
Nella presa di Agrigento dell'anno 261 e nella vittoria navale di Milazzo,
a nord di Messina (259), i Marsi, sotto il comando del console Rutilio,
si associarono ancor di più a Roma, divenuta una potenza marinara,
dando prova di estremo valore e contribuendo efficacemente all'esito felice
dello
scontro, come pure di quelli successivi.
an. 255 a. C. I Romani stabilirono di portar guerra a Cartagine e apprestarono
un corpo di spedizione. Nerbo di quel contingente, votati a ogni evenienza,
fu l'armata italica: forte di 330 navi, divisa in 100.000 uomini di ciurma
e 40.000 da sbarco, comandati dai consoli Attilio Regolo e Lucio Manlio.
I Romani cercarono lo scontro immediato che avvenne con grande violenza,
avendo i Cartaginesi 350 navi e ugual numero di uomini, per la maggior
parte mercenari Numidi. I Romani, galvanizzati dai precedenti successi
oltre mare, riportarono una strepitosa vittoria e si accanirono nell'inseguire
il nemico. Sbarcati in Africa, cercarono di scovare i fuggitivi in anfratti
boscosi ove, però, non era possibile fare uso delle armi in dotazione.
I Punici chiesero la pace, che ottennero solo a dure condizioni, ma si
prepararono a nuovi e più duri cimenti.
an. 254 a. C. Nella primavera di quell'anno i Punici scesero di nuovo
in campo e mostrarono, in numerose prove, estremo coraggio, mediante scelta
del sistema di battagia campale inaugurato da Pirro, ponendo nella mischia
fino a cento elefanti a sostegno dell'armata. Le sorti volsero così
a favore del nemico e il console Regolo fu fatto prigioniero. I Romani
non si persero d'animo; allestirono una nuova flotta di 350 navi, sconfiggendo
finalmente i Punici che lasciarono in loro mano un bottino di 114 navi.
Paghi delle vittorie conseguite e di aver fiaccato la potenza punica,
i Romani fecero vela verso l' Italia, ma in una violenta tempesta la maggior
parte delle loro navi andò a picco.
an. 250 a. C. Gli Italici, al comando di G. Cecilio Metello, riportarono
finalmente una decisiva vittoria sull'eterno nemico sotto le mura di Panormum,
catturando anche 120 elefanti.
an. 249 a. C. Marsi e Italici godettero finalmente di vera pace, che fu
però di breve durata. Nel successivo 248 una flotta aveva fatto
vela verso le coste siciliane per presidiarle, ma fu sorpresa presso Trapani
da navi rivali, che la inseguirono e la catturarono. Il Senato volle ridurre
l'armata marittima e si limitò a controllare i focolai di guerriglia
sempre accesa in Sicilia, aggravata dalle incursioni dei pirati Mamertini,
favoriti e protetti da Cartagine.
L'economìa romana, privata degli empori e dei mercati granari,
rischiava una crisi assai grave e riuscì a risollevarsi solo grazie
a sottoscrizioni aperte a Roma, Marruvio e in altre sedi di alleati. Con
tali offerte non proprio volontarie
fu allestita una nuova flotta di oltre 200 navi con nuovo equipaggio di
60.000 uomini meglio addestrati alla milizia marittima. an. 240 a.C. Nella
primavera del 240 a.C. il console Lutazio Catino si diresse in Sicilia
stringendola d'assedio per mare e per terra, riuscendo a prendere per
fame le guarnigioni cartaginesi ivi stanziate. Appena fu chiesta la pace,
Roma fu magnanima nell'accordarla, estendendo in realtà il dominio
sull'intera isola ribelle.
Né si trattò di incursione pura e semplice; la conquista
permanente provocò una reazione dal settentrione, lungo quei confini
alpini rimasti sguarniti. an. 228 a.C. I Celti premevano, forti di 50.000
fanti e 20.000 cavalieri concentrati in "turmae" che si accrebbero,
nello scendere rapidamente lungo i versanti appenninici, di altri volontari
fino ad assumere l'aspetto di un vero corpo di spedizione. Erano 200.000
uomini minacciosi e ansiosi di devastare le pianure appoderate. La minaccia
preoccupante convinse molti ad arruolarsi in fretta. Si formò un
esercito raccogliticcio di 43.000 romani e di 50.000 uomini appartenenti
alla riserva, lasciati a presidio di Roma.
L'esercito, custode fermo delle libertà italiche, fu convinto a
marciare verso la Gallia Cispadana, ma lo scontro decisivo avvenne per
strada e precisamente in Etruria; dopo un accanito e sanguinoso combattimento,
la vittoria arrise agli Italici, che liberarono il paese dal pericolo
d'invasione. Roma restò padrona di tutta l'Italia anche della parte
settentrionale, detta Gallia Transpadana, fino alle Alpi.
I MARSI ALLEATI DI ROMA CONTRO CARTAGINE
an. 218 a.C. Nel dicembre del 218 a.C.
l'esercito romano si scontrò sulle rive del Ticino con quello di
Annibale. I
Romani ebbero la peggio. Scipione, dopo una ritirata strategica, si trincerò
in una munitissìma roccaforte per cui Annibale fu costretto a fermarsi.
Nel frattempo, per ordine del Senato, il console Tiberio Sempronio, col
suo esercito, dalla Sicilia raggiunse Scipione ancora sofferente per una
ferita riportata in battaglia. an. 217 a. C. La neve cadeva a valanghe.
I Numidi finsero d'indietreggiare, ripassando oltre il fiume Trebbia.
L'inesperto Sempronio li inseguì, ma le gelide acque fiaccarono
i prodi Italici intirizziti dal freddo e investiti da zaffate di neve
sul viso. Annibale, dopo avere dato ordine all'esercito, entrò
in battaglia. Le legioni tennero testa al nemico formando come un muro
invalicabile. Intanto Magone, fratello di Annibale, al comando di un corpo
scelto di guastatori composto di duemila uomini, tese un'imboscata, piombò
sugli Italici e li disperse. Lo scontro fu disastroso per entrambe le
parti e al vincitore costò addirittura la totale perdita di elefanti.
Roma, all'annuncio della tragica disfatta, prese il lutto per la seconda
volta, mentre in Italia s'addensavano oscure prospettive.
an. 216 L'orizzonte era cupo. Come si è detto, i più neri
auspici già predicevano che l'Italia sarebbe caduta in balia del
nemico.
Il Senato Romano fece fronte al pericolo immediato, allestì nuove
forze, controllò che gli alleati Italici facessero altrettanto,
affidò il nuovo esercito ai consoli Servilio e Flaminio che raggiunsero,
a marce forzate, il Trasimeno dove mossero contro Annibale.
Al mattino della battaglia una nebbia densissima scese sul campo, tanto
che a breve distanza era impossibile riconoscere i luoghi.
Annibale approfittò di questa circostanza ed assalì, da
ogni parte, gli Italici che resistettero fieramente; ma si aspra fu la
lotta e sì forte lo strepito delle armi, che non venne avvertita
nemmeno una forte scossa di terremoto che in quel frattempo distrusse
varie città.
Tremenda fu la disfatta; l'esercito italico ebbe danni incalcolabili;
oltre 30.000 risultarono i caduti, solo 10.000 uomini sfuggirono all'accerchiamento.
Ma fu per essi un danno ancor maggiore della morte il dover cercare la
salvezza.
an. 216 Annibale aveva dunque vinto ancora una volta, grazie alle spie
e ai delatori che operavano a Roma e nelle file dell'esercito italico.
Il condottiero punico aveva risvegliato il desiderio di ribellione proprio
degli irrequieti Sanniti. Sul piano tattico i Cartaginesi riuscivano ormai
a reggere il confronto. Annibale riusciva a conoscere i piani nemici tramite
i suoi famosi esploratori. Celebre era la cavalleria punica, posta molto
spesso come raccordo e collegamento tra avanguardia e ali. Sebbene vittorioso,
il condottiero cartaginese si rendeva perfettamente conto che non avrebbe
mai domato Roma se prima non fosse riuscito a sciogliere la compatta federazione
italica. Non essendo riuscito a spezzare tale solidarietà con le
promesse, iniziò una lunga serie di scorrerie nei Piceni, Vestini,
Frentani, Marrucini, Peligni e Marsi senza incontrare apparente resistenza.
Gli Italici non si arresero, ma aspettavano ordini da Roma.
Nell'attesa, nella Marsica, come in tutto il territorio italico, si formarono
nuove leve. Il dittatore Q. Fabio Massimo organizzò e addestrò
le nuove legioni ampliandone i quadri; poi le spostò in Puglia
ove erano gli accampamenti estivi di Annibale.
an. 215 a. C. Il 2 agosto, presso Canne, Varrone, console che la storia
giudicherà inetto e incapace, diede da solo il segnale della battaglia.
Paolo Emilio fu costretto a seguirlo in tale decisione. Annibale trasse
immediato profitto dalla decisione affrettata. Con somma abilità
tattica, dopo avere esaminato dall'alto lo spiegamento strategico delle
schiere romane, agì in maniera tale da attirarlo in una via senza
uscite, muovendo alle spalle del nemico e spingendolo poi verso il nucleo
cartaginese che lo schiacciò completamente. Stupore e dolore giunsero
al colmo, ma nemmeno stavolta piegarono l'animo di Roma. Anzi le città
alleate le si strinsero attorno e la sventura mise fine ai contrasti tra
patrizi e plebei. Presto un nuovo esercito, forte di 200.000 veri guerrieri,
fu preparalo e affidato a condottieri più sperimentati, facendo
prevalere subito il concettto di guida unica. Emerge la figura del dictator.
Intanto Annibale, prevedendo che avanzando su Roma non avrebbe mai raggiunto
utili risultati, stimò recarsi a Capua da dove sperava impadronirsi
dei porti della Campania e mettersi in diretta comunicazione con Cartagine
da cui era isolato. an. 211 I Romani allora strinsero d'assedio Capua.
Annibale, sempre più audace, con ardito e intelligente disegno,
marciò verso Roma attraversando il Sannio, devastando campi e terre
di Cerfennia (l'odierna Collarmele), e d'Alba Fucente. Marruvio e le altre
città marsicane fortificate, allarmate da tale manovra diversiva,
si posero in istato di allarme. Ma il condottiero, accortosi che il piano
era stato scoperto, fu costretto a retrocedere, architettando nuovi disegni:
ma vide sfumare il sogno di raggiungere le mura di Roma e tornò
in Campania. an. 204 I Romani, poichè Annibale continuava a imperversare
da padrone sul territorio italico, decisero di trasferire a Cartagine
il teatro delle operazioni, costringendo, con mossa altrettanto abile,
Annibale a tornare in patria.
Per tale operazione di sbarco, la prima che la storia ricordi, il comando
operativo fu affidato a P. Cornelio Scipione con 7000 uomini, quasi tutti
volontari, tra i quali erano numerosi Etruschi, Umbri, Marsi, Peligni
e Marrucini, oltre a due legioni superstiti dalla battaglia di Canne.
Nel febbraio si fece vela verso le coste dell'Africa.
Nel successivo 203, dopo vari fatti d'arme nel corso dei quali cadde prigioniero
il Numida re Siface, fu notevole l'apporto dei Marsi, che anche da soli
fermarono la famosa cavalleria numida e conseguirono risultati insperati.
an. 201 Sotto il comando di Scipione gli Italici debellarono la potenza
navale cartaginese. A Zama fu vendicata la vergogna. Fatta la pace, i
prodi tornarono tutti in patria, coperti di gloria e colmi d'onore e ricchezza.
In tale epoca i Marsi continuarono a lottare a fianco di Roma, sicuri
del successo che ormai arrideva alle aquile romane, contribuendo così
al progresso civile che rinvigoriva le legioni cariche di trofei, insegne
tolte ai vinti, spoglie d'imperi orientali, sconfitti o abbattuti.
I Marsi coi Romani alla conquista del mondo
an. 197 Soggiogata Cartagine, i Romani, con l'aiuto dei Marsi e di altri
alleati, nel 197 iniziarono l'occupazione dell'Italia Settentrionale fino
alle Alpi, sgominando completamente i Celti. Nello stesso tempo vari fatti
d'arme volsero a favore degli Italici nella guerra macedone, tanto che
nel 196, il console T. Quinzio Flaminio sottomise il Re Filippo, aprendo
la strada della Grecia alla penetrazione romana. Caduta in potere del
vincitore, la civiltà attica a sua volta irrobustì e raffinò
usi e costumi italici, una volta considerati assai rozzi. Fu così
che, col contributo degli alleati, Roma sottomise e dominiò l'intera
Asia Minore, sede di raffinati regni ellenistici, fondati dai successori
di Alessandro Magno.
an. 189 Sotto la guida di P. Cornelio Scipione, il vincitore di Annibale,
i Romani, attraverso Macedonia e Tracia, raggiunsero e passarono l'Ellesponto,
come Annibale aveva valicato le Alpi.
Antioco, re di Siria, tentò di trattare la pace ma, non potendo
accettare le dure condizioni imposte dai Romani, cercò la salvezza
con le armi. Posta in opera tale decisione, anzichè patteggiare
con un esercito cosmopolita di 80.000 uomini, venne alle mani con gli
Italici.
L'esercito di Antioco fu quasi per intero annientato presso Magnesia;
50.000 uomini restarono sul terreno, mentre gli Italici ne uscirono con
lievissime perdite, assicurando a Roma il dominio sulla metà del
mondo allora conosciuto. E in tale insperata impresa i Marsi ebbero gloriosa
parte.
an. 176 Perseo, l'unico erede del regno di Macedonia, tenne ancora testa
a Roma cercando di fronteggiarla per arrestarne l'avanzata di conquista.
L'esercito italico, col suo contingente di 40.000 uomini, fu ancora determinante,
permettendo al console P. Licinio Crasso d'invadere la Tessaglia. Qui,
in un duro e decisivo scontro, fu catturato il re dei Traci: il successo
fu di auspicio per ulteriori imprese.
an. 167 Poiché la lotta si trascinava senza esiti decisivi per
gli sconfinamenti del ribelle Perseo, fu mandato contro di lui, con pieni
poteri, il console L. Emilio Paolo che spinse il proprio esercito immediatamente
contro quello di Perseo. Sulle prime, l'avanguardia italica fu dispersa
ed una coorte formata da Marsi e Peligni fu quasi distrutta.
Ma la fortuna improvvisamente mutò perché i nemici, atterriti
da una imprevista e improvvisa eclissi solare,lasciarono il campo in preda
alla paura e, inseguiti, persero ben 20.000 uomini oltre a 11.000 prigionieri.
Tale successo tornò ad onore delle armi italiche che assicurarono
definitivamente a Roma un dominio assoluto. In soli due giorni, fu soggiogata
l'intera Illiria e i loro sovrani, Perseo, re di Macedonia e Genzio re
d'Illiria, entrarono in Roma in catene. Perseo fu rinchiuso nelle prigioni
di Alba Fucente ove morì nel 163.
an. 148 Il senato romano, col pretesto d'una supposta violazione del precedente
trattato stipulato con l'irrequieta Cartagine, ne decretò la distruzione
e vi fu inviato il contingente italico per eseguire l'ordine operativo.
La minaccia di veder cancellata la Patria accese ancora negli eredi di
Annibale, il bellicoso e nobile furore, ma a nulla valse l'eroica resistenza
di quei valorosi. Nessuno impedì che la metropoli africana, fondata
da pacifici mercanti fenici, sparisse in un deserto cosparso di sale mai
più esplorato.
Sotto il comando del tribuno militare Scipione Emiliano, dopo altri vari
fatti d'arme in cui ancora una volta rifulse il valore degli Italici,
si compì il destino della città punita. Infatti Cartagine
fu presa d'assalto, saccheggiata e bruciata. Si finì col raderla
al suolo.
145 a. C. Scipione Emiliano, tornato in patria coperto di gloria, volle
onorare di persona Marruvio capitale dei Marsi, ornandola di quelle opere
d'arte riportate come segno di vittoria. Il trionfatore si recò
sul posto e innalzò nel suo foro un monumento di inestimabile valore,
dedicando "Agli dèi consenti" la lapide votiva, la cui
iscrizione, è già stata riportata altrove.
Molti capolavori, statue e ritratti di dèi e di uomini illustri,
furono portati in Malia. I Marsi ne ebbero parte e li offrirono agli dèi
assieme all'oro e all'argento.
In quest'epoca troviamo nella Marsica i migliori architetti italici e
greci, i quali vennero occupati, senza badare a spese, nell'abbellire
e arricchire templi ed are nella regione.
CAUSE DELLA GUERRA CIVILE MARSICA
Come abbiamo avuto già modo di osservare,
Marsi e alleati italici avevano contribuito al successo delle tante guerre
combattute a fianco dei Romani, incrementando assieme ad essi il dominio
della Città Eterna. Ma si vedevano esclusi dal godimento effettivo
delle "libertà civili" (gli odierni diritti politici)
a lungo promessi e giustamente dovuti a compenso di tante prove di valore.
I Marsi in particolare chiedevano il pieno diritto nell'espressione di
un voto che avesse riflessi sulle cariche elettive, onde provvedere, in
misura diretta, alle necessità amministrative locali.
Ma Roma era retta da famiglie rigidamente conservatrici, che ostinatamente
opponevano un netto rifiuto a ogni pur legittima richiesta, affermando
che le reiterate pretese avrebbero minato dalle fondamenta le sacrosante
istituzioni della Repubblica che, se avesse continuato nelle riforme,
avrebbe certo perduta la supremazia sugli Italici
Se chiaro era il motivo apparente, quello di fondo appariva ben altro:
se gli Italici fossero stati ammessi al godimento della piena cittadinanza,
essi i grandi proprietari terrieri avrebbero, perso i latifondi italici,
i famosi possedimenti, i "praedia". E il fatto che gran parte
del popolo languiva nella miseria, non spingeva il ceto dirigente a migliorarne
la condizione.
In verità i tribuni della plebe e i difensori della democrazia
volevano una legge agraria che, a vantaggio comune, regolasse il possesso
dei beni rustici, non essendo accettabile che l'esteso agro restasse di
pertinenza esclusiva a pochi privilegiati. Gli assegnatari avevano dalla
parte loro una legalità formale che legittimava lo "status"
sociale, che altrimenti a parer loro ne sarebbe uscito sconvolto. Tra
tanti disparati interessi, non restava altro, per tentare di risolvere
la questione agraria, che ridistribuire equamente e stabilmente i territori
espropriati al nemico, compresi quelli africani o tolti ai Celti, in base
all'esercizio del diritto fondamentale di residenza o dimora "pro
capite".
Né mancarono in Roma uomini sagaci, animati da vero amor di patria,
consacrati alla causa della giustizia, secondo cui lo Stato doveva mantenere
gli impegni e le promesse, non limitarsi a nutrire semplici aspettative.
Tiberio Gracco (133 a.C.) e Scipione Emiliano, i personaggi più
autorevoli e popolari del tempo, prevedevano le tristi conseguenze cui
la politica discriminatoria seguita dai cosiddetti "ottimati"
sicuramente portava, scuotendo gli animi e sollevando gli Italici, in
modo violento, dalla condizione abietta.
Segreti emissari venivano intanto inviati a Roma dalle principali città
d'Italia; la famiglia dei Siloni era in testa al movimento e ogni decisione
veniva approvata da essa. In seguito a opportuni accordi, Marsi e Italici
s'erano affollati in gran numero a Roma per fare valere le proprie ragioni
e per tentare di ottenere la sperata cittadinanza (anno 126); ma una legge
del tribuno M. Giunio li scacciò dall'Urbe. Allora l'odio serpeggiò,
giunse al colmo e divenne implacabile.
an. 724 a. C. II pericolo di maggiori sofferenze convinse parte del Senato
ad adoperarsi per cercare una soluzione pacifica del conflitto. Il nuovo
console eletto, Q. Flavio Flacco, portò in discussione una legge
che allargava la cittadinanza romana; mala proposta fallì e il
disegno fu respinto con i soliti aristocratici espedienti.
an. 122 Si andava dunque verso la lotta
aperta e senza quartiere. Per acclamazione, la plebe elesse a tribuno
Caio Gracco, un candidato gradito agli umili diseredati, nominato appunto
per riproporre la legge sulla parità di condizione. Ma, contrariato
dai soliti accesi conservatori e trattato come avversario, venne ucciso
durante una sommossa.
an. 100 Anche i tribuni C. Apuleio e M. Druso proposero la legge che accordava
la cittadinanza agli Italici, riscuotendo in tutta la penisola vasta eco
di simpatia. L'assemblea di Marruvio inviò l'illustre oratore Vezio
Veziano, lodato anche da Cicerone, per convincere i padri coscritti, scortato
dal condottiero Q. Poppedio Silone, assai stimato da Druso che gli italici
amavano e stimavano come vera e unica "speranza del popolo".
Caduto malato l'illustre tribuno Druso, persa ogni speranza e messi da
parte gli indugi, i più insofferenti italici diedero inizio alle
ostilità. I Marsi si diedero convegno sul monte Albano e, nascondendo
la mano armata di gladio, proposero fermamente di uccidere ambedue i consoli
in carica. Stabilirono di compiere tale atto, sotto la guida di Poppedio,
durante le Feriae Latinae che venivano celebrate ogni anno nel mese di
agosto.
Silone si mise in marcia verso Roma ma, richiamato dagli stessi amici,
fermatosi a metà strada, fu vinto dalle preghiere di Gneo Domizio
e dall'autorità di Druso, il quale venuto a conoscenza del proposito
delittuoso riuscì con la sua influenza a farlo desistere dal proposito,
promettendogli di far ottenere per vie pacifiche quello che essi volevano
ottenere con la forza. Ma quando Druso, riproponendo la legge si vide
contrariato dai senatori, dai cavalieri e dagli stessi plebei, tumulto
e violenze turbarono l'assemblea; Druso fu assassinato e con la legge
del tribuno Q. Vario, di origine spagnola, veniva dichiarato traditore
della patria chiunque ardisse di concedere agli italici la cittadinanza
romana.
Gli Italici, accorsi a Roma per sostenere le loro ragioni e il loro protettore,
tornarono indignati alle loro case e, pieni di vendetta, si preparavano
a farsi ragione con le armi per le legittime aspirazioni tradite.
Il genio propugnatore della terribile lotta fu Poppedio Silone, prode
condottiero dei Marsi. La sua famiglia, amata e rispettata dai Marsi per
l'esercizio di alte cariche, ebbe stabile sede in Marruvio e possedeva
nella zona ville di soggiorno. Nei dintorni si rinvengono iscrizioni celebrative,
tra le contrade "Le Rosce" (Ortona S. Sebastiano) e Castelrotto
(Pescina Venere).
Educato fin dai primi anni allo studio dell'eloquenza e alle armi, perfezionatosi,
secondo l'uso dei tempi, nello studio della lingua greca in Atene, allievo
di valenti maestri, strinse amicizia con i più nobili giovani romani,
eredi della facoltosa aristrocrazia e del censo, con lui dimoranti a scopo
educativo. Tornato in patria, attese al "cursus honorum" e,
in tale carriera, raggiunse così alte cariche da farlo ben considerare
"Princeps Marsorum".
Poppedio Silone fu uomo di grande coraggio e amatissimo della libertà
e prosperità della patria, entusiasta e ardente, di pronta intelligenza,
di carattere energico, rapido nelle pur ponderate decisioni. Dietro l'esempio
degli avi, sentiva una fervida brama di gloria e un forte desiderio che
lo stimolava, irresistibilmente, a imitare le virtù degli eroi
e a tentare di uguagliarne le gesta.
Convinto assertore di sani e onesti principi morali, si mantenne lontano
dal lusso e dall'intemperanza; fu solo attratto dalla patria, alla quale
dedicò con onore l'intera vita, sostenendone con le proprie forze
le libere aspirazioni.
Di agile e robusta costituzione, si esercitò sui monti e tra i
boschi in lunghe cacce, nel disprezzo d'ogni rischio e pericolo.
Sotto il comando di Caio Mario e di altri consoli, aveva combattuto coraggiosamente,
guidando i Marsi nelle battaglie africane. Pur in Asia e in Europa si
era segnalato per meriti distinti.
Alla morte di Druso, messe da parte le discussioni e i risentimenti, i
capi della lega, sotto la sua guida, stabilirono di porre in campo un
consistente esercito. Poppedio Marso fu l'animatore del movimento nazionale;
dopo aver dato lo statuto fondamentale alla lega, dettò il piano
militare. Ora non si trattava più di strappare a Roma la cittadinanza,
ma di ottenere la supremazia sull'Italia in vista della formazione di
una Confederazione che avesse la capitale nel centro della penisola. I
Sanniti, i più potenti "soci" della Lega, sacrificarono
ad una patria comune ogni ambizione e, per accordo, fu stabilita come
sede centrale Corfinio, di cui fu mutato il nome in Italia.
Tale sede di governo repubblicano merita un breve "excursus".
Il termine Italia è d'origine osca, deriva dalla voce "Viteliu',
corruzione dal greco italiota parlato dai coloni nel Brutium, ove subisce
evidente alterazione con la caduta della consonante "v" che
ne muta il senso. Presso gli antichi scrittori si formarono opinioni disparate,
circa l'origine di tale nome; secondo Aristotele sarebbe addirittura derivato
da quello del principe enotrio Italo, che avrebbe dominato l'estremo sud
della nostra penisola (Politica, I, VII, c. 10).
Altri, da Timeo a Varrone, posero in connessione Italia con il latino
"Vitulus"; ma, secondo una moderna interpretazione, il termine
non avrebbe l'accezione di terra dei vitelli, ma significherebbe già
da allora terra degli Itali, con preciso riferimento a gente che aveva
per simbolo totemico un vitello dal volto umano, particolarmente onorato
presso i Sabini. Tale ipotesi è soprattutto confortata da medaglie
coniate nel corso della vicenda definita "Guerra Sociale", anche
se accanto all'epigrafe osca, retrograda di contorno, si trova a volte
una porca o il toro sannita che minaccia una lupa capitolina. Yitelia,
Vitalia o anche Viteliud, riassumibili alla latina con il toponimo conclusivo
ITALIA, si trova pure presso Strabone. Comunque sia, il nome designa fin
dal IV sec. a.C. la regione compresa tra lo stretto di Messina e Metaponto.
Dopo questa breve digressione, riprendiamo,
ora, le fila degli storici avvenimenti. ,
I congiurati riuscendo appena a contenere il furore dei loro compatriotti,
ai quali erano uniti da solenni giuramenti, non attendevano che il momento
adatto per correre al segnale d'appello.
In quell'epoca il materiale necessario per far fronte a una campagna di
guerra era direttamente fornito dai compatriotti; quasi tutti gli uomini
liberi possedevano uno scudo, una spada e alcuni giavellotti.
D'altra parte le città alleate erano obbligate ad equipaggiare
i loro contingenti ed erano tenute ad apprcstare magazzini militari nelle
città fortificate sotto la protezione di guarnigioni permanenti
composte da militari. L'amministrazione degli affari generali fu affidata
a un Senato composto da 500 membri scelti tra i più attivi congiurati,
senza riguardo a ricchezze e alla loro importanza, ma solo in funzione
della capacità attiva. L'unico fine era scuotere il giogo e assicurare
alla comunità una esistenza libera in cui si ritrovassero i valori
fondamentali perduti. Tutte le città alleate, fatte proprie queste
promesse, formarono una lega nella quale ognuno trovò l'accordo
di opporsi fino al sacrificio di se stessi al prepotente avversario, visto
come oppressore e ostacolo al nascere di una Patria. Questa pur tardando
a venire era attesa e sospirata. I Marsi per primi aderirono con estremo
slancio. Della lega furono accesi sostenitori; a loro s'unirono Peligni,
Vestini, Marrucini, Frentani: tutti coraggiosi e agguerriti, sebbene male
equipaggiati e non sempre in grado di tenere testa alle legioni formanti
"testuggini", in un vero combattimento sostenuto in campo aperto.
Fu quindi guerra di appostamento, di sortita...
A questo nucleo di temerari s'unirono subito, a nord, i vicini Piceni;
a mezzogiorno i Sanniti, quindi gli Aprutini e i Lucani, di comune origine
e di uguali costumi, fino ad arrivare ad Etruschi e Umbri che chiusero
il cerchio, finché s'unirono i Venusini e Irpini a serrare in una
morsa il territorio stesso del Lazio inferiore ove Roma si sentì
oppressa e circondata. In una parola, l'Italia si trovò per la
prima volta compatta e desiderosa di governarsi con leggi uguali per tutti
e conformi a giustizia. Si costituì pure un Senato composto dai
rappresentanti designati da ogni città e si elessero due consoli
a imitazione dell'ingrata Roma che, come attesta Ovidio, "timuit
socia manus": Q. Poppedio Silone Marso e C. Mutilo Sannita.
Per la prima volta risuonò il nome di Italia. La lega fu chiamata
dagli alleati SOCIALE, ma più comunemente fu definita MARSICA per
l'evidente maggior apporto dei promotori di essa.
Strabone, trattando del "bellum marsicum", dice che durò
oltre due anni, e precisamente dal 91 all'89 a.C., date memorabili da
imprimere nella nostra coscienza.
Nel frattempo a Roma gli uomini più
saggi e prudenti, conoscendo l'animo di Silone, consigliarono la moderazione
con larghe concessioni e proposte. Non più dunque semplici promesse
inattuate!
Dall'una all'altra parte v'erano stati abili capi; liberale fu in generale
il comportamento; onorevoli risultarono i successi conseguiti. Però
neppure tale circostanza di estrema incertezza e di terribile ansia sbigottì
Roma, che non smentì la sua ben nota fermezza, allorquando, con
abile mossa, il console Lucio Cesare emanò la "lex Iulia";
per senato consulto si concesse lo "ius migrandi" e la cittadinanza
piena ai belligeranti che deponevano le armi. Non fu una sorpresa tale
politica disgregatrice. Dapprima si sottomisero Etruschi e Umbri, cui
seguirono i Piceni, mentre i Sanniti e Lucani continuarono a mantenere
il patto con l'intento di ottenere, fino in fondo, maggiori rivendicazioni
alle quali offrì l'appoggio incondizionato il condottiero marso
che rinnovò con fierezza il giuramento, anzi rinvigorito dal tradimento,
sostenne, a spada tratta, la causa comune con accanimento sino a morirne.
I pochi contingenti di reduci si rifugiarono nell'Ascolano, dove li sorprese
Gneo Pompeo, mentre Silla fronteggiava e stroncava gli estremi focolai
con il collaudato sistema della proscrizione, della denuncia, della decimazione:
essere trovato con le armi in mano fu considerata una colpa tremenda.
Gli aneliti di un popolo furono considerati atti di violenza. Ma, a parere
dei neutrali, fu criminale la repressione stessa.
Roma aveva indiscutibilmente vinto; ma il sacrificio non fu vano. Se oggi
godiamo dei diritti civili, il trionfo della giustizia sociale è
merito di un Marsicano che ha lasciato traccia di incancellabile ricordo,
non legato ad un monumento, ma ugualmente inciso in una materia più
dura del bronzo:
EXEGI MONUMENTUM AERE PERENNIUS
(HO INNALZATO UN MONUMENTO PIÙ DURATURO DEL BRONZO)
Ancora oggi si tramandano nel territorio
fucense questi episodi, di pace e di guerre, che abbiamo tentato di narrare,
cercando di ritrovare il senso dell'odio e dell'amore, dato che Poppedio
come Enea o come Romolo scomparve in una notte di tempesta...
Emilio Cerasani "Marruvium e
S.Sabina - memeorie storiche di due civiltà
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ritrovamenti, storia, notizie storiche