Carlo Goldoni: le commedie
Nel 1738 scrisse parzialmente il Momolo cortesan, più tardi interamente rielaborato e diventato L’uomo di mondo (1755 o 1756); per intero, nel 1743, La donna di garbo: in entrambe le commedie è un ideale di avveduta prudenza mondana, un senso ilare e francamente spensierato della vita, una morale sollecita dell’utile e del conveniente. Ripreso per breve tempo a Pisa (1745-1748) l’esercizio dell’avvocatura (compose allora i deliziosi divertimenti dell’Arlecchino servitore di due padroni e del Figlio d’Arlecchino perduto e ritrovato), tornò definitivamente al teatro legandosi al capocomico Medebac del teatro Sant’Angelo. Per lui scrisse, fra l’altro, La vedova scaltra, La famiglia dell’antiquario, La putta onorata, La buona moglie, portando sulla scena, accanto ai nobili tronfi e ai mercanti d’oculata saggezza, il mondo popolare della laguna e dei campielli, contemplato con simpatia nella sua vitalità genuina e immediata. Il consenso del pubblico fu schietto; l’impegno novatore venne acuito da rivalità di cassetta e da polemiche cittadinesche. Contro gli attacchi dell’abate Chiari, stravagante avventuriero della penna a lui opposto per ragioni di concorrenza, il Goldoni promise, per il 1750, sedici commedie nuove. Furono tra queste: Il teatro comico, La bottega del caffè, Il bugiardo, La Pamela. Nel 1753, dando vita a un fantasma più volte inseguito di femminilità scaltra e puntigliosa, scrisse La locandiera, uno dei suoi capolavori. Passò quindi al teatro San Luca (1753), di cui era impresario il Vendramin, con più vantaggioso contratto. Ma crescevano anche le critiche e le difficoltà. Carlo Gozzi, e con lui gli accademici Granelleschi conservatori in letteratura e in politica, gridava allo scandalo di un italiano ribelle alla disciplina puristica, di una morale irriguardosa del decoro nobiliare. Il pubblico, sconcertato dalle novità, cedeva alla moda delle commedie esotiche, cui anche Goldoni finì per render tributo con la trilogia di Ircana, La dalmatina, La peruviana, affidando la sua voce più vera - l’estro comico, l’amore per l’atmosfera pittoresca e gaia di Venezia, il gusto della folla tumultuosa e vivace - alle commedie in dialetto (Le massère, Il campiello altra opera tra le più felici, Le donne di buon umore o Le morbinose).
Toccò qui, con Gli innamorati(1759), I rusteghi (1760), La casa nova, Le smanie per la villeggiatura, Le baruffe chiozzotte e Sior Todero brontolon (1762), il più alto traguardo della sua arte, la cui sostanza è domesticità, tolleranza, giocondità, senso agile del ritmo della vita. Proprio nel 1762 tuttavia, sconfitto dalle fiabe drammatiche di Carlo Gozzi e attratto dal miraggio di fortune europee, lasciò Venezia per Parigi, dopo aver dato, con Una delle ultime sere di carnevale, un patetico saluto alla città. A Parigi fu costretto a riprendere, per la Comédie-Italienne, la pratica degli scenari dell’arte, da cui nacque ancora, tramata su un gioco di festosa sarabanda, una bella commedia, Il ventaglio(1765). Più convenzionale invece, se pur molto ammirata, Le bourru bienfaisant (1771), tradotto dallo stesso Goldoni col titolo Il burbero di buon cuore.
Chiamato a corte per insegnare italiano alle principesse, sorelle di Luigi XVI, si ritirò più tardi a Parigi (1780), fruendo di una pensione concessagli dal re, che fu poi soppressa, con grave suo discapito, dall’Assemblea legislativa (1792) e venne ripristinata da un decreto della Convenzione nazionale il giorno dopo la sua morte. Gli ultimi anni furono di penosa ristrettezza: malato e angustiato dalla povertà, ebbe accanto solo la moglie fedele, Nicoletta Connio, e il nipote Antonio. Si spense il 6 o 7 febbraio 1793. Ultima sua fatica le Memorie in francese Mémoires (1787), attestato della sua inesausta passione per il teatro e della sua calda, fiduciosa socievolezza. "Mondo e teatro" furono infatti i capisaldi della sua arte, tutta compresa tra un interesse umano sincero, se pur improntato a curiosità e umorismo, e un senso sicuro della scena, attinto alla scuola della commedia dell’arte.
|